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16 Giugno 2004 STORIA
Rolando Dubini
I Celti, alle radici dell'Europa, e dell'Italia - parte 3
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Il pensiero dei druidi: introduzione al pensiero degli antichi sapienti

I druidi all'origine del pensiero filosofico
Nel valutare l'apporto degli antichi celti, e in particolare dei loro sapienti, detti druidi, allo sviluppo del pensiero umano, possiamo fare ricorso ad autorevoli fonti classiche.
Come e dove è nata la filosofia?
A questa domanda un occidentale moderno risponderebbe: nell'antica Grecia. Un orientale potrebbe però contestare tale affermazione come indice di un eurocentrismo poco consapevole, poichè quelle che sarebbero state denominate Grecia e Roma erano ancora nella fase preistorica del loro sviluppo nel momento in cui in India si sviluppava il sistema filosofico-religioso dell'Induismo, i cui libri sacri più antichi, risalgono al 1300 a. C., e dove il Bhudda Shakyamuni, nel 650 a.C. aveva messo in moto la ruota del dharma (insegnamento) che libera tutti gli esseri da ogni forma di sofferenza, indicando nell'estinzione dei desideri che limitano lo sviluppo dell'uomo e nella giusta visione la strada maestra che conduce alla suprema liberazione (il nirvana).
In Persia, nel VII secolo a. C., Zarathustra era il sommo profeta di una concezione del del mondo secondo la quale l'esistenza era immersa nell'eterno conflitto tra il bene e il male, tra Ohrmudz e Ahriman: una visione che avrebbe esercitato una influenza decisiva sulle religioni giudaico-cristiane.
Questi sistemi di pensiero erano caratterizzati dalla circostanza che assumevano come loro fondamento l'esperienza concreta e quotidiana degli individui, anzichè una indagine sulla natura e le sue forze, e sui limiti del linguaggio e delle capacità conoscitive dell'uomo, come invece avvenne nella civiltà mondo greca.

In tale quadro, vi è però un elemento atipico, improvviso e imprevisto, che accende una scintilla contagiosa nella mente dei sapienti dell'epoca.
La filosofia, che letteralmente significa amore per la sapienza, emerge come disciplina individuata con precisione dagli studiosi greci, che trovano l'origine di essa lontano dal loro mondo, e indicano in più di una occasione i druidi come coloro che furono all'origine di tale disciplina della mente.

Una fonte dell'epoca, preziosa per la conoscenza della filosofia antica, scrive in modo molto chiaro quanto segue:

"Alcuni dicono che lo studio della filosofia ha avuto origini barbare. Giacché i Persiani avevano i loro Magi, i Babilonesi o gli Assiri i Caldei, gli Indiani i loro Gimnosofisti, mentre i Celti e i Galati avevano veggenti chiamati Druidi e Semnotheoi". [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi - Scrittore e storico della filosofia greco, Diogene Laerzio visse nel III secolo d. C. Sulla sua vita non si hanno informazioni. Anche il suo soprannome ha un'origine oscura: forse proviene dalla città di Laerte in Asia Minore; forse da un epiteto omerico. Diogene Laerzio è noto come autore di un'opera in dieci libri: Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi. In essa esamina 84 figure di pensatori, dai Sette sapienti ad Epicuro, disponendo le informazioni per scuole filosofiche, rispettando le succesioni di scolarchi fissate dalla tradizione].

E il grande poeta Lucano, con un riferimento denso di significato e assai pertinente, così si esprime:

"A voi [Druidi] solo è dato sapere la verità sugli dei e sulle divinità del cielo... Vostra dimora sono le macchie più riposte delle foreste più remote. Voi insegnate che le anime non cadono nelle silenti sedi dell'erebo o nei pallidi regni del sotterraneo Dite, ma che lo spirito passa a reggere altre membra in un altro mondo: la morte, se è vero ciò che insegnate, è il punto intermedio di una lunga esistenza". [Lucano Pharsalia I, 450-458 passim, Poeta latino, nasce a Cordova (Spagna) nel 39 d. C., figlio di un fratello del filosofo Seneca. Suicida nel 65 d.c. perchè coinvolto nella congiura di Pisone contro l'imperatore Nerone]

Nelle opere di filosofi o studiosi di filosofia antichi la dottrina druidica viene dunque accostata costantemente alla filosofia classica greca, addirittura viene indicata come la fonte, la sorgente, l'origine imprescidibile del pensiero greco, per profondità di pensiero e autorevolezza dell'insegnamento.


Il pensiero dei druidi, e lo stretto legame con Pitagora.

Un ulteriore elemento degno di studio è rappresentato da una circostanza di particolare significato, che ha sempre lasciato sconcertati i critici moderni, spesso vittime della sindrome della critica fine a se stessa, e di una incomprensibile tendenza riduzionistica, per la quale tutto ciò che scrivevano gli antichi era sempre sospettabile di invenzione (pregiudizio ingiustificato, tipico di chi vive in un'arida società tecnologica e mercificata, dove la prigione della realtà costrittiva fa vedere il passato attraverso le sbarre dei nostri limiti, chiusure e condizionamenti ideologici, morali, storici).

Nonostante le chiacchere infondate e le ipotesi prive di sostegno, che arbitrariamente negano nozioni comunemente accettate, nell'antichità la sapienza druidica veniva costantemente accostata all'insegnamento di Pitagora e alla sua scuola.
Pitagora nacque a Samo nel 580 a.C. circa. Dopo aver viaggiato in Egitto e Babilonia, si stabilì a Crotone (Magna Grecia), dove diede impulso alla nascita di una setta filosofico- politica, che ebbe notevole successo. Compito della filosofia è per Pitagora favorire la progressiva purificazione dell'anima, attraverso la conoscenza dell'ordine superiore dell'universo (un pensiero che certo non può dirsi estraneo alla sapienza druidica.

Clemente Alessandrino (Stromata I, XV, 70, 1), di Antiochia (ca. 330-395 d.C.), un grande storico romano, citando Alessandro, sostiene che Pitagora, di cui la tradizione ricorda i numerosi viaggi (anche a Massilia, l'odienra Marsiglia, colonia Greca nel sud della Gallia), dopo essere stato allievo di un Assiro, ebbe modo di perfezionarsi tra i Galati e i bramini.

"...I Druidi, uomini di intelletto elevato e uniti all'intima confraternita di Pitagora, erano immersi in indagini su cose segrete e sublimi, e senza curarsi degli affari umani, dichiaravano che le anime sono immortali".

Secondo Ippolito (III d.c.), invece (Philos.I, 24) sono i druidi ad avere appreso la teoria pitagorica della trasmigrazione delle anime dal tracio Salmoside (Zalmoxis), servo di Pitagora stesso.
Difatti Ippolito nella Refutatio Omnium Haeresium:

"I Druidi dei Celti hanno studiato assiduamente la filosofia pitagorica... E i Celti ripongono fiducia nei loro Druidi come veggenti e come profeti poichè costoro possono predire certi avvenimenti grazie al calcolo e alla aritmetica dei Pitagorici."

