

Anzitutto, una domanda: chi era veramente quest'eroe semileggendario
?
Una cosa è certa: si tratta di una figura storica, non di
un personaggio da romanzo come don Rodrigo o di una figura paradigmatica
come Gregor Samsa. Quasi certamente si tratta di uno dei capi bretoni
che animarono la vittoriosa resistenza dei Celti della Cornovaglia
contro la conquista anglosassone alla fine del V e all'inizio del
VI secolo d.C. La prima fonte britannica che parla di Artù
è infatti un accenno del "Gododdin", testo del
VI secolo dove appare come capo guerriero. Più tardi gli
"Annales de Cambrie" del X secolo menzionano la vittoria
ali Artù a Mont-Badon nel 516 e la battaglia di Camlann in
cui Artù e Mordret si uccisero a vicenda (537). La materia
assume poi tratti epici nell'"Historia Brittonum", cronaca
in latino di Nennius del X secolo, e nel "Roman de Brut"
di Robert Wace (XI secolo) dedicato all'omonimo nipote di Enea,
mitico avo dei Bretoni. Da tali testi il vescovo Goffredo di Monmouth
trasse l'"Historia Regum Britanniae" (1135): l'opera mischia
storia e tradizioni celtiche e cristiane, con l'intento di dotare
i britanni di un eroe nazionale pari a Carlo Magno. Nell'Historia
troviamo Merlino, Vortigern, Uter Pendragorn, Ginevra, ma nessun
accenno a Parsifal, Lancillotto o al Sacro Graal, che entra nella
saga solo nell'incompiuto poema "Perceval" (1190) di Chrétien
de Troyes e nel "Parzifal" di Wolfram von Eschenlbach.
In precedenza, gli eroi arturiani erano comparsi nei Lais di Marie
de France (1167), poemetti amorosi e fantastici, e nei due Tristano
di Béroul e di Thomas (1165-70). Nei poemi di Chrétien,
di Wolfram e di altri contemporanei il calice è un vaso sacro
dotato di mistici poteri. Solo nel poema di Robert de Roron "L'Estoire
du Graal" (1202) compare il Calice del sangue di Cristo custodito
da Giuseppe di Arimatea. A Roron seguì la monumentale summa
arturiana costituita da Lancelot, La cerca del Graal, La morte di
Artù, opera di più autori che, dalla metà del
'200, ispirò poeti, musicisti, cineasti: dall'anonimo "Sir
Gawain e il cavaliere verde" del 1360 alla "Morte di Artù"
di sir Thomas Malory del 1485, fino alle opere di Wagner Lohengrin
(1848), Tristano e Isotta (1865), Parsifal (1882); ma anche al film
"I cavalieri della Tavola Rotonda" (1954) con Mel Ferrer,
Ava Gardner e Robert Taylor, allo splendido lungometraggio Disney
"La Spada nella Roccia" (1963) ed al recentissimo "Arthur",
che tenta di incastrare la leggenda arturiana nella storia del morente
impero romano.
Secondo la leggenda, costruita nel corso di tutte queste generazioni
di letterati come una cipolla per strati successivi, Artù
sarebbe stato figlio di Uter Pendragon, re di Britannia dopo la
partenza delle legioni romane, e di Igerna, vedova del duca Hell
di Cornovaglia. Sarebbe nato nel castello di Tintangel intorno al
460 d.C. e sarebbe morto sul campo di battaglia di Camlann nel 537
d.C., ucciso dal figlio Mordret, da lui avuto dalla sorellastra
Morgana, figlia di Hell e di Igerna. Quanto al nome Artù,
potrebbe derivare dai termini celtici Art ("Roccia"),
o Artos Viros ("Uomo Orso", in gaelico Arth Gwyr). Ma
cosa possiamo rintracciare oggi, di tutta questa storia leggendaria?
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Le rovine del castello di Tintagel |
E' certo che nel 410 d.C. l'imperatore Onorio, l'inetto figlio
di Teodosio il Grande, fu costretto a ritirare le proprie legioni
dalla Britannia, peraltro mai completamente romanizzata, per difendere
le Gallie e l'Italia dagli attacchi dei visigoti. Dopo un inutile
appello a Roma, i re e i duchi dei Britanni decisero di eleggere
un re supremo, cui tutte le tribù dovevano obbedienza, per
resistere alle prepotenti scorrerie dei Pitti e degli Scoti. In
tal modo la Britannia fu l'unica tra tutte le province romane a
tornare allo status precedente la conquista, dopo la caduta dell'Impero.
