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30 Febbraio 2006 ARCHEOLOGIA
Archaeogate
Anna Maria Donadoni e il Museo Egizio di Torino
tempo di lettura previsto 13 min. circa

Sono arrivata a Torino il 16 agosto 1984 per assumere la responsabilità del Museo Egizio, e me ne vado il 16 agosto 2004: sono 20 anni, che si aggiungono ai 14 (1965-1979) che avevo trascorso a fianco del mio predecessore Curto, al termine dei quali ho il diritto-dovere (meglio: sento il dovere-diritto) di una relazione che testimoni quello che ho fatto e perché l'ho fatto.

Il "Museo" mi appare (e mi è sempre apparso) come una identità culturale con una sua personalità maturata nella sua storia e nei significati che ha successivamente assunto. Non è certo una struttura pigra e immobile, ma va – anzi – di volta in volta interpretando quelle che sono le esigenze del mutare del quadro culturale e offrendo il suo materiale in appoggio alle richieste connesse.

Esso si colloca nella società con la perentorietà di un servizio offerto alla collettività, come la scuola (o la posta, o la ferrovia, perché no?) e di conseguenza con una specifica deontologia, alla quale ho cercato di tener fede nella mia attività.

Le ricchezze del Museo di Torino si dividono in due gruppi ben definiti: un primo blocco è quello che ne ha determinato la nascita, costituito dalla collezione di oggetti di ogni tipo formata dal Console Drovetti all'inizio dell'Ottocento, e acquistata per Torino nel 1824.

È il frutto di una attività tumultuosa di recupero di monumenti raccolti senza un particolare interesse metodico, e che si proponeva fondamentalmente di offrire un quadro totale di quanto poteva provenire dallo scavare in Egitto, con una sottointesa mentalità "enciclopedica" che ha valorizzato anche oggetti banali e di modesto o nullo significato artistico.

Una collezione di grande valore proprio per questo, e che storicamente ha avuto la funzione non dimenticabile di banco di prova per la dottrina dello Champollion.

A questo primo nucleo si aggiunse, dall'inizio del '900, il risultato degli scavi condotti in varie località dell'Egitto dallo Schiaparelli: scavi che han fornito ampia messe di materiali di ogni tipo, ma - in questo caso – capaci di essere posti in relazione fra loro, così da far scaturire una più ampia comprensione di valori, che superi quelli della "tipologia" per quello della "storicizzazione".

I due gruppi di monumenti rispecchiano mentalità diverse, e, per sottolineare la "personalità" del Museo nel suo divenire, richiedono una chiara differenziazione organizzativa ed espositiva.

Questo ha voluto dire anzitutto una nuova distribuzione di spazii. Ed è così che – con la fattiva e determinante sponsorizzazione del San Paolo – un intero edificio satellite del Museo (la cosiddetta "Ala Schiaparelli") è stato trasformato da un deposito a un piano a una struttura di cinque piani, di cui due sotterranei, che ha ospitato uffici e laboratori nei piani a vista, e sale per esposizione nel primo piano sottoterra. Collegando queste con la grande sala lasciata a disposizione dal trasferimento del Museo Archeologico, si è avuta la possibilità di un percorso articolato in cui organizzare i frutti degli scavi Schiaparelli, ricomposti in unità topografiche che coincidono in linea di massima con la serie cronologica.

Si ha così una prima sezione pre e protostorica appoggiata agli scavi di Hammamija del 1905, una sezione dell'età menfita legata agli scavi a Giza del 1903, e, nei nuovi ambienti sotterranei, materiali del I periodo intermedio e del Medio Regno, che derivano dagli scavi di Gebelein, di Asjut e di Qaw el Kebir. Un piano di ampliamento della disponibilità del sotterraneo alla regione sotto il cortile (piano portato avanti nella progettazione fino all'accettazione ministeriale) è restato bloccato allorché una improvvisa e dissennata proposta di trasferimento del Museo a Venaria ha bloccato ogni lavoro da compiersi in un museo "vecchio", di cui si prevedeva la chiusura.

Considero mio merito l'essermi opposta per quanto potessi a tale inconsulto provvedimento; e infine la mia opposizione fu confortata da un voto popolare e da una valutazione di ineconomicità: ma se il Museo fu salvo, non fu però possibile attuare i piani prestabiliti poiché nuovi spazi dovranno essergli attribuiti con il previsto trasferimento della Sabauda.