In ogni caso le diverse tesimonianze attestano l'esistenza di un reciproco scambio intelletuale tra druidi e pitagorici, e questo rende di grande interesse la lettura, criticamente avvertita e posta in relazione con le nostre altre conoscenze che abbiamo del druidismo [per le quali si legga innanzitutto Francoise Le Roux, Christian J. Guyonvarc'h I druidi, ed. ital. Ecig 2a ediz. Genova 1990/2000].


La trasmissione orale della sapienza

La trasmissione orale delle conoscenze rituali, sapienziali, storico-mitologiche, giuridiche ecc. nell'ordine druidico ha sempre suscitato grandi discussioni e controversie, prescindendo da una circostanza storica assai significativa: non solo i druidi ma anche grandi legislatori e maestri del passato, come Licurgo, Pitagora e Numa, proibivano espressamente la trascrizione dei loro insegnamenti.
In tal senso i druidi, i più sapienti degli uomini tra gli antichi celti, ritenevano sacrílego trasmettere le loro sacre tradizioni in forma diversa da quella orale, vivente, di contro alla scrittura, collezione di lettere morte (lo ricorda Giulio Cesare nel suo De bello gallico 6, 14). Ciò non è senza legami con gli aspetti pratici della sapienza, la magia naturale e gli incantesimi, nei quali la voce assume una importanza assolutamente decisiva, il tono, la modulazione, la capacità di "parlare" con gli elementi della natura dei quali si chiede l'intervento. Si pensi al proverbiale "tempo da druidi", nel quale la forza del fulmine, del vento e della pioggia si manifesta in tutta la sua potenza, e che i miti dei popoli celtici riportano come risultato, in certi casi, dell'arte magica e invocatoria degli antichi druidi.


L'impatto romano e cristiano e la sopravvivenza dell'antico pensiero nel folklore

Di contro allo scetticismo superficiale di molti studiosi moderni, gli autori dell'antichità classica hanno sempre parlato delle popolazioni celtiche e dei loro sacerdoti, i Druidi, con attenta circospezione ed evidente rispetto.

E non a caso se consideriamo la forza di tale tradizione, che seppur comunicata solo oralmente (i Druidi impiegavano la scrittura solo particolari riti magici, incidendo pietre magiche e tavolette rituali), repressa da Inglesi e Sassoni, e dalla burocrazia cristiana, è capace di essere ancora oggi presente, certo in modo frammentario e anche contradditorio, attraverso miti e leggende, ballate e canzoni ancor oggi conosciute e recitate, in Galles nella Bretagna armoricana e, malgrado le vicissitudini storiche, in Irlanda, mentre in quella che era la Gallia si è incorporata totalmente nella tradizione cristiana (tanto da rendere difficilissimo delimitare alcun confine tra le due), mentre era riuscita a mantenersi separata dalla tradizione romana.
In effetti i Romani, che pur perseguitarono i Druidi in Gallia e Britannia, in certe fasi storiche anche con grande ferocia, (anche perchè era una elite intellettuale indigena che avrebbe potuto fa lievitare la ribellione contro l'occupazione imperiale della terra celtica], non estirparono mai completamente le tradizioni di tutti i popoli conquistati, tendendo anzi ad assimilarne una parte [si pensi a tutte le statue di divinità gallico-romane, per fare un solo esempio], mentre cio che spesso rappresentò un colpo gravissimo, se non mortale, per tutte le antiche concezioni intellettuali artistiche scientifiche e tecniche comuni a ognuna delle diverse popolazioni indoeuropee, tra le quali anche gli Italici preromani, fu la cristianizzazione.
Ma ciò nonostante le tradizioni e le antiche religioni dei popoli non scompaiono mai del tutto, e lasciano la loro preziosissima eredità al "folklore", alla saggezza popolare, ai racconti, alle leggende e fiabe antiche.


Caio Giulio Cesare sui Druidi

De Bello Gallico VI° - 13
In tutta la Gallia vi sono due classi di uomini che godono un certo potere e dignità. La plebe è completamente asservita, non prende nessuna iniziativa e non ha nessun potere decisionale. La maggior parte, messa alle strette dai debiti o dagli eccessivi tributi o dai soprusi dei potenti, si consegna ai nobili, che acquistano su di loro gli stessi diritti del padrone sullo schiavo. Delle due classi, una è quella dei druidi, l'altra dei cavalieri. I primi si occupano della religione, amministrano i sacrifici pubblici e privati, regolano le pratiche del culto. Molti giovani si recano da loro per istruirsi e sono molto onorati. Decidono infatti di tutte le controversie pubbliche e private, sia che sia stato commesso un reato o un omicidio, sia che si debba giudicare in merito a una successione o a questioni di confine, fissando risarcimenti o pene. Se un privato o un intero popolo non si attiene a quanto hanno decretato, gli interdicono i sacrifici. Questa è per loro la pena più grave. Chi è stato colpito dall'interdizione, è considerato empio e scellerato, tutti si allontanano da lui e nessuno gli si avvicina o gli rivolge la parola, per non essere colpito dal contagio e subire un danno; non ha diritto di chiedere giustizia né è ammesso a nessuna carica. Tutti i druidi hanno un solo capo, che ha tra loro la massima autorità. Alla sua morte gli succede chi tra loro si distingue per meriti eccezionali; se ve ne sono più di uno, viene eletto tramite votazione dei druidi; talvolta lottano per la carica anche con le armi. In un determinato periodo dell'anno si riuniscono in un luogo consacrato nel territorio dei Carnuti, ritenuto il centro di tutta la Gallia. Qui con vengono da ogni parte tutti coloro che hanno questioni da dirime re e si conformano alle deliberazioni e ai giudizi dei druidi. Si crede che la loro dottrina sia originaria della Britannia e di là sia poi passata in Gallia, e ancor oggi quanti vogliono approfondirne lo studio, si recano sull'isola per istruirsi.


Triadi autentiche di saggezza druidica

Molte volte ci interroghiamo sulla saggezza degli antichi druidi, e nonostante se ne sappia molto, non ci si interroga mai a sufficienza sui messaggi di profonda saggezza che ci hanno lasciato.
Ora due triadi degne di essere meditate a fondo credo possano essere ispiratrici per chi ricerca la saggezza degli Antichi.
La prima è di Oisin, il bardo-guerriero dei gloriosi cavalieri Fianna (gli antenati dei Cavalieri della Tavola Rotonda) da un antico dialogo con Patrizio, la seconda da una delle più autorevoli fonti classiche sui filosofi antichi, Diogene Laerzio, il quale dice trattasi dell'insegnamento fondamentale dei druidi.

1.
La Verità nel Cuore
La Forza nel Braccio
Il Mantenere ciò che si è detto con la Parola

2.
Onorare gli Dei
Non compiere il Male
Praticare il Coraggio

Sarebbe bello esprime a ruota libera, e il più liberamente possibile, tutte le idee che si possono associare a queste frasi brevi, ma così ricche di significato e capaci di orientare la vita di ognuno lungo una Via Antica che nutre l'Anima Immortale...
La prima esalta il calore della Verità, primo imperativo druidico. Che necessità però di buone braccia per farsi strada nel mondo, e che non può palesarsi se le parole non vengono mantenute.
La seconda triade invita a ricercare il Divino nelle straordinarie manifestazioni della natura che ci accompagnano, e che vanno onorate con le classiche feste druidiche, come la recente di Samhain o Samonios. E questa ricerca del divino non esiste se si attuano comportamenti volti a danneggiare gratuitamente il prossimo, ed emerge nell'eroismo, nel coraggio con il quale, SEMPRE, va affrontata la vita.
Messaggi di spiritualità celtica, dalle profondità dell'Essere Umano, antichi Archetipi che si agitano nel nostro inconscio...


