

Il culto dei morti è da sempre elemento principale di tutte
le culture sacre subalterne popolari e presente in molti aspetti
folkloristici tradizioni ancora attuali. Questa ricerca sull'antropologia
del lutto, ha lo scopo di individuare un archetipo comune al rituale
funebre del cordoglio e alle sue varie manifestazioni.
Uno tra i più significativi rituali del cordoglio è
quello della lamentazione funebre le cui tracce si perdono nella
notte dei tempi. Per poter introdurci nel viaggio verso i sacri
"lynos" dobbiamo però partire dalle tradizioni
lucane, forse la regione che più di tutte ha conservato il
ricordo di questo antico rituale.
Il lamento funebre lucano ed in particolare la "lamentazione
professionale", è una pratica in via di dissolvimento
o praticamente già dissolta della quale rimane solo il vago
racconto delle anziane donne rivisitato in un'ottica di malcostume
o vergogna.
Ancora oggi accade che al dolore delle famiglie luttuate si unisca
il cordoglio di altre persone, soprattutto quelle che da poco son
state colpite a loro volta da un lutto, ma non si può parlare
di vere lamentatici con l'accezione arcaica del termine, è
solo un modo per rivivere e riproporre il proprio dolore personale
o esprimere cordoglio a persone che, anche se non strettamente legate
da parentela, erano comunque conosciute nel piccolo paese ove vivevano.
Del resto non possiamo dimenticarci il contesto geografico dal quale
parte questa ricerca: i paesi più interni della Basilicata
ove isolamento e arretramento fanno ancora avvertire al contadino
la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali(A. di
Nola, 1976). E' proprio questo status vivendi che ha permesso il
perdurare di questi antichissimi ricordi, poi in parte trasformati
dall'influenza cristiano-cattolica in una forma sincretica che è
tipica del Cristianesimo locale ed autoctono e che si esprime in
quel cattolicesimo popolare intessuto di influenze ed elementi "pagani".
Le stesse formule verbali mettono in evidenza una morte più
simile a quella pagana che a quella idilliaca e priva di corpo cristiana.
Così il defunto anche nell'aldilà continuerà
a condurre una vita non molto dissimile da quella terrestre "ora
ti debbo dire cosa ti ho messo nella cassa:una camicia nuova, una
rattoppata, la tovaglia per pulirti la faccia all'altro mondo, due
paia di mutande una nuova e una con la toppa nel sedere, poi ti
ho messo la pipa tanto che eri appassionato al fumo"
La lamentazione funebre poi sembrerebbe un rituale legato al mondo
agreste
"...noi contadini e le persone per bene andiamo al cimitero e piangiamo sulle nostre tombe...le persone per bene vengono al cimitero ma non piangono...le persone ricche piangono sì, ma non come noi pacchiani, noi che siamo villani e contadini piangiamo di più..."
Un particolare che ci ritornerà utile nel proseguo dello
studio.
Tutto il rituale segue delle ben precise regole che fanno della
tradizione una vera e propria "tecnica del pianto". La
lamentazione si presenta con un testo di cui "si sa già
cosa dire", secondo modelli stereotipati. Normalmente non appaiono
elementi cristiani, invocazioni a Gesù, alla Vergine, ai
Santi, anzi...vi è quasi una forma di protesta nei loro
confronti "oh che tradimento ci hai fatto Gesù"
La prima fase è quella del ricordo del defunto "o marito
mio buono e bello, come ti penso" poi il suo lavoro la lamentatrice
fa sempre riferimento al tema delle mani del morto
"sei morto con la fatica alle mani", poi il ricordo di
tempi belli "quanne scimme a" per poi inserire frasi sarcastiche
del tipo "oh il vecchio che eri" per persone giovani o
"oh che male cristiane" per indicare uomo d'abbene.Poi
viene la descrizione della condizione in cui viene a trovarsi la
famiglia, così per la neo sposa il lamento delle nozze non
ancora consumate, per la vedova il duro lavoro che l'aspetterà,
per i figli la mancanza del padreper poi avere quasi un piccolo
rimprovero per la morte prematura "come mi lasci in mezzo alla
via con tre figli".
Si passa poi al modulo "ora vien tal dei tali" che a sua
volta risponde "chi è morto" per infine ricordare
le vicende tra il defunto e questa persona "...non ti verrà
più a chiamare alle 3 del mattino..."