Mi resta dunque provvisoria la sistemazione del materiale del Medio Regno, incentrata su quel che è un tesoro della collezione, il complesso delle pitture murali di Gebelein.

È stato invece possibile costituire, al primo piano del Museo, una ampia raccolta di monumenti del Nuovo Regno di provenienza Tebana, unificando il materiale di origine Drovetti con altro Schiaparelli in esposizioni di Deir el Medina e della Valle delle Regine.

Le due anime del Museo sono state messe in evidenza non solo dal diverso modo di collegamento dei materiali (tematico e tipologico quelli del Drovetti, cronologico e topografico quello dello Schiaparelli) ma anche da quel che ne è la presentazione.

Il settore "cronologico" è stato immaginato cercando di riunire insieme, in complessi organici e in ricostruzioni, oggetti precedentemente divisi e che ora appoggiano la loro valenza all'essere collegati.

Già lo Schiaparelli aveva riunito – contro le abitudini del tempo -, in uno spazio voluto pari a quello in cui era stato trovato, tutto il corredo intatto di Kha (un'altra delle singolarità del Museo). Noi abbiamo fatto un passo ulteriore, e abbiamo ricostruito l'ambiente originario della tomba di Ini a Gebelein, riunendo fuori dai depositi tutti gli elementi del corredo ricollocandoli così come erano stati trovati, appoggiando la nostra ricostruzione alla descrizione del giornale di scavo. E li abbiamo illuminati – primi in Italia – a mezzo di fibre ottiche. Una quantità di oggetti per sé insignificanti che ingombravano gli armadi, una volta riuniti insieme han riassunto un peso documentale.

In modo simile, una serie di monumenti epigrafici e decorati e una statua provenienti dagli scavi di Giza sono stati recuperati dalla loro dispersione e risituati in un nesso originario, ricostruendo, sulla fede della documentazione fotografica ed architettonica, l'edificio da cui erano stati estirpati. La capacità espressiva della ricostruzione rivaluta quel che prima era una disarticolata serie di documenti di non grande peso.

Lo stesso vale per la ricostruzione di una tomba predinastica; e, con un senso scenografico assai evidente, per la ricostruzione della facciata rupestre del tempio di Ellesija, che ha potuto adoperare e rimettere in sede le iscrizioni che erano state prima collocate a parte.

Il radicale ripensamento della esposizione ha comportato anche una chiara opposizione nella tipologia della presentazione. Il settore "topografico-cronologico" ha reso esplicita la sua novità di impostazione anche nel linguaggio del suo arredo, con vetrine appositamente pensate per specifiche funzioni e capaci di sottolineare quanto fosse ritenuto fondamentale.

Il piano superiore del Museo, dove è raccolta in massima parte la collezione Drovetti, ha riadoperato le vecchie vetrine e bacheche, spesso invidiateci dai colleghi stranieri, direttori di musei di meno antica nobiltà. Ma va da sé che il recupero di quell'antico materiale ne ha comportato una profonda modifica funzionale per quanto concerne tenuta, sicurezza, illuminazione e che l'apparente immediato recupero copre di fatto una rivoluzione di criteri.

Conservazione ed esposizione non esauriscono le funzioni e gli obblighi di un museo, e – anzi – sottolineano una esperienza ed una attività di ricerca. Una mostra del 1989 "Dal Museo al Museo" ha messo in evidenza un intero campionario di recuperi e reinterpretazioni di nostri monumenti; ma in questa luce va messa anche la ripresa, nel 1990 della esplorazione di Gebelein, dove l'intervento archeologico ha avuto come scopo principe l'identificazione sul terreno del luogo e della situazione d'origine di materiali presenti nel Museo.

È frutto di questa ripresa la stesura di una carta archeologica della zona e la riscoperta della tomba da cui provengono le pitture murali in nostro possesso. Se non abbiamo recuperato oggetti (e ora le leggi egiziane lo escludono) abbiamo attuato un modello di ricerca più consono alla nostra cultura, volto ad acquisire dati utili e a definire situazioni più che ad accaparrarsi materiali.

