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IL MISTERO DEL “CIPPO DEI TIRRENI” DI DELFI

Ebbene, cosa c’è di strano in questa breve epigrafe in etrusco e in greco, posta su un cippo noto agli archeologi come “Cippo dei Tirreni”, rinvenuto in Grecia, nel santuario di Delfi?

Nel testo diremmo che non c’è nulla di strano, poiché sembrerebbe una delle tante epigrafi dedicatorie di cui abbonda la “letteratura” – definiamola benevolmente così… – etrusca, sempre molto parca di iscrizioni sufficientemente lunghe e articolate, caratterizzata semmai da uno stile eccessivamente didascalico.

La rarità starebbe forse nel fatto che, essendo un’iscrizione bilingue potrebbe essere annoverata tra quei documenti epigrafici che consentono una corretta interpretazione di lingue morte, quali appunto l’etrusco. Se vogliamo, potrebbe essere un altro piccolo esempio di ciò che rappresentano le cosiddette “Lamine di Pyrgi”, scoperte sulla costa laziale, pochi chilometri a nord di Roma, nel 1964, in cui il re di Cerveteri dedica un luogo sacro alla dea Astante.

Lamine che, mostrando una stessa iscrizione in due distinte lingue – etrusco e punico – hanno consentito di svelare qualche altro segreto della misteriosa lingua dei Tyrsenoi. Insomma, non proprio un’altra piccola “stele di Rosetta”, ma… quasi.

E invece no. Il mistero sta ben oltre, sta nel fatto che tale brevissima iscrizione è del tutto “invisibile” per chiunque. Tranne che per l’archeologo Claude Vatin (1927 – 2008).

Vatin non è affatto il classico “ultimo arrivato” in ambito archeologico. Anzi, egli è stato un affermato e apprezzato docente dell’Università di Aix-en-Provence, e se non fosse stato per questa importante epigrafe, molti suoi colleghi, nel non lontano 1983, non lo avrebbero guardato come si guarda un visionario!

Ma procediamo con calma nell’esaminare dapprima gli elementi di carattere storico ed epigrafico che farebbero di questa “invisibile” iscrizione uno dei tanti enigmi dell’archeologia. Anche di quella meno “di frontiera”.

La nostra avventura inizia quasi venticinque secoli or sono, quando i coloni greci insediatisi a partire dall’VIII secolo a.C. sulle coste meridionali della nostra Penisola non vollero edificare città più a nord di Cuma, stupenda località sul golfo dell’antica Neapolis. I coloni di quelle località che costituirono poi la cosiddetta Magna Grecia trovarono infatti molte difficoltà a spingersi più a nord, a causa della quasi capillare presenza sulle coste dell’Italia centrale di insediamenti etruschi e latini fino alla Liguria e ben oltre. Fino all’attuale Provenza, dove i Tyrsenoi – i Tirreni, gli etruschi – edificarono, ad esempio, la città di Massalia, ovvero l’attuale Marsiglia.

Cuma era diventa così una specie di avamposto, una città che costituiva il confine tra i territori dominati dagli etruschi e quelli sotto la giurisdizione dei greci sbarcati sulle nostre coste. La situazione appariva talmente calda che nel 524 a.C. gli etruschi si decisero e, sostenuti da alcune popolazioni italiche, attaccarono Cuma, città che si difese tanto efficacemente da cercare di contrattaccare alcuni decenni più tardi, quando il suo esercito dichiarò guerra ad alcuni insediamenti sulle coste laziali.

Ma si sa: “chi di spada ferisce, di spada perisce” e così anche i pur valorosi cumani, poco dopo, vedendo la mal parata, dovettero chiedere aiuto ai tiranni di Siracusa, la più potente tra le colonie greche in Italia. L’onnipresente ‘do ut des’ dell’esistenza – ti do qualcosa purché tu contraccambi – poco prima aveva impedito ai coloni della Magna Grecia, in lotta contro l’esercito persiano, di avvalersi dell’aiuto di questi esosi tiranni poiché il siracusano Gelone pretendeva il comando supremo di ogni operazione militare, mettendo così in un cantuccio i generali greci. E non se ne fece nulla…

Ma ora la situazione appariva ben più grave e – obtorto collo – i cumani dovettero accettare le condizioni loro impostegli da Ierone, successore dell’altrettanto esoso Gelone, e, con l’intervento di moltissime triremi, ebbero la meglio sulle pur bene attrezzate navi etrusche in una battaglia navale, nel 474 a.C., al largo di Cuma.

Naturalmente i siracusani approfittarono dell’occasione e occuparono a lungo Pythecusa –  l’attuale Ischia – punto strategico per controllare l’accesso alla città di Neapolis. Oltre che – allora forse più di oggi – stupenda località…di villeggiatura. Poiché “la storia la scrivono i vincitori”, anche in questo caso i siracusani si premurarono subito di eternare la loro gloria – il loro kleos – inviando alla greca città di Olimpia armi e prede tolte agli sfortunati etruschi battuti a Cuma e, non contenti ancora, lasciando tracce della loro vittoria su preziosi cimeli d’oro da inviare a Delfi.