Il tempo, l'eternità degli Dei, gli astri celesti

Il tempo e l'eternità
Gli Dei celtici "sfuggono al tempo finito, perchè sono eterni ed immortali: un giorno e una notte, un anno, un secolo o un periodo ancora più lungo hanno, per loro, esattamente uguale durata" (1).
Esemplare è in tal senso la vicenda di Mac Oc, figlio del Dagda, il quale consigliato dal padre adottivo Mider (o Mananann, secondo una diversa versione), il quale molto abilmente stringe un patto col padre carnale, appunto il Dagda, secondo il quale egli abbia in prestito il dominio di Brug-na-Boyne (il side o sidh, Terra megalitica, di New Grange) per un giorno e una notte. Ma "sfortunatamente il Dagda non è stato attento al fatto che, simbolicamente, un giorno ed una notte esprimono la totalità, la negazione del tempo, vale a dire l'eternita" (2)
Ecco il dialogo:

""Allora che mi si accordino", disse il Mac Oc, "un giorno e una notte nella tua dimora". Ciò gli fu concesso. "E ora vattene nella dimora che segue", disse il Dagda, "il tempo concessoti ti è scaduto". "È chiaro!, disse (il Mac Oc), "che la notte e il giorno sono la durata del mondo intero ed è quanto mi è stato concesso". Quindi il Dagda uscì e il Mac Oc restò nel Sid" (3)

Dunque un giorno e una notte sono "il simbolo e l'equivalente dell'eternità" (4) per gli antichi Dei, e questo è un insegnamento druidico di fondamentale importanza.
L'eterno presente è il tempo degli dei, e vivere il tempo, sperimentarlo come un fuoco eterno mai spento congiunge la nostra condizione, a partire dalla coscienza, alla nostra anima immortale di cui parlano i druidi, e quindi alla condizione immortale degli antichi Dei, carichi di gloria e di gesta leggendarie (5).


Il computo pratico-rituale del tempo: il calendario di Coligny

Tuttavia il raggiungimento della condizione immortale, per chi è soggetto al condizionamento dello spazio, della distanza e della materia, richiede il compimento di precisi atti rituali ed evocativi, ed anche il soddisfacimento degli scopi agricoli (stabilire i tempi migliori per la semina e per il raccolto), sociali e rituali tipici della società celtica del tempo
Per svolgere in modo corretto tali riti occorre uno strumento di riferimento, che li renda conformi al movimento degli astri, la luna per la ricerca della condizione eterna, e il sole per seguire la vita che fluisce con i suoi momenti pratico.materiali, e dunque occorre tener conto proprio di quei movimenti che scandiscono il giorno e la notte, lo scorrere inesorabile del tempo che fugge, come l'ombra proiettata dal sole sulla meridiana si muove in sequenza.

Per seguire le tracce della grande capacità druidica di studiare il movimento degli astri celesti, utilizziamo ora largamente le preziose considerazioni di Adriano Gaspani.
A Coligny, nella regione dell'Ain (sud della Francia), antica terra dei Galli Ambarri, furono ritrovati in un pozzo, nel novembre del 1897, i frammenti di una tavola di bronzo, le cui incisioni riproducevano la sequenza dei giorni di un calendario. Assieme alla tavola fu ritrovata anche una statua di Marte, alta un metro e settantaquattro centimetri. Attualmente i reperti sono conservati al Museo della Civiltà Gallo-Romana di Lione-Fourviere. Un piccolo frammento (oggi perduto) con incisioni simili a quelli trovati a Coligny era stato rinvenuto nel 1807 nei pressi del Lago d'Antre nei pressi di Villards d'Herià nel Jura francese. Approssimativamente nello stesso luogo (Ruisseau d'Heria) furono trovati nel 1967 da Lucien Lerat, altri otto frammenti che con buona probabilità appartennero alla stessa tavola del calendario di Villards d'Herià. Vari studiosi si occuparono della ricostruzione e della decodifica del calendario di Coligny, tra questi vanno citati l'irlandese Mc Neill e il francese Daviet per quanto riguarda le prime interpretazioni. I primi a completare il restauro del calendario furono però A. Duval e G. Pineault nel 1960, i quali ricostruendo i frammenti mancanti riuscirono a restituire fedelmente la struttura originaria (6).
Il calendario di Coligny contiene la rappresentazione di una sequenza di cinque anni lunari completi, ciascuno composto da 12 mesi alternativamente lunghi 29 o 30 giorni, più 2 mesi supplementari, ritenuti essere mesiintercalari introdotti per rendere lunisolare il calendario.
La sequenza dei mesi rappresentati è la seguente:
Samonios (30), Dumannios (29), Rivros (30), Anagantios (29), Ogronios (30), Cutios (30), Giamonios (29), Simivisonios (30), Equos (30), Elenbiuos (29), Edrinios (30), Cantlos (29) (6).

Il calendario di Coligny "viene fatto risalire al II secolo d.C., in piena epoca gallo-romana, ma gli studiosi sono concordi nel ritenere che esso sia stato inciso prevalentemente per scopi liturgici pagani e quindi possa riprodurre fedelmente il calendario tradizionale celtico correntemente in uso alcuni secoli prima", tuttavia "la maggior parte delle iscrizioni in lingua gallica e caratteri latini non sono ancora state tradotte e comprese in maniera soddisfacente", e lo stesso può dirsi "per quanto riguarda la comprensione dei meccanismi e delle regole adottate sia per quanto riguarda la sua progettazione sia per quanto riguarda il suo funzionamento e l'uso che ne veniva fatto dai druidi gallici" (6).
Il numero tra parentesi si riferisce al numero di giorni che compongono il mese.
Ciascuno dei 12 mesi elencati iniziava la notte in corrispondenza della quale la Luna assumeva la fase di primo quarto.
Essi erano divisi in due parti di 15 più 15, oppure 15 più 14 giorni ciascuno in modo tale che se la prima quindicina era vincolata dalla fase di primo quarto, l'inizio della seconda doveva coincidere con la Luna alla fase di ultimo quarto.
I mesi le cui quindicine erano complete (30 giorni) sono classificati come MAT cioè fortunati (MATV in lingua gallica), mentre quelli con 29 giorni sono etichettati con il termine gallico ANMAT che significa infausto.
Fa eccezione il mese di Equos che è un mese "Anmatv" ma dura 30 giorni. La prima quindicina, durante la quale la Luna raggiungeva il plenilunio, era ritenuta un periodo di luce, mentre la seconda quindicina centrata sul novilunio era ritenuta un periodo di buio.
Le due quindicine sono separate dalla parola gallica ATENOVX (ritorno alla Luna nuova, ritorno al buio, rinnovamento).
La quindicina posta dopo ATENOVX comprende il novilunio e quindi di fatto è il periodo dell'oscurità, mentre la prima quindicina comprendendo il plenilunio era il periodo di luce (6).

