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19 Agosto 2004 ARCHEOLOGIA
Avvenire
L'Arabia Saudita e il flagello dell'archeologia
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A La Mecca hanno raso al suolo l'antico caravanserraglio, con splendido porticato, detto «Monastero Egiziano», perché da secoli ospitava i pellegrini dell'Egitto che visitavano la Kaaba; la fortezza ottomana di al-Ayad è stata sostituita da palazzoni di trenta piani. Hanno distrutto la casa dove Maometto visse con la sua prima moglie Khadija. A Medina hanno spianato coi bulldozer le tombe venerate degli Ashab, i primi compagni del Profeta. Sui siti storici che commemoravano le vittorie belliche di Maometto ad Uhud e Badr hanno steso un immenso parcheggio. Antichi minareti vengono abbattuti. E non sono nemici dell'Islam a promuovere la furia iconoclasta contro i luoghi santi musulmani (nessun "infedele" può nemmeno entrarvi), bensì i clerici wahabiti, la versione saudita del fondamentalismo islamico. Li sostiene la convinzione che ogni reverenza verso luoghi, reliquie di Maometto e persino il culto dei santi sia una forma di "politeismo", perché distoglierebbe i veri credenti dalla fede nell'Unicità di Dio (Tawwid). «Restano forse una decina dei trecento monumeti nei luoghi santi», ha dichiarato l'architetto Sami Angawi al Wall Street Journal: «Mecca e Medina hanno visto più devastazioni negli ultimi 50 anni che nei precedenti 1500». Sami Ansawi, laureato all'Università del Texas, titolare di un dottorato alla London School for Oriental Studies, sta lottando per salvare quel che resta del patrimonio storico musulmano dal fanatismo dei correligionari. Nel 1990 ha tentato di impedire la distruzione della casa di Maometto e Khadija: invano. È riuscito solo a strappare il permesso per una veloce prospezione archeologica di 40 giorni, prima che il sito venisse sepolto dal cemento. Da allora, Ansawi tiene (in case private) conferenze con proiezioni di foto sui 611 siti artistici e archeologici in Arabia Saudita, che l'Onu ha catalogato come patrimonio dell'umanità e che il regime saudita s'è impegnato formalmente a proteggere. È lo stesso Ansawi a rivendicare, come radice della sua apertura culturale, la propria appartenenza al Sufismo. Come spiega lui stesso, contrariamente a quel che pensano gli occidentali che lo chiamano "esoterismo islamico", il Sufismo è stato per secoli la forma popolare della fede musulmana. Specie in Nordafrica e in India, ogni famiglia musulmana era tradizionalmente collegata a un "tarika", confraternita sufi, i cui membri si consideravano figli spirituali di un qualche santo islamico, magari scomparso da secoli, un po' come i terziari francescani si collegano alla spiritualità di San Francesco. Nella confraternite il fedele trovava forme di intimità spirituale (per esempio la preghiera personale e varie forme di ascesi) che l'Islam ufficiale non richiede. Una più ricca vita religiosa che spesso si traduceva in atteggiamenti di cordiale apertura, anziché di fanatico rifiuto verso le altre fedi. È significativo il fatto che, in Algeria come in Afghanistan, dovunque i fondamentalisti islamici hanno sradicato il sufismo e i suoi luoghi di culto (per lo più tombe di santi). Oggi, l'architetto Ansawi si chiede se i fondamentalisti, lungi dall'essere i "veri credenti", non siano piuttosto i colpevoli di un impoverimento e ossificazione fatale della fede, e i traditori della religione. Un poco, dice, «come il protestantesimo ha impoverito il Cattolicesimo "depurandolo" dal culto della Vergine». Ma è ancor più significativo che Ansawi non sia un perseguitato. Dopo l'11 settembre, nella casa regnante saudita è in corso una revisione del wahabismo. Ansawi è stato invitato dal principe Abdullah in persona (il reggente) a una sessione del Dialogo Nazionale, una seria di incontri fra intellettuali, giornalisti e autorità saudite lanciata dalla casa regnante allo scopo di discutere maggiori aperture, per esempio sulla condizione della donna e della minoranza sciita in Arabia.