Come, d’altra parte, aveva fatto ancor prima Gelone, dedicando un magnifico tripode d’oro ad Apollo e   inviandolo al santuario della medesima città greca.

Però, pur disponendo di tutte queste testimonianze dedicatorie, gli storici sono rimasti a lungo all’oscuro di gran parte delle trattative segrete, di tutti gli importanti eventi che hanno preceduto l’intervento della flotta siracusana contro gli etruschi che minavano l’area cumana. All’oscuro ma non per molto, però…

Orvieto, 1983. Convegno sulla città di Volsinii e la Dodecapoli etrusca. In un consesso altamente scientifico, caratterizzato da archeologi, epigrafisti, storici, insomma da studiosi appassionati ai “misteri” etruschi ma inquadrati in un’ottica esclusivamente razionale, prende la parola l’esimio professor Claude Vatin, il quale espone dottamente la sua interpretazione di un’iscrizione bilingue, greco-etrusca, posta su un fianco di una stele – appunto il “Cippo dei Tirreni” – rinvenuta da tempo nel santuario di Apollo a Delfi.

Uno dopo l’altro, sullo schermo della lavagna luminosa – i Personal Computer e sofisticati software come Power Point sarebbero giunti qualche anno più tardi – si susseguono fotografie del lato del cippo dove, secondo Vatin, sarebbe incisa la dedica riportata all’inizio di queste righe…

Dedica in greco ed etrusco che, sempre secondo Vatin, sarebbe incisa, a Delfi, anche su un thesauros, ovvero un edificio ove, nei santuari, venivano conservate le offerte votive. Ma solo lui le legge!

Gli altri studiosi, al massimo, intravedono qualche traccia di lettere – etrusche? Greche? – e nulla più…

Qualche obiezione insorse quasi subito tra i vari ricercatori – ripetiamo: del tutto incapaci di leggere sul cippo ciò che invece Vatin “leggeva” con estrema facilità – sui misteriosi Velthanei? Ma chi erano costoro?

Vatin “leggendo” meglio le invisibili lettere dell’iscrizioni greco-etrusca optò in un primo tempo per ”Veltha”, divinità etrusca identificata con il dio Apollo, poi con una legge etrusca riferentesi al Fanum Voltumnae, per poi stabilire decisamente che si trattava dei “Velthana”, probabile famiglia etrusca che con l’iscrizione… fantasma avrebbe voluto emulare i Dinomenidi, la famiglia del siracusano Ierone, deus ex machina nella vittoriosa battaglia cumana del 474 a.C contro gli etruschi.

Nulla di strano se così fosse realmente. Anzi si aggiungerebbe un’altra importante tessera al complesso mosaico rappresentato dalla ormai non più indecifrabile lingua etrusca. E anche un’altra piccola ma importante tessera all’ancor più complesso mosaico della storia della nostra Penisola in quei lontanissimi tempi. Ma tutti gli studiosi convenuti alle orvietane giornate di studio dovettero fare il classico atto di fede nei confronti del chiarissimo professor Claude Vatin, poiché pur sforzandosi di vedere l’iscrizione… nessuno vedeva nulla!

O meglio, qualcuno vedeva qualcosa. Qualcuno forse suggestionato dal convincente e dotto eloquio dell’epigrafista francese incominciava ad intravedere tracce dell’iscrizione “invisibile”. Oppure pensava di vedere ciò che Vatin gli suggeriva, quasi come in un inconsueto, archeologico test sulle «macchie di Rorsach».

Chissà…

Escludendo a priori un improvviso impazzimento dell’epigrafista d’Oltralpe, non pensando neppure per un istante ad un tentativo di frode da parte di un serio studioso che da tale improbabile tentativo avrebbe ricavato solo irreversibili danni alla sua carriera accademica, l’unica spiegazione, l’unica via percorribile da chi si interessa sia di “archeologia di frontiera” sia degli infiniti, ancor reconditi, aspetti delle facoltà di percezione extrasensoriale dell’Enigma Uomo potrebbe essere quella di una sorta di “contatto psichico” – quasi una forma di inconscia indagine psicometrica – da parte di Vatin con il reperto archeologico in questione.

