
È UFFICIALE, SHAKESPEARE ERA MESSINESE. LO DICHIARA IL “THE TIMES”
Alcuni anni fa, più di cinque milioni di italiani seguirono sui social media il viaggio in Francia di Vittorio Sgarbi, che era partito promettendo: «Riporto la Gioconda in Italia», facendo credere di avere raggiunto un accordo per la restituzione all’Italia del capolavoro di Leonardo, «rubato da Napoleone». La sceneggiata durò alcuni giorni, e solo alla fine si scoprì che si trattava di un riuscito spot pubblicitario della Citroën, che si era servita di Sgarbi per lanciare due nuovi modelli d’auto. Insomma, una bufala ben architettata, tipica del personaggio, che aveva saputo fare leva sull’orgoglio italico. Un orgoglio culturale che ora lo scrittore Antonio Socci ritiene assai affievolito, ma non spento, tanto da intitolare «Riprendiamoci Shakespeare» un capitolo del suo ultimo libro (Traditi, sottomessi, invasi, Rizzoli), come se il maggiore scrittore inglese fosse, al pari della Gioconda, un patrimonio italiano.
Il bello è che l’obiettivo di Socci è proprio questo: dimostrare che Shakespeare non era inglese, bensì un italiano di Messina. Convinzione che Socci fonda su letture erudite e documentate, di cui dà conto nelle numerose pagine dedicate a un argomento politico-letterario incredibilmente sottovalutato. Personalmente, prima di leggere questo libro, non sapevo nulla della presunta origine italiana di Shakespeare. Per questo ho voluto approfondire il tema e, grazie ad alcuni siti assai documentati (su tutti messinaierieoggi.it e angloamericanstudio.it), ho verificato che il grido di Socci («riprendiamoci Shakespeare»), a differenza della bufala di Sgarbi, coglie nel segno.
Per gli inglesi, Shakespeare è il terzo di otto figli di un guantaio-macellaio analfabeta, nato il 23 aprile 1564 a Stratford upon Avon, località a 40 chilometri da Londra, dove morì il 23 aprile 1616. A causa delle ristrettezze economiche familiari, non ebbe modo di fare grandi studi. Tuttavia, dopo i 25 anni, come per miracolo, iniziò a scrivere poesie, poemi e decine di opere teatrali, coniando più di 11 mila vocaboli nuovi della lingua inglese, opere che ne hanno fatto un gigante della letteratura mondiale. Se Dante è stato il padre della lingua italiana, Shakespeare lo è stato per quella inglese. Tanto che il critico Harold Bloom ha scritto: «Dopo Gesù, Amleto è la figura più citata nella coscienza occidentale».
Benché non sia mai stato trovato un suo scritto originale, né un libro che gli fosse appartenuto, per più di tre secoli l’origine inglese di Shakespeare non è mai stata messa in dubbio. Il primo a farlo, all’inizio del Novecento, è stato un giornalista italiano, Santi Paladino (1902-1981), che trovò per caso nella biblioteca paterna un antico libro, intitolato I secondi frutti, firmato da Michel Agnolo Florio. Leggendolo, Paladino scoprì che molte frasi di quel libro erano identiche a quelle contenute nelle opere di Shakespeare. Un caso di plagio? Impossibile: quel libro era stato stampato nel 1549, circa 50 anni prima della comparsa delle opere shakespeariane, anzi prima ancora della nascita del poeta (1564). Come si poteva spiegare tutto ciò?
Indagando su Michelangelo Florio, il giornalista Paladino scoprì che si trattava del figlio del medico Giovanni Florio e della nobildonna Guglielma Crollalanza, nato a Messina e poi fuggito a Treviso con la famiglia, di origine ebraica e religione calvinista, per sfuggire alla persecuzione religiosa dell’Inquisizione (la Sicilia era allora sotto la Spagna). Il giovane Michelangelo Florio studiò a Venezia, Padova e Mantova; viaggiò molto, visitando Danimarca, Grecia, Spagna e Austria, e diventò un umanista di grande cultura, ricercato come precettore dalle famiglie più ricche d’Europa. Grazie all’amicizia con Giordano Bruno, che aveva buoni rapporti con i conti di Pembroke e Southampton, nel 1588 Michelangelo Florio raggiunse Londra, dove fu assunto come precettore di lingua italiana e latina della futura regina Elisabetta, il cui lungo regno è ricordato come «età dell’oro».
Un’epoca a cui contribuirono anche le opere teatrali di Shakespeare, il cui vero autore, secondo Paladino, era in realtà proprio Michelangelo Florio, poiché si trattava della stessa persona. Tesi che Paladino espose in un articolo pubblicato il 4 febbraio 1927 sulla rivista L’Impero, con il titolo: «Il grande tragico Shakespeare sarebbe italiano». Florio, per cancellare il proprio cognome da calvinista fuggiasco, aveva deciso di farsi chiamare Shakespeare traducendo in inglese il cognome della madre (Crollalanza): shake vuol dire agita, scrolla; spear significa lancia. Mentre William era il nome di un cugino della madre, residente proprio a Stratford e morto prematuramente.