Ma dove il Museo ha mostrato la sua vocazione scientifica è nella tenace opera di pubblicazione dei suoi monumenti, in una serie di volumi di "Catalogo" monografici o collettivi, la cui redazione è stata affidata a studiosi italiani e stranieri, in quello spirito di internazionalità che ha contraddistinto il nostro Museo fin dalle sue origini e da allora in poi continuamente.

È una serie di volumi concepiti per durare come basilari, e ne sono stati curati e pubblicati nove negli anni miei, quattro dei quali a opera del personale scientifico interno al Museo.

Ma a mostrare quanto poco gli egittologi si limitino a parlare a se stessi e ai loro stessi colleghi (così è stato detto in sedi ufficiali) c'è la serie di pubblicazioni rivolte a un pubblico assai vasto. Una guida di base – in quattro lingue – (per la quale non sono stati richiesti diritti d'autore), alcune guide specifiche, e soprattutto i quattro volumi che il San Paolo ha distribuito in quattro anni e che illustrano con materiali del Museo tutti i vari aspetti della civiltà egiziana e la storia del suo ricordo dall'antichità ad oggi.

Questa apertura verso un pubblico più vasto è connessa con le caratteristiche di "servizio" che sento essenziali al "Museo". E proprio perché "servizio" il Museo non può sottrarsi a una fruibilità più ampia possibile. Ed è così che ho sentito l'obbligo di non chiuderlo neanche per un giorno per facilitare i lavori di restauro e di allestimento (e ricevendo così di tanto in tanto proteste per qualche sala chiusa o per qualche momentaneo disordine) e questo in un ambiente cittadino che ha visto e vede chiusi per anni molte delle sue importanti raccolte.

In questo ambito c'è – naturalmente - di più. Ho sentito la Soprintendenza del Museo come Soprintendenza all'Egittologia (così per un breve periodo è stata – opportunamente – definita in via ufficiale) e abbiamo dall'esterno aiutato altri enti e altre manifestazioni.

Da ricordarsi congressi e incontri, fra cui quello di particolare peso del 1991 che ha visto a Torino 1500 partecipanti al VI Congresso internazionale di Egittologia – i cui atti sono stati sponsorizzati dall'Italgas – e più recentemente quello Italo-Egiziano del 2001 i cui atti hanno visto la luce grazie al San Paolo.

Ma a un livello meno episodico e più quotidiano, la Biblioteca del Museo si è arricchita in questi anni di più di 3000 volumi, e segue 49 riviste: è un centro di ricerca, il più ricco in Italia, cui si appoggiano studiosi e studenti, in una oramai antica consultazione, specie quelli della locale Università (che, immaginata come "centro di eccellenza per l'egittologia" nei recenti piani ministeriali non ha, comunque, una piena cattedra della materia).

E al Museo fa fisicamente capo anche quell'Istituto Italiano per la Civiltà Egizia (IICE) che riunisce coloro che della ricerca egittologica e papirologica sono rappresentanti ufficiali.

C'è un altro campo in cui il Museo è uscito dalla semplice funzione di contenitore di monumenti e ha arricchito la sua funzione di motore di cultura: le mostre, con una prudente scelta circa la qualità e la valutazione dei rischi. Tutte le grandi mostre egittologiche hanno avuto rapporti con il Museo, ottenendo in taluni casi prestiti di specifici monumenti, in altri aiuto di supporto come garante o consulente. Basterebbe ricordare la mostra "Iside" a Milano (1997) o, più specificamente quella sulle origini a Ravenna (1998) o su Nefertari prima a Roma (1994) e poi in molte successive edizioni.

Sono state, queste, occasioni e radici di una usuale collaborazione con i grandi musei stranieri (il Louvre, il British, Berlino, il Metropolitan) che ha avuto il suo culmine formale nel "gemellaggio" con il Museo del Cairo, celebrato in questo ultimo anno.

Ma c'è stata anche una serie di mostre specificamente proposte e attuate dal Museo nella sua sede. Alcune di particolare importanza tecnica, come quella sull' "Oro di Meroe" (1994-1995) che ha visto riunite le scoperte ottocentesche del Ferlini, divise fra Monaco e Berlino, e ha offerto la rara possibilità di vedere ricostruito nella sua complessità quel singolare tesoro di gioielli meroitici.

Più che questa o altre simili, però, le mostre hanno avuto l'aspirazione a far del Museo un centro di incontro fra un definito passato (egiziano) e l'epoca nostra.