Ai nemici tradizionali, sul morire del IV secolo, si sommarono le
invasioni degli Juti e dei Sassoni, provenienti dalla penisola Scandinava.
I britanni erano già in larga parte cristiani, convertiti
da San Patrizio e san Giorgio verso il 300 d.C., mentre i Sassoni
erano ancora pagani, e perciò venivano temuti dai britanni
quanto un vampiro teme l'acqua santa. Il primo di questi grandi
re sarebbe stato ucciso dal pagano Vortirgern, a sua volta poi eliminato
dal figlio dello spodestato, Uter Pendragon appunto. Questi durante
il regno di Vortrgern sarebbe stato accolto a Benoic nell'Armorica
(l'attuale piccola Bretagna) dal vecchio re cristiano Celidon, padre
di re Ban, a sua volta padre del leggendario Lancillotto, e discendente
dal leggendario capo Nascien, che secondo la tradizione era stato
convertito da Giuseppe d'Arimatea. Come si vede, attorno ad Artù
ruota una galassia di personaggi veri o fittizi la cui realtà
storica oggi non è più rintracciabile in alcun modo,
perché deformata dalla leggenda. Comunque Artù fu
comunque uno dei generali dei Britanni, forse proprio un ex generale
romano come mostra il film "Arthur", che seppe radunare
attorno a sé abbastanza armati da organizzare un'efficace
resistenza, ed impedire ai Sassoni di conquistare Galles e Cornovaglia
oltre alla Britannia. Non vi siete mai accorti che nelle saghe arturiane
non compare mai il nome di Londra? La ragione è incredibilmente
semplice: Londra cadde subito in mano sassone. Tutti i più
importanti nomi dell'epopea celtica, a partire da Camelot, contengono
la radice gallese Caer, che significa semplicemente "castello"
(ricorda il latino Castrum). Dove fosse la reggia di Artù,
comunque, nessuno lo sa con certezza. E gli altri luoghi della saga?
Tuttora esistono rovine di un castello a Tintangel, su un promontorio
della costa della Cornovaglia, sotto il quale esistono effettivamente
resti di età tardoromana. Nel 1983 una serie di incendi portò
alla luce le fondazioni di edifici di forma rettangolare, dove l'archeologo
Charles Thomas rinvenne ceramiche provenienti dalla Gallia ma anche
dall'Africa del Nord e addirittura dal Mediterraneo Orientale. Ciò
dimostra la notevole rilevanza commerciale del sito; i reperti permettono
di seguirne la storia dal momento della sua costruzione nel III
secolo, fino alla distruzione causata dall'attacco anglosassone.
Ed il periodo di fioritura di Tintagel, come si vede, è coerente
con la cronologia tradizionale della saga resa celebre da Chretien
de Troyes.
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La torre dell'abbazia di Glastonbury |
Ma non finisce qui. Infatti nel 1998 Chris Morris, dell'università
di Glasgow, ritrovò a Tintagel una pietra di scolo su cui
era incisa un'iscrizione latina con alcune rune celtiche, la quale
recitava "PATER COLI AVI FICIT ARTOGNOV", ossia "Mi
ha fatto Artognov, padre di un discendente di Col". Naturalmente
nulla ci autorizza a credere che questo Artognov sia l'Artù
delle saghe, ma la notizia suscitò ugualmente grande scalpore:
si tratta infatti della prova definitiva che un nome simile a quello
del più grande re dei Britanni era comunque in uso nella
Britannia del V secolo.
Nessuna targa con il nome di Camelot è invece stata trovata
sulla collina di South Cadbury, nel Somerset, dove la tradizione
vuole che Artù avesse la sua reggia. Anche qui, tuttavia,
gli scavi hanno riservato sorprese: i resti di un grande edificio
costruito tra il 460 e il 500 d.C., in piena età arturiana
dunque, dove era utilizzato lo stesso vasellame di Tintagel. South
Cadbury era quindi un complesso importante: non un castello nel
senso che questa parola assumerà dopo l'anno mille, ma piuttosto
un quartier generale fortificato, certamente in grado di ospitare
un re con il suo esercito. Era questa la casa di Artù?