Il calendario gallico di cui parliamo, si differenzia da tutti gli altri calendari antichi oggi noti perchè da un lato la struttura lunisolare rigida garantiva che i mesi rimanessero grosso modo coerenti con le stagioni ,dall'altro lato tale struttura poteva essere usata per calcolare esattamente la posizione del Sole e della Luna nel cielo durante qualsiasi giorno dell'anno e dei 'saeculà (ovvero 30 anni) (7).

Il legame anche solare del Calendario di Coligny "potrebbe derivare dal fatto che le date delle quattro feste principali che i Celti celebravano durante il corso dell'anno erano legate ai cicli stagionali avendo rilevanza anche dal punto di vista agricolo. Le quattro feste fondamentali celebrate dai Celti erano: Trinuxtion Samoni, Imbolc, Beltane, Lughnasad ed erano poste a distanza di circa quattro mesi" (6).
Il vincolo lunare "era obbligatorio solamente nel caso della festa più importante, quella di Trinux(tion) Samoni che si celebrava in autunno e che segnava anche l'inizio dell'anno celtico. Osserviamo quindi che nel caso di Imbolc, Beltane e Lughnasad dovevano essere verificati vincoli astronomici solari e stellari e nel caso di Trinox Samoni anche la Luna doveva giocare la sua parte. Sul calendario di Coligny la festa di Trinux(tion) Samoni è l'unica espressamente indicata nelle annotazioni per tutti e cinque gli anni rappresentati" (8).


Conoscenza druidica dei movimenti astrali

Nella "Refutatio Omnium Haeresium" di Ippolito si legge:

" I Druidi dei Celti hanno studiato assiduamente la filosofia pitagorica... E i Celti ripongono fiducia nei loro Druidi come veggenti e come profeti poichè costoro possono predire certi avvenimenti grazie al calcolo e alla aritmetica dei Pitagorici. "

Cesare, che a Roma era ritenuto, a Roma, un'autorità in fatto di Astronomia nei Commentarii De Bello Gallico afferma che i Celti conoscevano molto bene l'Astronomia, e che contavano il tempo segnando le notti passate da un dato evento e non i giorni come facciamo noi. Essi, inoltre, dividevano l'anno in due sole stagioni: la stagione dei mesi neri (l'inverno) e quella dei mesi luminosi (l'estate). Anche qui, su scala annuale, vediamo che tutto è diviso tra giorno e notte...

Nel capitolo XVI della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio si descrive la Cerimonia druidica della raccolta del vischio in questi termini:

"È poi questo (il vischio) è molto raro a trovarsi e una volta trovato è colto con grande pompa religiosa e innanzi tutto al sesto giorno della Luna, che segna per questi gli inizi dei mesi, degli anni e dei secoli, che durano trenta anni, giorno scelto perchè la Luna ha già tutte le sue forze senza essere a metà del suo corso."

La Luna per i Celti "rappresentava l'astro fondamentale atto al computo del tempo quindi la sua osservazione era molto sviluppata, prova ne è la presenza di allineamenti diretti verso i punti di levata e tramonto della Luna ai lunistizi in vari santuari dell'età del Ferro oltre che la struttura medesima del calendario di Coligny" (6).
Polibio ricorda che i druidi dei Galati nel 218 fecero interrompere una guerra a causa del verificarsi un'eclisse totale di Luna.
Strabone (De Situ Orbis, III,4,16) afferma che i Celtiberi celebravano, durante il plenilunio, la festa di una divinità che non si poteva nominare.
Il novilunio "era il periodo adatto per prendere importanti decisioni" (6).
Presso i Cimri (i celti del Galles) esisteva il culto di Arianrhod divinità femminile il cui nome significa "Ruota d'Argento".
I druidi "sapevano certamente che quando la Luna raggiungeva la sua estrema latitudine eclittica (positiva o negativa) durante il suo ciclo mensile e la sua fase era contemporaneamente il primo oppure l'utimo quarto allora sette giorni dopo era possibile il verificarsi di un'eclisse.


Il bosco sacro, luogo sacro dei druidi
Il bosco era il luogo sacro per eccellenza per i Celti. Esso rappresentava il luogo nel quale le forze della natura manifestavano la loro forza, in esse era posto il luogo sacro per eccellenza, nel quale i druidi erano soliti svolgere cerimonie e rituali che affondavano le loro radici non solo nella cultura celtica, ma anche in quella delle popolazioni preistoriche che li avevano preceduti.
Partendo da ciò che rappresentava una tradizione leggendaria, il mondo vegetale era così testimone di culti millenari.
Così Lucano, con tutta evidenza intimorito forza del bosco nella religione celtica, scrive:

"C'era un bosco sacro, (...) persino gli uccelli avevano paura di posarsi su quei rami e le fiere di sdraiarsi in quella selva; neppure il vento o la folgore che piombava dalle fosche nubi si abbattevano su di essa e le fronde degli alberi abbondanti cadevano da cupe sorgenti e le lugubri statue degli dèi erano prive d'arte, ricavate rozzamente da tronchi intagliati (...). E si narrava che spesso muggivano per terremoti le profondità delle caverne, si risollevavano i tassi abbattuti e si vedevano bagliori nelle selve, senza che vi fossero incendi, e anche che grossi draghi striscianti si avvinghiavano ai tronchi. Le genti non si radunavano in quel luogo per celebrarvi il culto, ma lo avevano lasciato agli Dei" (Bellum civile, III, 400).


Magia druidica
Molto si è discusso sul ruolo e le funzioni dei sacerdoti dei celti, ma è interessante riflettere su un aspetto poco sottolineato di un celebre episodio, riportato in modo sicuramente suggesstivo da Tacito.

TACITO, Annales XIV, 30
Stava sulla spiaggia la variegata schiera di nemici, densa di armi e di uomini, percorsa da donne vestite di scuro alla maniera delle Furie, con i capelli sciolti al vento, che agitavano fiaccole. Intorno stavano i druidi, che levavano le mani al cielo, lanciando contro di noi maledizioni.
La stranezza del loro aspetto impressionò i soldati, che se ne stavano con il corpo paralizzato e le membra immobili, esposti alle ferite dei nemici.
Poi, esortati dai capi, e facendosi loro stessi forza, per non dare l'impressione di tremare di fronte ad una schiera di donne e invasati, si gettarono contro di loro, li travolsero, avviluppandoli nelle loro stesse fiamme. Dopo fu loro imposto un presidio e vennero abbattuti i boschi sacri ai loro culti barbarici, che prescrivevano che gli altari fumassero del sangue dei prigionieri e che si dovessero consultare gli dèi, servendosi di viscere umane.

