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6 Luglio 2005 MISTERO
Luana Monte
La superstizione nell´antica Roma
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Essere superstiziosi, cioè credere nell'influsso di elementi magici o soprannaturali sull'andamento delle vicende quotidiane, potrebbe sembrare un atteggiamento dello spirito del tutto superato nel nostro tempo, ora che le scoperte della scienza ed il livello tecnologico elevato hanno rivelato la vera origine di tanti fenomeni, eliminato molte convinzioni ed idee sbagliate, chiarito parecchie "zone d'ombra", consentito grandi conquiste. L'uomo però, non è un essere rigorosamente razionale e logico, ma un insieme di intelletto e sentimenti, ragione ed istinti, valori e pulsioni: quando egli si trova in uno stato di maggiore vulnerabilità emotiva, o in situazioni stressanti ed angoscianti, ecco che entrano in gioco l'ansia, il desiderio, e soprattutto la paura, e prevalgono piuttosto l'irrazionalità e l'affettività. La paura (di perdere la vita, la salute, l'amore, le proprie sicurezze, di non superare certe prove), elemento fondamentale del vitale istinto di conservazione, ha la funzione, prospettandogli i pericoli, di mettere l'individuo in condizione di adottare, di volta in volta, il comportamento più idoneo per vincerli e superarli. Contrariamente all'animale, che reagisce istintivamente al momento, l'essere umano è capace di prefigurarsi mentalmente i pericoli, siano essi reali o immaginari: se li considera al di sopra delle proprie forze, o la sua ansia di fronte ad essi raggiunge livelli troppo elevati, quasi per esorcizzarli si abbandona alla credenza, al rituale magico, alla pratica superstiziosa, cioè ad una risposta inadeguata, irrazionale, ma rassicurante, che ha lo scopo di allontanare eventi infausti o propiziarsi un destino favorevole. Questi non sono altro che ciò che rimane, che sopravvive, di religioni anteriori, frammenti cioè di un insieme organico di idee, tradizioni, convinzioni, ora sorpassate, che guidavano la vita ed il comportamento di molti popoli dell'antichità.
Un tempo, invero, la visione del mondo era molto più religiosa ed unitaria della nostra: ogni elemento era una parte del tutto, e qualsiasi variazione, cambiamento, evento particolare intervenisse a modificare la situazione in atto, poteva diventare un segno, annunciatore di qualcosa che stava per accadere, forse inviato dalla divinità perchè l'individuo potesse prendere le sue precauzioni:"Si pensava che infiniti fossero i mezzi con i quali essa divinità poteva dare avvertimenti e mettere in guardia; l'inciampare, il canto di una cornacchia o di un gufo, un cattivo incontro, una parola casualmente udita, un sogno infausto, un'anfora d'olio che si rovesciasse per terra, tante altre inezie potevano avere valore di presagio. Solo gli irreligiosi, escludendo ogni intervento provvidenziale della divinità nella vita dell'uomo, negavano il presagio ed irridevano le superstizioni" (1).
L'uomo viveva quindi immerso in un mondo di segni, che, decifrati attraverso il simbolismo e l'analogia, gli consentivano di adottare comportamenti adeguati, e, con l'aiuto di oggetti magici, specifici per le varie situazioni, gli amuleti ed i talismani, di evitare pericoli e guai e predisporsi una vita più serena e fortunata.
Già nelle caverne sono visibili raffigurazioni preistoriche di tipo magico-religioso, volte a provocare il terrore nei nemici o a propiziare la caccia e quindi il benessere del gruppo.