Particolare importanza acquista quella che potremmo definire la
mimica del cordoglio, l'oscillazione corporea, perfettamente integrata
al suono, come in moltissime tradizioni sciamaniche afro-amerinde,
con una funzione quasi ipnogena ( E. De Martino, 1959) molto simile
anche a quella delle lamentatrici palestinesi o arabe.
Interessante è la mimica del fazzoletto agitato sul corpo
del defunto per poi essere portato al naso in una continua incessante
ripetizione dell'elemento gestuale. Anche questa gestualità
avrebbe un atavico archetipo, così infatti la ritroviamo
tra le lamentatici egizie. Qui il "gesto" sembrerebbe
chiaramente destinato ad una forma di protezione dal defunto: Un
solo braccio è portato verso il capo mentre l'altro si distende
avanti con la palma della mano rovesciata. Gesto che poi ha assunto
una valenza di saluto più che di difesa.
Tradizioni rituali di questo tipo sono presenti anche in altre parti
di Italia, quasi ad individuare un comune denominatore.
E' così ad esempio simili tradizioni le troviamo in Sardegna
o più lontano in Brianza ove Il curato di Casiglio scrive
come l'uso della lamentazione funebre sia ancora ben presente nel
suo borgo, ancora nel XV secolo, benché proibito, e sarà
lo stesso Carlo Borromeo che, assistendo ad un funerale a Predama,
in Val Varrone, rimase fortemente sconcertato. Le prefiche le ritroviamo
nel leccese ove sono chiamate "repite" e nell'area abruzzese
molisana.
Tradizioni simili sono presenti anche in Valtellina ed in Sardegna.
Antonio Bresciani così ci descrive l'usanza tra le donne
sarde: "In sul primo entrare, al defunto, tengono il capo chino,
le mani composte, il viso ristretto, gli occhi bassi e procedono
in silenzio...oltrepassando il letto funebre...indi alzati
gli occhi e visto il defunto giacere, danno repente in un acutissimo
strido, battono palma a palma e gittano le mani dietro le spalle...inverochè
altre si strappano i capelli, squarciano cò denti le bianche
pezzuole c'ha in mano ciascuna [ altro particolare simile alla lamentazione
lucana N.d.A.] si graffiano e sterminano le guance, si provocano
ad urli...a singhiozzi...altre stramazzan a terra...e si
spargon di polvere...poscia le dolenti donne così sconfitte,
livide ed arruffate qua e la per la stanza sedute in terra e sulle
calcagna si riducono ad un tratto in un profondo silenzio..."
(A. De Gubernatis, 1869)
Nel napoletano era praticato un "riepito battuto", una
lamentazione accompagnata da un battersi rituale che terminava con
l'avvicinarsi di alcune donne alla vedova che, al suono di "ah
misera te", le strappano una ciocca di capelli e la gettano
sul defunto.
E' da quest'area che deriverebbe l'antica filastrocca fanciullesco-popolare
Maramao, perché sei
morto?
Pane e vin non ti
mancava,
l'insalata era
nell'orto
e una casa avevi tu.
Come si può notare, in questa strofa sono elencate una serie di buoneragioni materiali (di indubbio retaggio pagano) per cui il morto non avrebbe dovuto morire, con l'intento di esorcizzare o quanto meno stemperare il dolore e l'angoscia attraverso un modulo letterario di lamentazione. Non solo ma lo stesso nome "maramao" potrebbe essere una successiva distorsione della frase "Amara me perché sei morto" con appunto richiami ai discorsi protetti lucani.
Il Tema dell'Offerta della Capigliatura
Nel corteo funebre era dunque uso per le donne, una volta disciolte
le chiome, accostarsi al morto percuotendosi il petto con violenza
e abbandonandosi in un primo tempo a disordinate grida di dolore(
E. De Martino, 1958). Il termine francese di lutto, "deuil",
sembrerebbe mettere bene in evidenza questo aspetto discendendo
direttamente dal latino "dolium" che corrisponderebbe
a "dolere" e quindi al battersi il petto. Era poi usanza
incidersi le carni, graffiarsi a sangue le gote e gli avambracci,
percuotersi, stracciarsi le vesti e i capelli.