Si noti questa circostanza: la spiaggia dell'isola sacra di Mona è percorsa (ritualmente, quindi qualche sorta di cerchio magico) da "donne vestite di scuro alla maniera delle Furie" (tutte vestite di scuro, simili a come verranno raffigurate poi le streghe, e sicuramente sacerdotesse celtiche, vista la "DIVISA" rituale che le caratterizza tutte, e il loro agire assime a quelli che sono chiaramente riconosciuti come druidi), "con i capelli sciolti al vento", "che agitavano fiaccole". Evocazione quindi dell'elemento fuoco, e della divinità ad esso collegata, il Dio Bel-Belenos.
Prosegue Tacito: "intorno stavano i druidi, che levavano le mani al cielo, lanciando contro di noi maledizioni".
Quindi, sempre rivolti al Dio supremo dei cielti, braccia ritualmente alzate, realizzando il collegamento con le forze superiori e soprannaturali, divine, i druidi hanno lanciato i loro incantesimi, nell'antica lignua celtica di Britannia, contro gli esterefatti militari romani.
Ma queste invocazioni, peraltro incomprensibili ai legionari romani, hanno prodotto qualche risultato concreto?
Ovvero la magia druidica era solo immaginaria, oppure capace di produrre risultati reali?
Stando a Tacito questi incantesimi producono un effetto fisico immediato:

"La stranezza del loro aspetto impressionò i soldati, che se ne stavano con il corpo paralizzato e le membra immobili, esposti alle ferite dei nemici".

Ora occorre interpretare il senso di quella "la stranezza dell'aspetto" capace di paralizzare soldati rotti ad ogni esperienza, e li abbia portati ad esporsi a ferite.
Aspetto significa tutto ciò che i militari romani vedevano e sentivano provenire di fronte a loro, e comprende la forza dell'incantesimo, l'azione congiunta ritualmente coreografica delle "furie" celtiche, con la loro danza magica svolta con i capelli sciolti al vento e roteando torce infuocate, congiunta alla voce tonante dei druidi che pronunciavano aspre maledizioni contro i legionari, ha effettivamente gelato il sangue nelle vene dei romani, e in modo direi sicuramente ipnotico, ne ha impedito ogni movimento.
Solo esortati dai capi, sono poi riusciti a riprendere l'assalto, come risvegliato da un sonno ipnotico.
Quindi abbiamo una testimonianza che proviene non solo dal mondo irlandese, ma anche dal mondo latino, sula forza effettiva e l'efficacia della magia druidica.

Merita poi di essere approfondito il paragone istituito da Tacito tra le donne di nero vestite che operavano congiuntamente ai druidi, e le furie.
LE FURIE, citate da Dante, Inf. IX, 34-60, e collocate nell'Inferno nel Cerchio 6, La città di Dite, dove sono posti gli eretici, sono il nome romano delle Erinni "le colleriche", divinità del mondo sotterraneo, personificazione della maledizione e della vendetta, che, nel loro aspetto benevolo, erano dette Eumenidi.
Secondo Esiodo sono figlie di Gea (la terra), nate dal sangue di Urano mutilato dal figlio Crono.
Dal V secolo in poi le Furie furono identificate come Aletto, il Furore, Tisifone, la Vendetta, e Megera, l'Ira invidiosa, e rappresentate con capelli di serpenti verdi.
Le Furie vivono nel vestibolo dell'Erebo chiuse in gabbie di ferro (Eneide VI, 354).
Nella mitologia greca esse rappresentano i rimorsi, poichè la loro funzione era di tormentare e punire gli autori di delitti.
E questo è interessante, perchè in modo conscio o inconscio Tacito definisce un delitto (sacrilego) ciò che i legionari romani hanno compiuto sull'isola di Mona.

Nell'interpretazione dantesca, cristiana ma comunque interessantissima, è' da escludere che le Furie abbiano relazione solo con i peccatori del Cerchio VI, poichè si levano in difesa di tutta la città di Dite (cioè il basso inferno): mentre gli altri mostri infernali (Flegias, Caronte, Minosse, Pluto) personificavano i peccati puniti nel cerchio, le Furie personificano i rimorsi che portano alla disperazione della salvezza, il peccato massimo che pietrifica l'anima e conduce all'inazione spirituale, precludendo così la via della salvezza.


Politeismo celtico

I celti erano politeisti, come risulta, ad esempio da:
1) CESARE, De bello gallico VI,14
"... i druidi ... Discutono anche molto ... della potenza [lett. della forza e del potere] degli dèi" ovvero "de deorum immortalium vi ac potestate disputant"
2) DIOGENE LAERZIO, Vite, Introduzione,5
Quanti ritengono che la filosofia sia un'invenzione dei barbari, illustrano i sistemi di ogni singolo popolo; dicono che ... i druidi fanno le loro affermazioni con frasi oscure ed enigmatiche, e insegnano che bisogna adorare gli dèi, astenersi dal male e tenere un comportamento virile.
3) Nei racconti irlandesi:
quando un avversario di Cuchulainn, Etarcumul, s'appresta a sfidarlo in duello:
"giraci ancora il carro indietro, ragazzo, poichè giuro sugli Dei che adoro che io non farò ritorno senza portare con me, per esibirla, la testa di questo cerbiatto, la testa di Cuchulainn" (citato in Le Roux-Guyonovarc'h, I druidi, pag. 174).