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Resti dell'abbazia di Glastonbury e, in primo piano, il sito della presunta tomba di Artù e Ginevra |
A Glastonbury, nel Somerset, la tradizione colloca invece la mitologica
isola di Avalon o isola dei druidi, dove Artù sarebbe stato
sepolto. Cosa c'entra Avalon con Glastonbury, che non si trova sul
mare? Oggi abbiamo la certezza del fatto che Glastonbury nell'Alto
Medioevo era circondata dalle acque di una vasta palude, dalla quale
emergeva come un'isola. Anticamente il sito si chiamava Ynis Witryn,
"isola di vetro": era una collina che sorgeva appunto
come un'isola da un mare di acquitrini, di canali, di sentieri e
terrazzamenti; e, secondo le leggende locali, a Glastonbury si spalancava
la porta ("Tor") degli inferi. Nel 1191 i monaci della
vicina abbazia, oggi in rovina, dichiararono di aver trovato i resti
delle sepolture di Artù e Ginevra sul lato meridionale della
Cappella, resti che il 19 aprile del 1278 sarebbero stati rimossi
e traslati in una tomba di marmo bianco alla presenza di re Edoardo
I e della regina Eleonora. Questa tomba sarebbe poi sopravvissuta
fino alla soppressione dell'abbazia nel 1539, in seguito all'avvento
della Riforma Protestante: così almeno si legge su una didascalia
tuttora presente sulla presunta tomba. Tuttavia è inutile
dire che la testimonianza è assai dubbia, e che le tombe
potevano essere quelle di un qualunque capo dei Celti e della sua
consorte; un dato di fatto è invece la scoperta, avvenuta
nel 1966, dei resti di un insediamento del V secolo dopo Cristo,
il che dimostra come ogni tradizione nasca comunque da un nocciolo
storico.
Come riferisce poi Enrica Salvatori in un pregevole articolo sul
numero dell'ottobre 2004 della rivista "Quark", la storia
ci ha tramandato i nomi di alcuni capi bretoni vissuti in quell'epoca,
che potrebbero essere identificati con i protagonisti dell'epopea
arturiana. Per esempio è certa l'esistenza di Riothamus,
re dei Britanni cui l'erudito latino Sidionio Apollinare, vescovo
di Clermont-Ferrand, scrisse una lettera nel 470 d.C. Riothamus
altro non è che la versione latina del celtico Rigotamos,
che può essere tradotto con "Re Supremo", dunque
si tratta di un titolo e non di un nome proprio, come il Faraone
della Bibbia. Tuttavia Riothamus scomparse in Burgundia (l'attuale
Borgogna) poco dopo il 470, quindi i tempi non coincidono. Inoltro,
essendo Siconio un vescovo della Gallia, è quasi certo che
i Britanni di cui Riothamus era re siano quelli fuggiti sul continente,
cioè nell'attuale Bretagna Francese che da loro prese il
nome, per sfuggire all'invasione sassone. Io però ho la mia
ipotesi: Riothamus erano Ban o suo padre Celidon. Allora sì
i tempi corrisponderebbero a perfezione: la saga di Artù
parla appunto di una prematura morte di re Ban dovuta a tradimento.
Inoltre San Gildas, storico del VI secolo, canta con toni epici
la grande vittoria riportata dai britanni a Mount Badon contro i
Sassoni intorno all'anno 493. Anche se certamente le proporzioni
della vittoria sono state esagerate, è certo che questa sconfitta
impedì ai Sassoni di conquistare Galles e Cornovaglia, che
insieme alla Piccola Bretagna francese restarono gli ultimi, estremi
ridotti della cultura celtica in Europa. Anche se Gildas non nomina
mai Artù, la sua è un'ulteriore conferma dell'esistenza
storica di un forte capo dei britanni, sia esso stato un capotribù
indigeno o un generale romano-barbarico come Stilicone ed Ezio,
in grado di opporsi all'avanzata dei germani provenienti dal continente
compiendo imprese degne di essere cantate dai bardi e trasfigurati
dalla leggenda.