Ma quella, sempre che esista, del “Cippo dei Tirreni” non è l’unica “iscrizione invisibile” del mondo dell’Archeologia………….

e siccome in Italia abbiamo la maggior concentrazione mondiale di monumenti, artistici ed architettonici, siti storici e archeologici, ad esempio ad Alatri (FR) di “iscrizioni invisibili” ce ne sono ben due…

(Roberto Volterri)

Illustravo brevemente ad alcuni clienti non di Alatri, alcuni cenni storici sull’Acropoli della città e in particolare sulla Porta dei falli. Era un giorno di pioggia e casualmente ho notato la scritta, poco distante da quella rinvenuta ormai dieci anni fa ma che ancora non è stata decifrata” così Massimo Scerrato, proprietario del ristorante “La Rosetta” ad Alatri, raccontava al quotidiano “Ciociaria Oggi” del 15 maggio 2002, la scoperta di una misteriosa e ancora indecifrata iscrizione presso la Porta dei falli o Porta Minore della Civita (o Acropoli) di Alatri (FR). “Si notano chiaramente alcune lettere” proseguiva lo scopritore “e la nuova scritta è molto più lunga della prima, ma ci vorrebbe un esperto per capire di cosa si tratta realmente”.

L’iscrizione è praticamente invisibile di giorno. Invece si riesce a notarla di notte, in condizioni di tempo piovoso o comunque umido.

Ho potuto notare le lettere in evidenza perché ultimamente (in quei giorni dell’ormai lontano maggio 2002 NDA) è stato sostituito il piccolo lampione che si trova applicato proprio a pochi centimetri dal masso inciso e adesso la luce è molto più potente. Poi l’acqua della pioggia che bagna la pietra, rende la superficie più lucida e quindi, grazie a questi elementi l’incisione è più visibile” concludeva Scerrato.

La Porta Minore si apre sul lato nord-occidentale delle Mura della Civita alatrense. L’apertura è scandita da quattro massi di diverse ragguardevoli dimensioni. L’architrave monolitico (con scolpiti i tre falli apotropaici che danno il nome all’ingresso e che sono stati in gran parte abrasi nel Medio Evo o, secondo altri studiosi, nella prima metà del XIX in occasione della visita papale di Gregorio XVI) è lungo 3,50 metri.

Il macigno ”trova la sua logica continuazione nella retrostante galleria ascensionale coperta con monoliti in progressivo aggetto, secondo un sistema riscontrabile solo all’interno della piramide di Menfi” (da “Aletrium” di Mario Ritarossi, Tofani editore 1999).

E proprio presso questa straordinaria struttura megalitica (superata ad Alatri solo dall’ancor più stupefacente “Porta Maggiore” che si apre sul lato meridionale ed è alta 4,5 metri e larga 2,68. E’ stata realizzata mediante la sapiente sovrapposizione di otto enormi massi sormontati da un architrave monolitico lungo circa 5 metri del peso stimato di almeno 27 tonnellate) si trovano le due “invisibili” e misteriose iscrizioni di cui si parla nell’articolo di “Ciociaria Oggi” citato all’inizio.

Siamo riusciti a vederle pure noi e ad indicarle ai partecipanti all’Itinerario del Mistero del 12 agosto scorso, organizzato da “Vivi Ciociaria-Itinarrando” assieme al nostro sito, al sottoscritto e alla dottoressa Annalisa Copiz. Nell’occasione, Marisa D’Annibale del Mistery Team è riuscita ad immortalare l’iscrizione incisa sull’architrave, a sinistra (per chi guarda la Porta Minore) dei falli semi abrasi.

L’altra, con un po’ di fortuna, sono riuscito a fotografarla in pieno giorno.

Ma, al contrario di Claude Vatin e del “Cippo dei Tirreni“, nel caso delle iscrizioni alatrensi nessun archeologo vi ha “letto” alcunché.

Alcuni vi hanno però riconosciuto delle lettere dell’alfabeto “osco”.

La Lingua osca, facente parte della grande famiglia delle lingue indoeuropee, era parlata presso gli Osci (o Oschi), popolazione imparentata con i Sanniti (con cui si fusero nel V secolo a.C.) che viveva nella Campania preromana. L’osco, sebbene venisse scritto anche con caratteri greci e latini, disponeva di un proprio alfabeto. Ed è proprio questo che sarebbe stato utilizzato per le due iscrizioni “invisibili” della Porta Minore di Alatri.

Ovviamente, se fosse davvero così, sorgebbe un interrogativo. Anzi più di uno.

Che cosa ci facevano gli Osci ad Alatri?

O ancora, chi utilizzava questa lingua e questo alfabeto nella città Ernica?

C’è pure chi ha tentato di utilizzare queste due incisioni (non ancora decifrate, sia chiaro!), per datare l’Acropoli alatrense e per cercare di collocarla in epoche più remote di quelle che le riconosce l’archeologia ufficiale (circostanza di cui è convinto lo scrivente. Ma questa è un’altra storia).

L’unica certezza che si ha al momento è che entrambe le iscrizioni “invisibili” rimangono un enigma apparentemente insondabile. Uno dei tanti misteri che ancora avvolgono la Città megalitica e le sue superbe muraglie ciclopiche che sconvolsero Ferdinand Gregorovius.

Giancarlo Pavat e Roberto Volterri

(Se non altrimenti specificato, le immagini sono del professor Roberto Volterri)

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