 Zeus che tiene in mano il fulmine (da: Boardman, 1992, p. 63, fig.55,1)

Gli Egizi utilizzavano immagini magiche, formule, incantesimi per difendersi da influenze maligne, o anche per procurare sventure e mali ai nemici. Potevano poi contare su un'ampia scelta di amuleti: l'Ankh, il nodo di Iside, l'occhio di Horus, l'Ureo o cobra sacro, lo Scarabeo, il pilastro Ded, ecc.
I Greci osservavano i prodigi, gli eventi insoliti, i fenomeni anomali, ne traevano presagi, e regolavano su quelli le loro scelte e le loro decisioni, influendo persino sul corso della storia, come nel caso della spedizione ateniese in Sicilia comandata da Nicia: troppo fiducioso nei pareri degli indovini sulla eclissi di luna verificatasi il 27 agosto del 413 a. C., egli ritardò la ritirata dei suoi soldati, causandone l'annientamento.
I Romani, per natura, avevano uno spirito pratico e concreto; tuttavia la divinazione era importante per loro, in quanto indicava la volontà degli dei circa l'opportunità o meno di intraprendere una impresa, di adottare un certo comportamento. La stessa nascita della città di Roma è legata ad un presagio: "Si dice che un presagio, sei avvoltoi, sia giunto per primo a Remo; ed essendo già stato annunciato, quando a Romolo se ne mostrò un numero doppio, i due gruppi abbiano proclamato re entrambi, gli uni basavano la loro pretesa al regno sulla priorità temporale, gli altri sul numero degli uccelli. Si venne ad una lite e si passò da parole rabbiose a fatti di sangue. E' più popolare la variante secondo cui Remo, per deridere il fratello avrebbe oltrepassato le nuove mura e sarebbe stato ucciso dall'irato Romolo che avrebbe aggiunto le parole: 'Così muoia chiunque altro, da ora in poi, osi oltrepassare le mie mura.'Romolo quindi si impossessò del potere da solo e la città appena sorta fu chiamata con il nome del suo fondatore" (2).
Certamente forte è stata l'influenza etrusca, greca ed in particolare delle culture e religioni orientali, per cui ai tradizionali aruspici, che traevano responsi dalle viscere delle vittime sacrificate ed agli auguri, i cui pronostici si basavano sulla osservazione del volo degli uccelli, si aggiunsero maghi, indovini, astrologi o "Caldei. Incredibile divenne il numero delle superstizioni che si diffusero nell'Urbe:"Era presagio di sventura se un cane nero entrava in casa, o una serpe cadeva dal tetto nella corte, se una trave di casa si spaccava, se si rovesciava vino, olio, acqua; se si incontravano muli carichi di ipposelino, erba che era ornamento dei sepolcri; se un topo faceva un buco in un sacco di farina. Peggio se un simulacro divino sudava sangue, se dei corvi beccavano l'immagine di un dio..." (3).
Si doveva fare attenzione, durante le cerimonie religiose, i banchetti ad evitare azioni di cattivo augurio (starnutire, far cadere qualcosa, nominare i fulmini..), e sperare di notte di non fare sogni che presagissero eventi negativi.
In una citta dove era facile che si sviluppassero incendi (l'illuminazione notturna era ottenuta con fiaccole e bastava un pò di vento per provocare ed alimentare roghi ) era importante allontanarne il pericolo scrivendo sulla porta della casa la parola arseverse (forse da averte ignem, cioè "contro il fuoco").Anche i lampi e i fulmini facevano paura, e in quel caso si usava emettere un sibilo, fischiare.
Nei confronti delle ombre, dei "fantasmi", i Lemures, si adottano particolari rituali. In occasioni delle feste Lemurie, il paterfamilias a mezzanotte, a piedi nudi, schioccando le dita, mette in bocca delle fave nere, e poi le butta dietro le spalle pronunciando per nove volte le parole:"Le gitto e me redimo e i miei con queste fave!" e ancora "Ombre degli avi uscite". (4)

 Pendente a forma di lunula. I-II se. d.C. (da: L'oro dei Romani, Roma, 1992, p.173)

Ambivalente il rapporto con il lupo, che da un lato è datore di vita e di fecondità (la lupa che nutre i gemelli Romolo e Remo; l'animale totem del Ver Sacrum; la barba di lupo che si attaccava dietro la porta per salvarsi dai sortilegi), dall'altro è legato al mondo degli inferi, alla violenza, alla malvagità. C'era la credenza nella possibilità che alcuni uomini potessero trasformarsi in lupi e di notte andassero a seminare morte e terrore negli ovili. Tali esseri (versipelles, cioè capaci di mutare, di trasformarsi, o anche lupi hominari, da cui "lupi mannari") sono descritti da vari autori, come Ovidio, che così narra la trasformazione di Licaone, re di Arcadia, il quale, in onore di Zeus, uccise un giovinetto e si cibò delle sue carni:

"Egli fugge sgomento, nei campi
silenziosi s'inoltra, forte urla e si sforza a parlare,
ma non riesce: la bocca gli prende la rabbia dal cuore,
e dell'usato macello bramoso si volge nel gregge,
gode tuttora del sangue. Le braccia diventano gambe;
l'abito, pelo, ed è lupo..."
(5).