Ma Artù è solo uno dei mille protagonisti della saga
che porta il suo nome. Infatti tra i doni di nozze di Leodegrant,
padre di Ginevra, al suo sovrano c'era anche una famosa tavola rotonda
che Artù avrebbe fatto porre nella sala delle udienze a Camelot;
il leggendario re avrebbe quindi invitato a corte tutti i giovani
rampolli dell'aristocrazia britanna e, per superare le antiche divergenze,
li avrebbe creati tutti Consiglieri della Corona. Il Consiglio si
riuniva appunto attorno alla Tavola Rotonda per significare che
anche il Re non era altro che il Primus inter Pares; tra i campioni
chiamati a far parte del Consiglio furono annoverati Caio o Keu,
il siniscalco del Re, Lionel, Gawain (il Galvano dei romanzi cavallereschi),
Perceval (il Parsifal di Wagner) e soprattutto Lancelot, il Lancillotto
di Chretien de Troyes. Purtroppo, però, tra i cavalieri della
Tavola Rotonda, che tanto peso hnnoa avuto nella costruzione della
leggenda, soltanto Drystan (Tristano) è probabilmente esistito;
era figlio di Re Cynfawr, e i resti di quello che potrebbe essere
stato il suo castello si possono ancora ammirare sulla collina di
Castle Dore, in Cornovaglia. Invece quelle di Lancillotto e Ginevra
sono sicuramente creazioni posteriori per introdurre una vicenda
amorosa nella saga epica.
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Un arazzo ispirato alla leggenda di Artù |
Quanto al mago Merlino, secondo la leggenda tutore e consigliere
di Artù, visse forse nel VI secolo. Il suo nome, Myrddyn,
derivava da quello di Caermyrddyn, la città in cui era nato;
alcuni lo hanno identificato con un altro famoso filid ("bardo")
chiamato Taliesin e vissuto (forse) in quell'epoca. Secondo gli
scarsi dati che ci sono pervenuti sulla sua figura, Myrddyn fu consigliere
del re gallese Vortirgern (V secolo d.C.), da noi già citato
sopra, e combatté a fianco di Re Gwenddolau (cioè
Re Artù, secondo Nikolai Tolstoy) contro Rhydderch il Generoso.
La sua vita sarebbe dunque stata incredibilmente lunga, tanto che
alcuni commentatori ritengono che siano esistiti due Merlini diversi.
Vuole la tradizione che, dopo la sconfitta inflittagli da Rhydderch
ad Arfderydd (573), il mago, impazzito dal dolore, si fosse ritirato
in eremitaggio in una foresta, identificata da alcuni come la fantastica
Broceliande delle saghe irlandesi. Della sua produzione letteraria
ci è pervenuto un frammento dell'opera Afallenau. La strofa
recita: "Saith ugein haelion e aethant ygwyllon / yng koed
Kelydon y daruyant: / kanys mi vyrdin wedy Tatiessin / Byathad kyffredin
vynn darogan." Finora nessuno è ancora riuscito a tradurla.
Ed Excalibur? Altro non sarebbe che la spada druidica dei Gran Re
antecedenti la conquista romana, che si diceva forgiata in cielo
dagli dei, ma assai probabilmente era stata fabbricata con ferro
meteoritico, non proveniente dunque da questa terra. Un'ipotesi
è che sull'elsa fosse incisa una scritta latina poi corrotta
dal tempo, da cui deriverebbe il suo nome. Per esempio Valerio Massimo
Manfredi, nel suo bel romanzo "L'ultima Legione" (che
tra l'altro identifica Uter con Romolo Augustolo) suggerisce che
Excalibur potrebbe essere una contrazione popolare di ENSIS C. IUL.
CAES. CALIBURNI.
Certamente però, la più avventurosa tra tutte le epopee
legate in qualche modo alla leggendaria figura di Artù resta
quella legata alla ricerca del Sacro Graal, il calice in cui Gesù
istituì il sacramento dell'Eucaristia la sera dell'Ultima
Cena, e che fu poi usato dal pio Giuseppe d'Arimatea per raccoglierne
il Preziosissimo Sangue stillante dalla Croce. Secondo una leggenda
molto diffusa, era stato lo stesso San Giuseppe d'Arimatea a portare
il sacro vaso dalla Palestina nella Britannia, attraverso mille
peripezie, mentre suo figlio Alano il Grosso aveva costruito il
castello di Crobenic, d'intesa con re Nascien, da lui stesso convertito
dopo essere stato miracolosamente guarito dalla lebbra al solo contatto
con il Graal. Proprio da Nascien discenderebbe re Pelles, signore
di Crobenic e custode del Graal, il quale avrebbe ingannato Lancillotto,
partito alla ricerca del Sacro Vaso, convincendolo a giacere con
sua figlia Elaine, detta "la portatrice del Graal" perché
nelle cerimonie religiose era solita portare il Graal in processione
reggendolo sopra la testa; da tale rapporto amoroso sarebbe nato
Galahad, destinato a diventare il "cavaliere senza macchia
e senza paura". Come conseguenza, secondo la leggenda Pelles
venne punito perché perse il regno, e sua figlia non poté
più portare il Graal, che da allora venne portato da mani
invisibili; Lancillotto invece, non essendo più "senza
macchia", perse la possibilità di conquistare il Graal,
e potè guardarlo solo attraverso un velo.