Questi rituali altro non sono che l'atavico ricordo di antiche usanze,
così ad esempio in Grecia troviamo che "...le donne
con le chiome sciolte si accostano al morto e percuotendosi il petto
con violenza si abbandonano in un primo momento a disordinati gridi
di dolore, cui poco dopo fanno seguito i lamenti funebri cerimoniali..."
Ancora in Geremia "...ogni testa sarà calvata, ogni
barba rasa, su tutte le mani vi saranno incisioni...", stessa
tradizione che troviamo tra i Mirmidoni per la morte di Patroclo,
mentre nell'Alceste di Euripide il Dio della morte è descritto
mentre brandisce una spada nell'atto di tagliare una ciocca di capelli
al morto (Alceste Versi 75-78). Altre testimonianze le troviamo
in Luciano che narra di offerte di capelli da parte delle donne
durante i festeggiamenti per la morte di Adone.
L'intera operazione fin qui descritta, la lamentazione, la gestualità, sembrerebbe nascondere, più che un vero e proprio dolore verso il defunto, un'operazione apotropaica di allontanamento della morte, una tecnica indirizzata a combattere il ritorno del defunto. stessa come testimoniato da altre usanze come quella di bruciare i vestiti del trapassato o l'apertura delle finestre dopo il decesso, per terminare alle interessanti frasi di chiusura del lamento funebre "non ho più niente da dirti, non ho più niente da farti, statti bene e vieni in sogno a dirmi se sei contento di tutto quello che ti abbiamo fatto" ( E. De Martino, 1959).
De Masticatione Mortorum Tumulis - Il Cibo del Morti
Altra interessante usanza era quella di deporre del cibo nel sepolcro
per evitare che il morto, affamato, tornasse tra i vivi per procacciarselo.
In India era uso porre due pale di riso o di farina nella tomba,
mentre i Persiani ponevano una dose di cibo utile per tre giorni
dopo i quali l'anima era completamente lontana dal corpo (A. De
Gubernatis 1969)
Spesso sulle tombe era offerto del pane, sia come nutrimento che
come simbolo di rinascita del morto nella sua novella vita. Anche
i greci e i latini commemoravano i propri morti con offerte votive
di cibo e vini sulle tombe (M. Caligiuri, 2001) proprio per placare
le anime, mentre i babilonesi e gli assiri seppellivano vasi di
miele. Che il cibo reale fosse davvero utilizzato nei sepolcri è
dimostrato da diversi testi come il "De Masticazione Mortuorum
in Tumulis" di Michel Raufft o la "Dissertatio Historico-Philosophica
de Masticatione Mortorum" di Philip Rohr. Qui si descriveva
come il morto, le cui scorte alimentari erano insufficienti, iniziava
a nutrirsi masticando il sudario e le sue stesse carni.
L'Abate Calmet Agustin, parlando proprio dell'opera del Raufft scrive
che "E' opinione comune in Alemagna che certi morti mastichino
nelle sue sepolture e divorino tutto ciò che hanno intorno...Egli
[ il Raufft N.d.A.] suppone che cosa provata e certa esservi alcuni
morti che han mangiato gli abiti ond'eran involti, e tutto ciò
che avevano vicino e per fino divorare le proprie carni. Egli osserva
come in alcuni luoghi dell'Alemagna, per impedire ai morti di mangiare
loro, mettono sotto il manto una zolla di terra che in altri luoghi
mettono loro in bocca una piccola moneta d'argento e una pietra
e in altri casi con un fazzoletto loro stringono fortemente la gola".
Sant'Agostino invece parla "del costume dei Cristiani di portar
su per i sepolcri della carne e del vino con cui si facevan i pranzi
di devozione" giustificando, ma non assecondando, questa tradizione
pagana facendola basare sul libro di Tobia "mettete il vostro
pane e il vostro vino sulla sepoltura del giusto e guardativi di
mangiarne e di bere in compagnia dè peccatori".
Anche il cannibalismo diventa un modo per assicurare la seconda
morte al defunto, infatti lo stomaco diventa suo definitivo sepolcro
e sarebbe da questa interpretazione che deriverebbero diverse espressioni
popolari Italiane come "bere i morti" o "mangiare
i morti"(E. De Martino, 1959) e l'usanza del banchetto funebre.