La tesi di Markale (Il Druidismo, Milano 1999) sul monoteismo druidico è una speculazione interessante, ma priva di riscontri testuali, che piuttosto attestano il contrario, basta leggere le fonti romane e la mitologia celtica e gallese, per rendersi contro dell'azione attiva ed operante di una pluralità di divinità [Lugh, Dagda, Ogma in Irlanda, Toutatis, Taranis, Esus, ecc.)], nessuno dei quali, alla fine, ha una supremazia assoluta e definitiva, ma loro stessi sono soggetti all'incessante divenire e alla ininterrota METAMORFOSI di tutte le cose e di tutti gli esseri, unico vero fondamento del pensiero druidico e della UNITA' DI TUTTO CIO' CHE VIVE. Capisco che prospettare il monismo dei druidi può favorire un più facile avvicinamento al loro pensiero (che secondo alcuni è a noi pressochè sconosciuto, mentre io ritengo possa ampiamente dedursi da moltissime fonti, antiche quali quelle latine e greche, ma sopratutto la mitologia irlandese e gallese, e da parte della tradizione arthuriana), ma secondo me è una scorciatoia infondata, perchè i druidi erano sicuramente PENSATORI MONISTI CHE RAPPRESENTAVANO L'UNITA' COME PRESENZA PLURALE DI DIVINITA', DELLA NATURA, DEGLI UOMINI, DEGLI ANIMALI, e dunque monisti, ma non monoteisti.
Tutto è triplice nella religione druidica, e questo POLITEISMO (e forse si può sostenere che da un punto di vista teologico la stessa religione cristiana, non è un vero monoteismo, visto il ruolo della Santissima Trinità) non è un segno di limitazione, "ma manifestazione della molteplicità in quanto nozione subordinata all'unità" Le Roux- Gionvarc'h, I Druidi, pag. 414).
Markale è un surrealista, e laddove parla del Dio unico simile ai cristiani, scrive anche qualcosa che nessun cristiano può accettare: "tutti gli dei sono druidi. E se tutti gli dei sono druidi, tutti i druidi sono dei. Ma questi sono degli uomini"! UMANITA' DELLA DIVINITA' E DIVINITA' DELL'UMANITA'. C'era di che subire il rogo, un po di secoli fa.
Leggendo la vicenda di Pelagio (vedi pagg. 244 e 245 del libro di Markale, Druidismo, ma ci sono molti materiali interessanti sull'argomento), l'indomito cristiano di Britannia ed inflessibile difensore del libero arbitrio, per questo perseguitato e duramente condannato da una chiesa divenuta agostiniana, repressa (a partire dal corpo, si rifletta sui pesanti problemi personali di natura sessuale di Sant'Agostino, padre del pensiero cattolico, e dei pesanti condizionamenti che ciò ha comportato per centinaia di anni, e ancor oggi non è finita) e sempre più oscurantista, si potrà capire come la continuità tra religione druidica e cristianesimo, sia in realtà improponibile anche dal punto di vista del pensiero più profondo.
Quanto all'arte, sappiamo bene che l'artista ha la tendenza a impadronirsi dei modelli formali che ritiene più consoni alle proprie necessità espressive, e sicuramente, se la libertà dei druidi veniva meno nella negazione cristiana della vitale libertà espressiva dell'essere umano, la stessa trovava rifugio nell'espressione artistica, nella quale era possibile esprimersi con più libertà sottraendosi alle forche caudine della censura ecclesiastica.
Con i druidi e con pelagio si può sostenereche l'uomo ha il libero arbitrio assoluto, non vi e' ne castigo ne ricompensa nell'altro mondo, ciascuno si assume interamente la responsabilita' e le conseguenze dei propri atti ora, in questo mondo non esiste la debolezza umana e il peccato, originale o meno. viviamo qui e ora, con il nostro corpo, con i grandi valori della lealta' e dell'eroismo.
Questo per esprimere, alcuni fondamenti del pensiero che si riallaccia all'antica religione, e a ciò che gli antichi dei ci hanno trasmesso con quelle testimonianze che definiamo leggende e miti.
Il triskell, il modo triplice di intendere anche il divino, e Lucano parla di Taranis-Toutatis-Esus, oltre alle testimonianze del romano Cesare e del Greco Diogene Laerzio, mi pare depongano per un politeismo dei celti...
In tutti coloro che negano il politeismo dei celti, consapevolmente, o inconsapevolmente, agisce il tenacissimo pregiudizio monoteistico inculcatoci da 2000 anni di dominio ideologico cristiano.
Condivido la tesi per cui la concezione celtica degli Dei era diversa da quella greco-romana, ma nego che ci possa essere una incomprensione di fondo, per la quale i classici avrebbero frainteso l'ipotetico monoteismo celtico, scambiandolo per politeismo..
I Greci vivevano assieme ai celti, Massilia, e vi era un fecondo scambio commerciale e culturale (moltissimi autori antichi accostano il pensiero dei druidi a Pitagora). Inoltre ricordiamo Kernunnos, un Dio raffigurato già dai Camuni, e Belenos, Dio adottato anche dai Romani ad Aquileia, una delle principali citta à romane, Epona poi, gli ultimi due dei adottati anche dai rimani, e ognuno di essi ben differente dall'altro.

Ricordiamo anche il classico giuramento celtico:
"Giuro sulla divinità sulla quale giura la mia tribù" attestato dalle fonti irlandesi, coincide con la circostanza che su 374 iscrizioni celto-romane, che riguardano le divinità, ben 305 si presentano una sola volta, "e si ritiene che siano nomi di divinità locali" (teutates). Tuttavia venti nomi ricorrono con grande frequenza i quelle aree dove i Celti si sono stanziati... il nucleo del pantheon celtico consta di trentatre divinità...
I Celti, malgrado le affermazioni degli scrittori romantici, sopratutto francesi, del diciotesimo e degli inizi del ventesimo secolo, erano politeisti, e non monoteisti.
L'idea che i Celti fossero monoteisti deriva da una citazione di Origene (185-254 d.C.) che succedette a Clemente a capo della scuola cristiana di Alessandria.
Nella sua critica testuale al libro di Ezechiele, egli afferma che i Celti di Britannia "avevano venerato un unico dio... prima della venuta di Cristo". Inoltre dice che i Celti "erano stati a lungo predisposti al cristianesimo per mezzo delle dottrine dei druidi... che avevano già inculcato la dottrina dell'unico Dio".
Tuttavia "l'opinione che erano monoteisti non è supportata da prove" (P. Beresford Ellis, Il segreto dei druidi, Piemme, Casale Monferrato 1997, pagg. 142-143).
Al contrario, tutte le prove dimostrano l'esistenza di una pluralità di Dei, con prevalenza di alcuni in certi luoghi, e di altri in altri luoghi (Lugh in Irlanda, Beleno in Gallia e Friuli, Taranis in zone del nord Italia ecc.).

Mito e politeismo erano necessariamente legati perche' facenti parte della espressione della capacita' immaginativa umana, mentre il monoteismo avversa tale capacita' immaginativa imprigionando lo spirito religioso dentro forme ed immagini statiche prefissate.(P.Trevisan)


Profonda differenza tra la visione spirituale celtica-pagana e quella cristiana
I dialoghi di Oisin e Patrizio chiariscono molto bene quale profonda differenza di mentalità separi il cristianesimo dalla visione precristiana, pagana., un vero e proprio abisso di valori e di sentimenti.
Alcune ballate (Dialoghi di Oisin e Patrizio) narrano come Ossian, sperduto sulla terra con tutto il suo carico d'anni, incapace di provvedere a se stesso e al suo cibo, viene accolto da San Patrizio nella sua casa per essere convertito.
Il santo gli dipinge tutti i fulgori del paradiso, che può essere suo soltanto se si pentirà, e tutte le tenebre dell'inferno, in cui i suoi vecchi compagni giacciono tra i tormenti.
Alle argomentazioni, suppliche e minacce del sant'uomo, Ossian risponde in un linguaggio straordinariamente franco.
Non riesce a credere, afferma, che il paradiso possa essere negato ai Feniani, se questi volevano entrarvi, né che Dio stesso non sarebbe orgoglioso di proclamarsi amico di Finn.
Se poi non è così, che senso avrebbe per lui una vita eterna dove non si caccia, non si corteggiano le donne, non si ascoltano le canzoni e le storie dei bardi? No, egli andrà con i Feniani, che siedano a un banchetto o giacciano tra le fiamme, e così Ossian muore, come aveva vissuto... [p. 179-180 Squire (trad. A.L. Zazo e G. Bernardi) Miti e leggende dell'antico popolo celtico - Mondadori, Milano 1999]
Oisin chiedeva continuamente a Patrizio di invocare la clemenza di Dio per Finn e i suoi Fianna, ma il santo si rifiutava, perchè sosteneva che Finn aveva sempre anteposto i piaceri materiali a quelli spirituali. Ai ripetuti rifiuti Oisin chiese: "Che cosa fece mai Finn contro Dio, a parte incoraggiare i suoi poeti, guidare i suoi eserciti, distribuire oro nel corso di gran parte della sua vita e nei momenti di riposo, e mettere alla prova i suoi segugi?
Egli aveva un cuore incapace di provare astio o invidia; il suo cuore si induriva solo nel perseguire la vittoria. E' un'ingiustizia che Dio sia riluttante a concedere cibo e ricchezze. Finn non rifiutò mai nulla nè ai forti nè ai deboli, eppure ora l'Inferno è la sua dimora!"
Patrizio, adirato, rispose: "Taci, o vecchio, e metti da parte la tua stoltezza. Fai in modo che le tue imprese, da questo momento, non abbiano più seguito. Pensa piuttosto alle sofferenze che ti attendono.; i Fianna non esistono più, sono destinati a restare all'inferno e presto anche tu andrai a raggiungerli!"
A queste parole Oisin proruppe in un grido di rabbia e di impotenza insieme: "Se io me ne vado, che tu non possa sopravvivere a me, o Patrizio dal cuore insensibile.
Quanta malinconia provai nell'accettare il battesimo. Ne trassi pochi vantaggi poichè ora sono senza cibo e bevande e passo il tempo digiunando e pregando".
"Inoltre, o Patrizio, dove era il tuo Dio quando i nostri nemici vennero in Irlanda a portare morte e distruzione? Solo Finn e i suoi guerrieri, grazie al loro coraggio e alla loro forza, impedirono che si commettessero delitti e uccisioni di innocenti...
Il suono della tua voce mi è sgradevole ... Piangerò finchè avrò lacrime, ma non per Dio, ma per Finn e i Fianna che non vivono più".
"Non era questo il mio stile di vita, senza duelli e senza battaglie, senza musica e arpe, senza crescita del sapere, senza generosità e senza battute di caccia, che erano le mie occupazioni preferite ... La loro mancanza mi rattrista ...
Non è più vita non partire per compiere atti di coraggio, come eravamo soliti fare, non giocare più come facevamo quando ne avevamo voglia e non vedere più i nostri guerrieri nuotare nel lago ..." [Erberto Petoia, Miti e leggende del Medioevo, Newton Compton ed. Roma, 2002, pp. 20 e segg.]
Oisin and Patrick
http://mockingbird.creighton.edu/english/micsun/IrishResources/oisinpat.htm


