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6 Agosto 2004 ARCHEOLOGIA
Avvenire
I tesori del mare
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Si chiama Baia. Un nome che racchiude un destino; l'archetipo della baia. Protetta dal lungo abbraccio della costa, quella porzione di mare poco sopra a Napoli, la baia di Baia, conserva i resti di quello che era uno dei luoghi di vacanza preferiti dell'aristocrazia romana. Ci veniva l'imperatore Claudio con tutta la famiglia. E la corte era anche centro di attività culturale: non mancano i luoghi letterari dove si parla della magnificenza della città termale di Baia. Le terme infatti erano uno dei suoi principali punti di attrazione. C'era un sontuoso ninfeo, con mosaici composti da piastrelle vetrificate e conchiglie, statue che si riferiscono alla scena omerica dell'inebriamento di Polifemo o che riproducono in forme classiche i tratti di alcuni parenti di Claudio. Non lontani dal ninfeo si ergono 12 piloni che individuano un viale. Tutto è poggiato e semisommerso nella sabbia, a una profondità dai 4 ai 16 metri. A 400 metri dalla riva. Qua e là fuoriescono grappoli di bollicine: è il fiotto di acqua calda che testimonia il passato termale dell'area, che il bradisismo ha lentamente sommerso.

«Tu che hai svegliato dai sogni estivi il blu Mediterraneo, mentre si cullava con le correnti cristalline accanto a un'isola di tufo, nella baia di Baia, e vedi palazzi e torri addormentati rabbrividire nell'intenso giorno...»: così ha scritto Percy B. Shelley nella sua sua «Ode al vento occidentale», dopo essere passato in barca in quel braccio di mare incantato. Si era alla fine dei primi due decenni dell'800.

Per quanto l'importanza archeologica del mare di capo Epitaffio sia sempre stata nota, è solo nel 1959 che comincia un'indagine archeologica seria. Già i pescatori con le loro reti, e altri per interesse artistico o commerciale, avevano asportato oggetti di rilevanza archeologica, la cui qualità e quantità sono destinate a rimanere ignote. Perché i mari, e in particolare il Mediterraneo, da millenni luogo di ricchi commerci navali, custodiscono tesori perlopiù ancora non conosciuti. «L'archeologia subacquea comincia solo quando vi sono i mezzi adatti per l'esplorazione», spiega Claudio Mocchegiani Carpano, responsabile della sezione tecnica per l'archeologia subacquea del Minisitero dei beni e le attività culturali. L'autorespiratore, inventato nel '42 cominciò a diffondersi negli anni '50: e senza quello non si possono studiare convenientemente i fondali. Per quanto l'archeologia sempre rimanga la stessa, terrestre o subacquea che sia, occorre un certo grado di specializzazione nell'uso delle strumentazioni. Oggi a pinne, maschere e bombole di ossigeno si aggiungono anche i mezzi che la Marina militare mette a disposizione: i cacciamine, dotati di apparecchi elettronici e batiscafi per l'individuazione di ordigni bellici, sono usati anche per trovare relitti di antiche navi o studiare emergenze architettoniche custodite anche a centinaia di metri sotto l'acqua.

È archeologia "subacquea", non "sottomarina", perché, per esempio, le civiltà palafitticole hanno lasciato tracce in tutti i laghi del nord e centro Italia: da Viverone a Bolsena, dal Garda a Bracciano.

Oggi l'obiettivo è anzitutto l'identificazione dei siti rilevanti: per impedire la loro spoliazione. O la loro distruzione casuale, come è avvenuto fino a pochi anni fa nella rada di Baia: le ancore delle grosse navi sono affondate più volte nella sabbia, colpendo resti di templi, case, statue e facendole a pezzi. Oggi si vuole che tutto questo non accada più. «Già da trent'anni vicino a Ponza è attiva una zona archeologica sottomarina: i subacquei la possono visitare. Abbiamo lasciato anche le anfore, legate da una lunga sagola. E anche nella rada di Baia, barche col fondo trasparente consentono visite turistiche». Ci vorrà ancora tempo e molti investimenti. Ma pian piano anche i mari sveleranno i loro segreti.