Nel giorno dei morti, quasi riproponendo il tema della necrofagia,
in molti paesi della Penisola vengono preparati strani dolcetti
a forma di ossa chiamati appunto "ossa dei morti"(A. Romanazzi,
2003) che vengono poi regalati ai fanciulli.
Varie usanze popolari sono strettamente connesse alle offerte di
pane al defunto. In Calabria e in Lucania si usava preparare delle
fette di pane per il morto. In particolare i calabresi usavano preparare
attorno al catafalco una tavola imbandita con pane, vino, uova e
legumi. Sempre in Calabria, a Celico, si usa porre accanto al morto
un pezzo di pane e dell'acqua (M. Caligiuri, 2001). Tradizioni simili
le ritroviamo in molte altre regioni italiane.
In Brianza, anche contro il volere del clero locale,fino al secolo
scorso si celebrava il cosiddetto pasto dei morti, una riunione
conviviale che radunava parenti e amici del morto.
Anche il pane "pro anima" tipico dell'area campana avrebbe
una funzione simile. L'alimento è offerto spesso durante
la veglia notturna, all'ingresso del cimitero o della casa dei luttuati.
In alcuni paesi della Provincia di Bari veniva preparato direttamente
sulla bara o sulle tombe. E' in questo sconcertante rituale di preparazione
che ritroviamo una forma mitigata di necrofagia. Cibarsi del pane
preparato sul morto o venuto a contatto con lo stesso altro non
sarebbe che nutrirsi dello stesso defunto, non solo, ma la cena
serve anche un più atavico significato. Secondo la legge
della magia simpatica ben descritta dal Frazer, lo stomaco è
sepolcro del cibo, così come il cibo trova riposo in esso
il morto lo troverà nella terra.
Da qui le numerose tradizioni popolari legate alle espressioni popolari
bere i morti o "mangiare i morti".
La scelta del pane come cibo rituale poi, oltre ad ascriversi al
tipico alimento del defunto, è legata anche ad una visione
rigenerativa dello stesso, in una stretta simbiosi con la morte
e la rigenerazione del frumento o in generale dei cereali di cui
è costituito.
Il Sesso e il Rapporto con il Defunto
Interessanti sono anche le tradizioni legate al sesso. La morte
portava nella famiglia luttuata una forma di libido deficients,
quell'attanassamento(E. De Martino, 1959) con il quale termine è
conosciuto nell'area lucana, nella quale non poteva e non doveva
rimanere. L'idea di una incremento della pulsione libidica dopo
la morte ha così un duplice scopo: la riaffermazione della
vita attraverso l'accoppiamento ma anche un modo di sgomentare il
morto in questo modo che fosse avvertito della grande forza vitale
che gli viene contrapposta. Del resto l'esibizione oscena è
un modo di manifestare l'energia del vivente, Freud afferma che
chi dice una oscenità sferra un attacco, equivalente ad una
aggressione sessuale provocando nell'ascoltatore una reazione simile
a quella che si sarebbe generata da una vera e propria aggressione.
Un atto aggressivo che in questo caso è fatto contro il morto.
Successivamente dall'atto sessuale e dall'oscenità si passa
al riso, una forma mitigata dello stesso. Da qui la tradizione ancora
oggi espletata di raccontare durante le veglie funebri narrazioni
oscene o a sfondo sessuale che generano ilarità come attestato
dai numerosi detti popolari del tipo "il morto non può
uscire senza il riso" o ancora "non vi è morto
senza riso"(A. Di Nola, 2003). Nell'antichità si parla
anche di danze funebri e forme di ilarità e le danze che
porteranno successivamente a quella tradizione medievale definita
"danza Macabra" raffigurata su moltissime chiese e cimiteri.
E' il tema della morte che, suonando il flauto, porta via i defunti,
successivamente interpretata con l'idea della democraticità
della Nera signora. In realtà la morte prende il posto del
flautista pagano che apriva il corteggio funebre e che poi si tramuterà
in "danza birichina" attorno al feretro (A. De Gubernatis,
1869).
Una traccia che ci fa intuire l'atavica origine della ricerca della
libido la troviamo anche nel mito de ratto di Proserpina quando
Iambe, serva del re Celeo ove Demetra era ospitata, per cercare
di far ridere la sua dea, si abbandona ad una esibizione oscena.