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Il sigillo dell'abbazia di Glastonbury |
Questa è la favola. In realtà il Graal era il calice
in cui il sacerdote druidico, durante le solenni cerimonie religiose
nella Britannia preromana, raccoglieva il sangue delle vittime sacrificate
sull'altare. Com'è noto, il Cristianesimo non ha mai cancellato
con un colpo di spugna le tradizioni preesistenti, ma si è
integrato con esse, come testimonia la data del 25 dicembre, che
nell'antica Roma segnava la festa dedicata al dio Sole, e per i
cristiani divenne la festa della nascita del nuovo Sole, Gesù
Cristo. Così l'antico calice della religione sciamanica era
stato sì conservato, ma la tradizione ne aveva fatto il calice
dove era stato raccolto il sangue della vittima per eccellenza,
il Salvatore dell'umanità. Probabilmente Nascien fu il primo
sacerdote druidico ad accettare il sincretismo tra la vecchia e
la nuova religione. Dunque Elaine sarebbe stata l'ultima discendente
di una schiatta di sacerdoti di questa religione "mista",
che adorava Cristo attraverso i simboli dell'antica religione; e
sappiamo che giacere con la sacerdotessa o "prostituta sacra"
è una delle caratteristiche della religione sciamanica, visto
che era praticato anche nella Palestina preisraelitica, perché
i profeti ebraici si scagliarono ripetutamente e terribilmente contro
questa pratica. Ad essa non si sottrasse neppure Lancillotto, che
così concepì un nuovo "druido cristiano",
Galahad appunto. Sempre secondo la favola, il Graal sarebbe stato
conservato nella città palestinese di Sarras, affatto ignota,
dal cui nome discenderebbe quello dei Saraceni, in un'epoca (quella
dei regni romano-barbarici) in cui i Saraceni e l'Islam non esistevano
ancora. In realtà il Graal fu distrutto dai Sassoni dopo
la loro conversione al cattolicesimo, un po' perché simbolo
pagano (si sa che i neofiti sono sempre degli integralisti), ed
un po' perché parte dell'odiata cultura dei rivali celti.
Ed ora, un'ultima questione. è noto che Artù, in tutte
le versioni della saga, non ha mai avuto neanche un erede. La cosa
da un punto di vista storico non è credibile: probabilmente
ne aveva uno stuolo. E allora, come mai la tradizione non ne fa
cenno? La risposta è semplice. Questi figli furono indegni
del padre, perché dopo la morte di Artù guerreggiarono
tra loro all'ultimo sangue per accaparrarsi il trono, lasciando
così campo libero ai conquistatori Sassoni, che distrussero
il Gran Regno calpestandolo sotto gli stivali. E così, la
tradizione li ha scartati, facendo cenno al solo Mordret per metterne
in risalto la fellonia, ed ha esagerato le gesta dei cavalieri della
Tavola Rotonda, i veri "figli spirituali" del Pendragon,
oscurando le imprese dei figli legittimi di Artù. Ma, come
fa notare Montanelli nella sua "Storia di Roma", gli eroi
spuntano solo negli eserciti battuti, per cercare di mettere in
ombra la sconfitta ed esaltare le imprese dei singoli a discapito
della rotta generale. Gli eserciti vittoriosi non hanno bisogno
di eroi, ed infatti Giulio Cesare nei suoi Commentarii non ne cita
nessuno. Ma, sorprendentemente, è proprio l'indegnità
dei figli carnali di Artù a farci pervenire un'epopea così
splendida: non avendo avuto un seguito, il Gran Regno dei Britanni
resta nella fantasia come modello di un'epoca felice e splendida,
segnata dalle imprese cavalleresche di personaggi indimenticabili.
E tale esso resta anche agli occhi di noi, uomini del XXI secolo,
perché le leggende, a differenza degli uomini e dei regni,
non muoiono mai.
di Franco Maria Boschetto
franco.boschetto@tin.it
www.fmboschetto.it




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