La Dea Epona (ed Hera)
Il 18 dicembre è la data in cui in tutto l'impero romano venivano tributati grandi onori alla Dea Celtica Epona, una Dea tradizionalmente abbinata al cavallo, cui erano particolarmente devoti i cavalieri celti prima, e poi tutti i cavalieri romani, che avevano adottato la Dea dei loro grandi avversari, poi in molte regioni continentali integrati nelle legioni romane.

Una moderna devota alla Dea ha scritto:

Epona è la Patrona di tutti i viaggi, fisici, mentali, emozionali e spirituali.
E' la Dea della Terra e delle sue stagioni, della fertilità in tutte le cose.
E' mia Madre, mia Sorella, e la mia Amica.
Io percepisco la sua presenza accanto a me che mi tiene al sicuro, dandomi la forza per ogni giorno.
Io vedo il suo tocco in ogni nuova fioritura primaverile, e in ogni frutto autunnale.
Io sento la sua voce nel mormorio della brezza tra gli alberi e nella canzone del fiume.
Lei è la Grande Madre

[Potia]

Un eccellente articolo di Potia sulla Dea Epona (in inglese, con immagini della Dea) è reperibile all'indirizzo http://www.druidry.org/obod/deities/epona.html

Epona: (Epona), deriva dal celtico epos, equivalente del lat. equus, cavallo. Dea dei Celti, protettrice dei cavalli, dei cavalieri, dei trasporti. Sola divinità celtica il cui culto fosse diffuso in gran parte dell'Impero romano e perfino a Roma, è raffigurata in numerosi bassorilievi e statuette greco-romane come una donna vestita e velata, seduta su una giumenta, tra due cavalli che essa nutre, accompagnata da un puledro o da un cane
Regina dei cavalli e della fertilità. Epona nelle iscrizioni celtiche della Gallia e Rhiannon nella leggenda di Lingua gallese. È la dea dei cavalli e quindi di grande potere in una cultura basata sul cavallo come quella del Celti. Nelle immagini Romano-Celtiche è associata alla cornucopia, alla frutta ed ai serpenti e poichè è la dea dei cavalli lei si occuperebbe delle forze della fertilità e dell'alimentazione.
Il simbolismo di Epona è complesso e multisfaccettato. I commentatori del Mediterraneo parlano di lei puramente come dea dei cavalli e delle scuderie. Epona può essere percepita come protettrice dei cavalieri ed i loro supporti. Dopo tutto, l'intelligenza e la velocità dei cavalli erano cruciali per la sicurezza dei cavalieri; e ci si dovrebbe ricordare, anche, che la società celta pre-Romana era basata su una gerarchia dii capi e cavalieri, dai quali dipendevano il prestigio della società e delle tribù. Ma il culto di Epona ha una profondità più grande di quanto il suo simbolismo equino da solo suggerirebbe. La femminilità, il suo linguaggio figurato e quello del suo cavallo sono significativi, come è il suo simbolismo evidente di fertilità. Ma la sua chiave e la sua associazione con i morti suggeriscono che era una dea che custodiva i suoi devoti durante questa vita e nel mondo seguente. Era la patrona dei cavalli, cavalieri e di colui che si occupa dei cavalli da un lato; dall'altro, rifletteva i misteri profondi della vita, della morte e della rinascita.
La dea giumenta Epona associa la virilità e la potenza del cavallo ai poteri generativi e spirituali della dee madri. In qualità di guardiana dei morti e di coloro che sono in pericolo, trasporta i defunti oltre gli abissi dell'oceano e spalanca le porte dell'Altroregno. La sua presenza reca compagnia e protezione durante le situazioni di pericolo, di insicurezza e nei momenti in cui la salute e il benessere sono compromessi. Ugualmente a suo agio sulla terra, in mare e nell'Altroregno, Epona viene onorata sia dai vivi, sia dai morti.

Statua della dea equestre Epona di Alesia
È sempre accompagnata da un cavallo, spesso da diversi cavalli o puledri che succhiano dai suoi capezzoli.
Raffigurata come una splendida donna che cavalca una giumenta all'amazzone, oppura come una giumenta dalla testa di donna, Epona regnava sia come guardiana dell'inizio e della fine della vita sulla terra, sia come sovrana di luoghi particolari.
Nel mondo celtico veniva riverita in tutta l'Europa centrale, a est del fino alla Bulgaria e a ovest fino alla Britannia. Era adorata sia dai Celti, sia dai Romani: soprattutto dai soldati e dai cavalieri delle truppe di occupazione che forse desideravano approfittarsi dei poteri della dea locale.
Oltre alla giumenta, il tratto distintivo delle rappresentazioni di Epona è quello di guardiana dei defunti che conduce all'Altroregno. Inoltre porta con sé delle chiavi, talvolta semplici chiavi di stalle, ma più spesso chiavi che aprono le porte dell'Altroregno.

