La scoperta dell'essenza profumata è stata fatta campionando i residui rinvenuti in quindici boccette restituite dagli scavi della villa di Poppea a Oplontis. A Pompei, invece. sono stati analizzati quasi duecento contenitori. Ancora da definire quanti residui tra quelli conservati al Museo Archeologico Nazionale di Napoli saranno sottoposti a indagini. E, dalle analisi emerge la novità: a Pompei quasi non si usava il profumo, mentre nella villa di Poppea le fragranze raffinate erano di casa.
Sotto esame dei Dipartimenti di Chimica delle Università di Modena e Reggio Emilia, che hanno sviluppato la ricerca, sono finiti i residui di sostanze semi carbonizzate ancora conservate negli unguentari di vetro, i contenitori che 2000 anni fa venivano usati per profumi e unguenti. L'analisi, che è stata effettuata con tecniche gas cromatografiche e spettroscopia a raggi infrarossi, ha evidenziato sia una cosmesi pompeiana molto "povera", con pochi campioni di creme e belletti (forse dovuta alla scarsa cura nella conservazione dei recipienti) che una ricchezza di profumi addirittura eccezionale per i campioni della villa di Poppea.
Là, gli scienziati hanno scopeto le essenze base dell'attuale Patchouli. Un profumo costosissimo, quello che 20 secoli fa dovette avere quel componente, tra gli altri, e che forse arrivava direttamente dall'Oriente attraverso la via della seta. Una conferma, quindi, che quella villa era la dimora di una matrona in grado di sostenere costi elevati per l'acquisto di profumi capaci di schiantare i sensi agli amanti. Ancora, si sono rinvenuti residui di rosmarino, maggiorana, sotto forma di olii essenziali, usati sia come profumi che per la cura delle malattie, come anti infiammatorio: l'esipium, ricavato dalla lana delle pecore e precursore dell'attuale lanolina.
A Pompei, invece, si sono ritrovati campioni di "fuligo", fuliggine o nerofumo (del carbone, quindi) usato sia per marcare le sopracciglia che come antesignano delle moderne matite "eliner" che marcano i profili da evidenziare. Tra l'altro, la sostanza era usata come dentifricio per il forte potere abrasivo, oppure nella medicina casalinga, come assorbente intestinale. Ancora, acidi grassi, da usare come legante per far sì che il trucco si potesse ben fissare. Quindi, si è rinvenuto del gesso, che potrebbe essere stato utilizzato come sostituto della biacca (carbonato di piombo, anch'esso intercettato, ma in pochi casi) con capacità di fondo tinta dove fissare il colore, di solito rosso, a base di minio, oppure nelle vesti di maschera di bellezza.
"Credo - ha puntualizzato Cecilia Baraldi, farmacista dell'Università di Modena, che ha analizzato i residui - di poter affermare con buone ragioni che i romani si siano convertiti all'uso del gesso per due motivi: la biacca era velenosa, e loro lo sapevano, e per ragioni costo, visto che il prezzo del gesso era maggiormente accessibile".
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