Nel "Satiricon" di Petronio, Nicerote racconta che una volta chiese ad un forte soldato di accompagnarlo a casa di una amica; così al primo canto del gallo, sotto i raggi di una luna chiara, si misero in cammino e giunsero in un cimitero. Quì il soldato si avvicinò ad una lapide per un bisogno, quindi si spogliò, ed ecco che diventò un lupo e poi sparì nella vicina selva. Nicerote, terrorizzato, malgrado la paura, riesce a giungere dalla sua amica che gli dice: "Se solo fossi arrivato un po' prima, almeno ci avresti dato una mano: un lupo è entrato nel recinto e ci ha massacrato tutte le pecore come un macellaio. Comunque, anche se è riuscito a scappare, non ha da stare allegro, perché un nostro servo gli ha trapassato il collo con la lancia".(6) Una volta rientrato a casa, Nicerote trova il soldato a letto con un medico al suo capezzale che gli cura il collo ferito: "Allora mi rendo conto che è un lupo mannaro e da quel giorno non ho più mangiato con lui manco un tozzo di pane, nemmeno a costo della vita". (ibid.)
Per quanto riguarda le date, i Romani dedicavano il mese di febbraio alla purificazione ed alla lustrazione (februus = purificante); il 14 marzo cacciavano dalla città un vecchio coperto di pelli, Mamurio Veturio, il vecchio marzo, che simboleggiava l'anno vecchio, per aprire le porte alla Primavera; il 21 aprile, in onore della dea Pale, compivano rituali ed offerte in senso di espiazione e propiziazione, pregavano, accendevano fuochi su cui i pastori saltavano sfidandosi; ritenevano nefasto sposarsi nel mese di maggio, perchè, come dice Plutarco, esso era dedicato alla cerimonia di purificazione più importante dell'anno, quella degli Argei, bianchi fantocci che venivano gettati nel Tevere, probabilmente quali sostituti dei vecchi della comunità o dei prigionieri di guerra sacrificati in origine; consideravano non fausto il periodo 9-15 giugno, dedicato alle Vestalia, feste in onore della dea Vesta, durante le quali si spazzavano e si ripulivano i templi; il 23 agosto sacrificavano dei piccoli pesci a Vulcano, dio del fuoco, probabilmente per scongiurare, con degli animali che vivevano nell'acqua, il pericolo d'incendi che nei giorni più caldi dell'anno avrebbero potuto distruggere granai e raccolti; il 13 settembre, nel Tempio Capitolino, presso la cella di Minerva, piantavano un chiodo allo scopo di impedire, bloccandolo, che un evento rovinoso - carestia, inondazioni, epidemie - potesse colpire la comunità (in seguito i chiodi infissi nel tempio divennero un sistema di computo del tempo); in ottobre purificavano le armi, al termine delle campagne di guerra.

 Mano votiva in bronzo (da: Il Gioiello nei secoli, Milano 1969, p. 156)