Da una mostra (a ovvio carattere sociologico) come quella sui "Fumetti d'Egitto" (1993) che ha messo in evidenza gli stereotipi secondo cui è sentita nella cultura quotidiana quella antica civiltà, a mostre come quella "Giuseppe e Akhenaten. Thomas Mann e l'Egitto"(1995), "Viaggio in Egitto. Racconti di donne dell'Ottocento" (1998), o, infine, quelle che hanno portato interi gruppi di opere figurative di artisti contemporanei a mescolarsi con quelle del Museo, scoprendo riecheggiamenti e consonanze: "Les Egyptes bleues", "Time machine" (1995-1996), "Ostracon. La memoria dei tempi" (2003).

Ho cercato insomma di togliere il Museo da quel "complesso della mummia" di cui spesso è vittima chi lo abbia visitato in altri tempi o da bambino.

Ma anche le mummie hanno avuto la loro parte nella recente vita del Museo, e un volume del "Catalogo" è stato dedicato a un loro gruppo. Successivamente è stata ripresa la collaborazione con l'Istituto di Antropologia e l'Istituto di Radiologia dell'Università che alle già sperimentate ricerche con i raggi X ha aggiunto le assai più complesse e più fruttuose esplorazioni fisiche attraverso la Tomografia Assiale Computerizzata ( TAC). Un passo successivo è stato raggiunto attraverso la collaborazione con la Polizia di Stato che ci ha permesso di arrivare alla ricostruzione del volto di un personaggio della XXV dinastia.

Il Museo ha cercato così di collegarsi con tutta la realtà della cultura viva, e si è volentieri inserito in quel polo museale che al centro di Torino raccoglie possibilità non comuni (anche se non tutte attuate) di scoperta e di arricchimento di saperi.

Tutto quello che fin qui ho detto ha un senso ben preciso: vuol far capire non tanto quel che è stato fatto, ma con quale spirito sia stato concepito e la razionale pianificazione, la identificabile scelta di cultura che lo ha sotteso. E per ciò che si è realizzato debbo ringraziare quelli che, nel Museo e fuori (alcuni con particolare impegno) mi hanno appoggiato e aiutato anche nei momenti difficili.

Molto mi sarebbe restato da fare, e lo so; molto, semplicemente, non ho fatto: ma il non compiuto è, per definizione, infinito rispetto alla finitezza di qualsiasi attuato.

Solo di una mancanza non mi pento: il non aver avviato l'attrezzatura per una evasione verso il multimediale e virtuale. Il Museo è di sua natura e di sua essenza il luogo dove si ha un personale e immediato contatto con la realtà, o meglio l'autenticità, di quel che il Museo conserva, e il visitatore deve essere convinto a vederla con gli occhi suoi per assimilarne la valenza.

Non so quanto possa sperare che la mia impostazione valga per quella Fondazione che, con i suoi 28 membri di consiglio e di comitato mi succederà. Con la Fondazione del San Paolo (che nacque, ricordo, proprio per poter permettere alla Banca di intervenire a favore del nostro Museo) ho avuto a suo tempo l'esperienza di una collaborazione perfetta: ma quel che si prospetta non è una collaborazione, bensì una gestione sostitutiva.

Pure, penso che – una volta che la ubriacatura da managerialità sia sbollita – la Fondazione futura saprà impegnarsi a far valere il peso civilmente culturale di questo che (anche se non il più grande) è il più nobilmente antico dei Musei Egizi.

Questo testo avrebbe dovuto essere pubblicato in "Serekh III", l'annuario che l'ACME (Associazione Amici Collaboratori del Museo Egizio) offre agli associati. Mi era parso opportuno, proprio nel momento in cui si festeggiavano i trenta anni dell'Associazione, così organicamente connessa col Museo, ripercorrere quelli che erano stati i criteri e i risultati del lavoro compiuto durante i venti anni della mia direzione, ormai giunta al suo termine. All'ultimo momento, però, il testo già in bozze è stato espulso dal volume, ufficialmente perché "non coincidente con l'intervento diretto da me tenuto" durante la cerimonia celebrativa del trentennale. Dolorosamente sorpresa, affido ad Archaeogate questo testo che avevo significativamente intitolato "Quasi un testamento".