In epoca altomedievale, Epona fu anche assimilata a Hera, divinità celtica a cui sono state rinvenute iscrizioni in Svizzera e in Gallia Cisalpina. In Hera, Era o Haerecura "l'antico nucleo funerario che è stato individuato nell'omonima Hera greca riaffiorava in maniera duratura. Ancora al principio del '400 i contadini del Palatinato credevano che una divinità di nome Hera, portatrice di abbondanza, vagasse volando durante i dodici giorni tra Natale e Epifania" (G. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino 1989. pag. 81).Hera, legata a Diana, da cui Herodiana (in seguito trasformata in Erodiade) era la dea notturna per eccellenza che soprintendeva al noto "Corteo di Diana" in cui le donne perverse votate a Satana cavalcavano "certe bestie" al seguito della dea dei pagani. E così il cerchio si chiude: la "Diana paganorum dea" immaginata e poi raffigurata sempre a cavallo di animali lanciati al galoppo espressione più concreta della demonizzazione cristiana del culto precedente, deve essere intesa come "un'interpretatio romana di Epona, o di qualche sua equivalente locale (...). Ora, le più antiche testimonianze sulla cavalcata di Diana provengono da Prum, da Worms, da Treviri, ossia da una zona in cui è stata rinvenuta una gran quantità di raffigurazioni di Epona, a cavallo o accanto a uno o più cavalli " (G. Ginzburg, Op. Cit., pag. 82).


Le sacerdotesse celtiche
Sulle druidesse che profetizzano abbiamo significative testimonianze in alcuni autori (tardo) classici:
LAMPRIDIO, Alexander Severus LIX, 6
Mentre si accingeva a partire, una profetessa druidica gli urlò in lingua gallica : "Va', ma non sperare nella vittoria e non fidarti dei tuoi soldati".

VOPISCO, Numerianus XIV, 2
Diocleziano, che militava ancora nei ranghi inferiori, ed era di stanza in Gallia nel paese dei Tungri, si trovò in una locanda a fare i conti dei suoi costi giornalieri con una donna che era una druidessa. Questa a un certo punto gli disse: "Diocleziano, sei troppo avaro e spilorcio!". Ed egli le rispose scherzando: "quando sarò imperatore, allora sì che largheggerò!". E si dice che la druidessa avesse risposto: "Diocleziano, non scherzare, sarai infatti imperatore, dopo aver ucciso il cinghiale".

VOPISCO, Aurelianus XLIV, 4-5
Diceva infatti Asclepiodoto che Aureliano aveva una volta consultato le druidesse di Gallia, chiedendo loro se l'Impero sarebbe rimasto ai suoi discendenti, ma queste avevano risposto che nessun nome sarebbe stato più famoso di quello dei discendenti di Claudio. E infatti ora è imperatore Costanzo, che discende da quel sangue e i cui discendenti raggiunsero, credo, quella gloria che era stata vaticinata dalle profetesse.

Le druidesse irlandesi (ma anche le vergini celtiche dell'isola di Sein in Gallia e le furie dell'isola di Mona di cui scrive Tacito in Britannia) erano parte integrante dell'antico ordine druidico, in quanto tale, e neanche separate come avviene nel cristianesimo per sesso, dai religiosi di sesso maschile.
Di Fidelma si parla non solo come profetessa (fhaid), ma anche, come Fili.
Nel racconto del Tain Bò Cùalnge, la versione del Book of Leinster usa ban-fhaid (profetessa)

Feidelm banfhaid ar sluag
Profetessa Fedelm, come vedi il nostro esercito?
ma il Lebor na hUIdre scrive banfili (fili donna):
Fedelm banfili do Chonnachtaib mo ainmsea or ind ingen
Il mio nome è Fedelm, la poetessa del Connaught, disse la fanciulla.

Fili ha, come significati più antichi, "espressi nei testimitologici ed epici, quello di 'veggente, mago, indovino, storico, panegerista, satireggiatore, giudice, professore". In generale, scrive Guyonovarc'h nella sua opera I Druidi, pag. 568, designa l'erudito (nel senso di Bardo) . o il druida versato nella poesia e nella 'letteratura' tradizionale.

Pomponio Mela ne aveva già parlato nel De situ orbis (III, 16), chiamando l'isola con il nome di Sena: "Sena, in Britannico mari, ocismieis adversa litoribus, Gallici numinis oraculo insignis est. Cuius antistites, perpetua virginitate sanctae, numero novem esse traduntur: Gallicenas vocant, maria ac ventos concitare carminibus, seque in quae velin animalia vertere, sanare quae apud alios insanabilia sunt, scire ventura et praedicare, sed nonnis deditas navigantis, et in id tantum, ut se consulerent profectis".
Sia detto incidentalmente, qui Pomponio non sta facendo opera di fantasia né enuncia costumi latini. Parla di un'isola situata nel mare britannico, celebre per la presenza di un oracolo di una divinità gallica. Si tratta di tradizioni (traduntur) estranee al mondo latino, ma perfettamente conformi alla materia celtica.
La traduzione italiana è la seguente: "Sena, nel mare britannico, di fronte al litorale, presso gli Osismii, è degna di nota per l'oracolo della divinità gallica le cui sacerdotesse, si dice, sono nove vergini perpetue".
Esse sono chiamate Gallisenae; pretendono di calmare, con i loro canti e con i loro singolari artifici, i mari in tempesta e i venti e di trasformarsi in qualsivoglia animale. Sanno guarire quello che altri non riescono a guarire e sanno predire il futuro.

Pomponio Mela (Tingetela, Gibilterra, sec. I) fu il primo geografo "puro", con la sua "De chorographia", in 3 libri, che con stile che potermmo definire "sallustiano" ed attingendo a varie fonti, descrive la terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo; e l'opera, benché sia poco più che un repertorio di nomi, è ricca di interessanti notizie etnografiche e geoclimatiche.


NOTE
(1) Francoise Le Roux, Christian J. Guyonvarc'h I druidi, ed. ital. Ecig 2a ediz. Genova 1990/2000 pag. 374
(2) Jean Markale, Il druidismo, Paris 1985, 1a ed. It. Roma 1991, Mondadori Milano 1994, 2001, pag. 116
(3) Francoise Le Roux, Christian J. Guyonvarc'h op. cit. pag. 374
(4) Francoise Le Roux, Christian J. Guyonvarc'h, op. cit. P. 375
(5) G. Agrati e M.L. Magini (a cura di) Saghe e racconti dell'antica Irlanda. Druidi, bardi e guerrieri (2 voll), Mondadori, Milano
(6) La Misura del Tempo presso i Celti, di Adriano Gaspani, dell'osservatorio astronomico di Brera, gaspani@brera.mi.astro.it http://www.vialattea.net/archeo/lamisura.htm. Ma vedi anche Adriano Gaspani E Silvia Cernuti, L'astronomia dei celti, "Stelle e misura del tempo tra i Druidi" Collana Le antiche querce vol. X, formato 15x20 - cod. 1099 - pagine 144, brossura, con otto tavole fuori testo in b/n - ISBN 88-86692-55-2, cfr. anche Riccardo Taraglio Il Vischio e la Quercia: Spiritualità Celtica nell'Europa Druidica, Edizioni L'età dell'acquario 2001, pagg. 261 segg. E 363 segg.
(7) http://www.vitanaturale.it/rubriche/druidi.htm
(8) L'annotazione corrispondente è TRINOX(tion) SAMONI SINDIV(os) che è traducibile dalla lingua gallica antica come "le tre notti di Samonios cominciano adesso" e compare in corrispondenza del secondo giorno della seconda quindicina del mese di Samonios di ciascun anno del calendario celtico, quindi due giorni dopo l'ultimo quarto della Luna (Adriano Gaspani, op. cit.) .

di Rolando Dubini
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