Tema simile lo ritroviamo nel mito di Baubo che, per raggiungere
lo scopo di far bere il ciceone, tipica bevanda del cordoglio, a
Demeter ostenta i suoi genitali generando in lei ilarità
e dunque sconfiggendo la sua inappetenza( A. Di Nola, 2003). Elementi
osceni erano presenti in molti culti dei morti. In Egitto le lamentatici
spesso portavano i seni scoperti(E. De Martino, 1959) sia in una
visione di ostentazione che come nuovo simbolo di rinascita essendo
la mammella associata al latte mammario e dunque alla novella vita.
Questo particolare è rimasto intatto fino al secolo scorso
troviamo, nel lamento lucano, l'ostentatio della madre al suo bambino
in ricordo del latte avuto e di quello perduto(E. De Martino, 1959).
Moltissime poi sarebbero le tradizioni di giochi erotico-sessuali
durante la veglia funebre. In Sardegna c'è addirittura una
figura che ha lo specifico ruolo di suscitare ilarità ed
è chiamata la Buffona (F. De Rosa, 1899) mentre giochi a
sfondo sessuale, come quello della Pulce, sono segnalati dal De
Martino in molti paesi lucani.
Il Tema del Sangue e il Defunto
Il tema del sangue è da sempre collegato al morto. Il primitivo,
osservando che la perdita del misterioso fluido da una ferita comportava
un progressivo indebolimento e successivamente la morte, mise subito
in relazione questo liquido con il principio vitale umano. Ecco
così che nel Deuteronomio troviamo il passo "non ti
nutrirai del sangue perché il sangue e vita: e tu non devi
mangiare la vita insieme alla carne" e nella Genesi si dice
"soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè
il suo sangue. Del sangue vostro, anzi, ossia della vostra vita,
io domanderò conto". Il sangue è strettamente
legato al morto anche perché simbolo della vita che deriva
dal fuido mistico-mestruale femminile, da qui l'usanza di cospargere
il defunto totalmente o in parte di ocra rossa come testimonierebbero
molte sepolture neolitiche e paleolitiche o ancora l'uso del rosso
dei sarcofagi egizi. In India il rosso è il colore con il
quale sono dipinte le statue delle divinità della morte,
e rossi sono gli abiti del lutto e il colore dei fiori da offrire
al morto, tradizione che ritroviamo anche nell'antichità
classica quando si doveva ricoprire le lastre tombali con fiori
freschi di questo colore o con delle violette che il mito vuole
sbocciate dal sangue di Attis evirato( A. Di Nola, 2003). Era questo
un tentativo di comunicare al defunto l'energia vitalizzante del
sangue in modo che non la richiedesse dai vivi. Anche l'ecatombe
compiuta da Achille per la morte di Patroclo, più che come
vendetta, potrebbe essere interpretata come tributo di sangue da
versare al morto per poterlo placare e così far cessare la
sua sete (E. De Martino, 1959).
Rituali Apotropaici e Timore del Defunto: Il Primo Archetipo
Una prima spiegazione al lamento sarebbe così quella di un
vero e proprio "formulario magico" atto ad allontanare
definitivamente la presenza del defunto. Del resto lo stesso termine
"lutto" deriverebbe da "lugere" la cui radice
arcaica proverrebbe da "rompere".
Il cordoglio dunque, e tutti i rituali ad esso annessi, è
una risposta ad una perdita, un tassello di quella vasta ed intricata
sfera religiosa che può essere definita il "culto dei
morti". E' con il passaggio dell'uomo dal nomadismo all'agricoltura
e alle attività stanziali, e dunque con il seppellimento
del defunto nelle vicinanze dell'abitato, che nasce la necrofobia
[necros=morto e phobos= paura], e quindi i rituali atti a sconfiggerla.
Secondo il primitivo il morto, prima di raggiungere la sua patria
nell'aldilà, subisce una sorta di passaggio intermedio il
cui superamento e il successivo raggiungimento di quella pace definitiva
dipende molto anche dai rituali funebri a lui riservati dai vivi,
come testimonierebbero anche le forme verbali tipiche della lamentazione.
E' solo al termine del periodo di lutto che il morto può
essere considerato realmente tale. La lamentazione diventa così
un incantesimo per aiutarlo a raggiungere l'aldilà e così
liberare i vivi della sua enigmatica e ossessiva presenza. Ecco
perché coloro che non hanno avuto una degna sepoltura ed
onoranze funebri ritornerebbero in vita.