Consideravano infausti il secondo giorno del mese, le none (quinto o settimo), le idi (tredicesimo o quindicesimo); ritenevano favorevoli i numeri dispari, specialmente il tre ed i suoi multipli, al contrario di quelli pari.
Anche la nostra diffidenza nei confronti dei numero 17 passa dall'antica Roma.
Dal punto di vista matematico il 17, numero primo (cioè divisibile solo per 1 e per se stesso), segue immediatamente il 16, che si può anche intendere come 2 elevato alla quarta potenza o come il risultato di 4 x 4, ed è geometricamente rappresentabile come un quadrato formato da sedici componenti, quattro per ogni fila, sia orizzontale che verticale, 4 per ogni lato, 4 per ogni diagonale: in tal caso, l'aggiunta di un elemento in più, ovunque lo si voglia collocare, significa turbare, compromettere la compattezza, la solidità, la regolarità del quadrato e lo si può quindi intendere come un elemento di disturbo, di squilibrio, di instabilità, pertanto negativo. I Pitagorici lo chiamavano "ostacolo" ed era per loro, a detta di Plutarco, il numero che avevano più in odio. In Egitto è nel diciassettesimo giorno del mese di Athyr che muore il grande dio Osiride; anche il biblico Diluvio Universale inizia il giorno 17 del secondo mese. A Roma, seguendo il sistema di scrittura dei numeri allora in uso, il 17 si scriveva XVII, che anagrammato si può leggere VIXI, cioè vissi, ho vissuto, al passato e non nel tempo presente... (7)
Numerosissimi e di varia natura ed aspetto gli amuleti, capaci "di preservare dalle malattie e dai malefici e di stornare i cattivi influssi...La maggior parte degli amuleti in pietra e in metallo veniva portato sotto forma di gioielli ed ornamenti da collo come collane o pendenti isolati (Bulla,Ruota), oppure come braccialetti ed anelli. Oltre alle Bulle erano molto diffuse le Lunule (pendagli a forma
di crescente lunare) ed i Crepundia, medaglioni-sonagli (crepitacoli) di varia forma, che si appendevano al collo dei bambini per tenere lontani i demoni con il suono delle pietruzze in essi contenute" (8).
Le pietre preziose hanno, ciascuna, una specifica valenza magica e campo d'applicazione, come afferma anche Plinio, che dedica un intero libro, il 37°, della sua Naturalis Historia alle pietre preziose e semipreziose ed alle loro caratteristiche ed ai rispettivi "poteri": l'agata sarebbe efficace contro i morsi di ragni e scorpioni; l'ambra un valido rimedio contro gonfiori delle tonsille e del collo; l'ametista, come lo smeraldo, preserverebbe dall'ebbrezza, allontanerebbe le tempeste e contrasterebbe i veleni; e così via.
Su pietre preziose o semipreziose venivano poi incise immagini di divinità protettrici, come Venere, Mercurio, Eros, la Fortuna; di oggetti benauguranti; di animali forti e combattivi come l'orso, il leone, l'aquila.
Sono state poi ritrovate numerose gemme, note come "Gemme Gnostiche". "Si tratta di pietre così definite in quanto nelle iscrizioni che quasi sempre vi compaiono, si pensò di aver individuato elementi di quella dottrina filosofico-religiosa nota come 'Gnosticismo'. Le iscrizioni in lettere greche comprendono vocaboli, frasi o formule di oscuro significato magico, insieme a segni cabalistici o addirittura alchemici..." (9).
Le pietre più comunemente usate furono il diaspro di vari colori e il calcedonio. Tra le parole che vi erano incise più frequentemente Abraxas, Iaw e, fra le figure, il dio sole Helios, Arpocrate, Anubi dalla testa di sciacallo, ed il serpente cosmico Ouroboros, che si morde la coda a formare il cerchio che non ha inizio nè fine, l'eternità.


Note:
(1) Paoli U., Vita Romana, Firenze 1962, p. 635.
(2) Livio, Ab Urbe Condita, I, 7.
(3) Paoli U., Vita Romana, Firenze 1962, p. 635.
(4) Ovidio, Fasti, V, vv. 429 - 444.
(5) Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 232 - 237.
(6) Petronio, Satiricon, LXII.
(7) Ai giorni nostri, quando il 17 si accompagna al venerdì (una volta dedicato alla dea della bellezza e dell'amore Venere, ma con il Cristianesimo divenuto un giorno triste e luttuoso, essendo quello in cui è avvenuta la crocifissione di Gesù) assume una connotazione particolarmente sfavorevole.
(8) G. Devoto - A Molayem, Archeogemmologia, Roma, 1990, p. 237.
(9) ibid. pp. 237 - 238.

di Luana Monte
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