Tutte le arcaiche pratiche fin qui descritte non sono mai del tutto
scomparse anche se osteggiate dalla Chiesa., nel Sinodo di Londra
(1342), venivano messe al bando le forme di congiunzione sessuale
che si tenevano durante le veglie funebri e nel Sinodo di Praga
del 1366 si fa accenno agli atti di deboscia che avrebbero auto
luogo nella medesima occasione(E. De Martino, 1959). Altre testimonianze
le ritroviamo in molti sinodi locali italiani, così in quello
di Faenza del 1647 si proibisce la palmarum tensiones, in quello
di Trivento del 1686 il facies erompere e capillos evellere, e in
quello di Fermo (1775) il pugnis ora percuotere e il capillum manu
discindere.
Se dunque la lamentazione funebre e l'intricato rituale del defunto
potrebbero essere spiegate attraverso la necrofobia, questa, a sua
volta, è una successiva evoluzione di un archetipo ancor
più atavico: la morte e rinascita naturale.
I Prolegomeni del Rituale: La passione della Vegetazione
In realtà la spiegazione potrebbe essere ben differente e
non risiedere nel timore verso il defunto, idea solo successiva.
Spirito arboreo e divinità vegetazionali, rituali di fertilità
e, sarebbero questi i prolegomeni di ataviche tradizioni ancora
presenti nel folklore e nelle tradizioni italiane, l'Atavico ricordo
di un mondo che NON TEMEVA la morte ma la considerava elemento NECESSARIO
alla vita.
L'uomo dei primordi è fondamentalmente cacciatore e raccoglitore,
arare, seminare, raccogliere, veder scomparire, erano questi i cicli
che governavano la vita dell'uomo antico, in un ciclo di forze la
cui comprensione ben sfuggiva all'uomo che la il timore che la rinascita
natura possa non avvenire e che dunque questa morte naturale si
tramuti in morte della sua esistenza.
In quasi tutte le mitologie, in una stretta simbiosi con la scomparsa
e la rinascita naturale, è la divinità maschile a
subire un ciclo di morte e di resurrezione che da sempre è
stato associato al sole. E' l'idea della morte del "Dema"
di Jensen, l'essere mitico attraverso il quale i popoli agricoltori
hanno avuto il dono delle piante essenziali per la loro vita. Anche
la fine sempre violenta del Dema potrebbe così essere messa
in relazione con la "distruzione" da parte dell'uomo dei
prodotti dei campi, falciati, battuti e poi ridotti in polvere.
La morte della pianta diventa così la morte della divinità
con tutta una serie di rituali che dovevano avere il compito di
rigenerare lo stesso.
Pensiamo al Mito di Osiride o Dioniso, Tammuz od Adone, nelle cui
tradizioni funebri si usava piangere sugli orti senza ortaggi, sui
campi senza spighe, sui canneti senza canne, o a Lityerses che con
il nome indica anche il canto dei mietitori, per giungere ai Maneros,
i lamenti funebri egizi prendono il nome da maneros, simile od identificabile
con il lino.
Ecco che ritroviamo in questi antichi rituali i prolegomeni del
rito del cordoglio. Ecco la spiegazione allo strano ed indissolubile
legame tra il mondo agricolo e quello dei morti in una tradizione
che ritroviamo ancora oggi nel folklore e nella cultura popolare.
Se così la lamentazione funebre altro non è che i
canti dei mietitori antichi, anche lo strapparsi i capelli non è
solo un atto autolesionistico ma una vera e propria offerta al defunto
come sembrerebbe trasparire dalle tradizioni e dal folklore. L'offerta
della capigliatura in realtà nasce dall'idea che essa era
messa in relazione con la vegetazione palustre.
Il taglio era così simbolo di morte e rinascita proprio come
accadeva nel mondo vegetale.
Stessa idea è presente nelle offerte di grano, pane e cereali
al defunto, non un modo di assicurargli ciò che non doveva
procurarsi da solo tra i vivi, ma un modo per rappresentare ancora
una volta il ciclo di morte e rinascita. Stessa idea nelle offerte
di sangue, un modo di garantire perpetua energia vitale al defunto.
di Andrea Romanazzi
andrji00@libero.it




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