Agli inglesi la tesi di Palladino risultò indigesta, e corsero immediatamente ai ripari. Dopo una visita a Roma di Winston Churchill, il regime fascista di Benito Mussolini ordinò l’immediata chiusura dell’Accademia nazionale shakespeariana, nata a Reggio Calabria per iniziativa dei cultori della tesi del Paladino. E sull’origine italica di Shakespeare calò il silenzio. Ma il velo di quella censura è stato squarciato nel 2002, quando un docente di letteratura in pensione, Martino Iuvara, approfondì ulteriormente le ricerche su Florio- alias- Shakespeare, mettendo in risalto alcuni dati incontrovertibili.
Come faceva il figlio di un guantaio analfabeta a possedere l’immensa cultura classica che Shakespeare dimostra nelle sue opere? Come poteva descrivere così fedelmente i luoghi e le usanze delle città italiane in cui sono ambientate molte opere teatrali? Più di un terzo (15) dei 37 drammi shakespeariani sono infatti ambientati in Italia. In Amleto compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guilderstern, che erano compagni di studi di Florio all’università di Padova. Sempre in Amleto si trovano numerosi proverbi pubblicati da Florio nel precedente libro italiano I secondi frutti. Nel Mercante di Venezia, il Bardo rivela una conoscenza della legislazione veneziana del tempo, del tutto sconosciuta a Londra. Molto rumore per nulla è la traduzione inglese di una commedia giovanile del Florio (Tantu traficu ppi nenti). Nella stessa commedia un protagonista se ne esce con una battuta («Mizzeca, eccellenza!»), che soltanto un siciliano poteva conoscere. E, guarda caso, Antonio e Cleopatra è ambientato a Messina, città d’origine di Florio.
Sono solo alcuni dei numerosi dettagli che hanno spinto il quotidiano The Times a commentare così la tesi del professor Iuvara: «Il mistero di come e perché Shakespeare sapeva così tanto dell’Italia ed ha messo tanta Italia nelle sue opere, è stato risolto da un accademico siciliano in pensione. La questione risiede nel fatto che Shakespeare non era affatto inglese, ma italiano». Chapeau!
Riepilogando:
In Amleto compaiono i cognomi di due studenti danesi, Rosencrantz e Guildenstern, che frequentarono l’università di Padova e che Michelangelo Florio conosceva;
In Amleto si trovano molti proverbi pubblicati dal calvinista Michelangelo Florio nel volumetto intitolato “I secondi frutti”;
L’origine italiana di Shakespeare forse può spiegare i molti luoghi, presenti nelle sue opere, che caratterizzano l’Italia e i nomi italiani, come: Romeo e Giulietta – Otello – Due signori di Verona- Sogno Di una Notte Di Mezza Estate – Il mercante di Venezia – Molto rumore per nulla – La Bisbetica Domata (che è di Padova) – Misura per misura – Giulio Cesare – Il Racconto Dell’Inverno – La Tempesta (che inizia a Milano);
Più di un terzo (ben 15) dei suoi 37 drammi sono ambientati in Italia;
Ne Il Mercante di Venezia il colore locale è stupefacente: esatte espressioni marinaresche sono poste in bocca a Salanio e Salerio, si parla del traghetto che unisce Venezia alla terraferma e si dà l’esatta Belmont (cioè Montebello, un sobborgo di Venezia) e Padova, che deve essere percorsa da Porzia e Nerissa;
Proprio nel Mercante di Venezia il Bardo rivela una approfondita conoscenza della legislazione veneziana del tempo, completamente diversa da quella vigente in Inghilterra e che nessun inglese del tempo conosce così bene. C’è di più: il maestro Bellario, citato nel testo, adombra un personaggio realmente esistito e molto famoso nell’ambiente giuridico padovano, il prof. Ottonello Discalzio.
La gran parte delle sue opere rivela una conoscenza diretta dei luoghi che ha visitato durante la sua giovinezza girovaga;
“Giulietta e Romeo” appare chiaramente come una trasfigurazione artistica della storia d’amore vissuta durante la giovinezza;
Nei registri della scuola secondaria di Stratford, la “Grammar School”, non compare il nome di nessun William Shakespeare;
Si sa che William Shakespeare frequentasse a Londra un Club In. In quel Club, però, non risulta registrato fra i soci, mentre, invece, vi risulta registrato Michelangelo Florio;
E’ noto che la sciattezza della biografia di Shakespeare, raffrontata alla grande mole della sua opera teatrale, ha fatto negare a molti studiosi l’autenticità della sua esistenza, e ritenere essere egli il prestanome di personaggi più famosi;
I drammi di Shakespeare rivelano una straordinaria esperienza secolare. Aveva ad esempio una buona conoscenza della legge, e fece largo uso di termini e precedenti legali. Nel 1860 John Bucknill scriveva di lui dicendo che conosceva a fondo la medicina (Medical Knowledge of Shakespeare). Lo stesso si può dire delle sue nozioni di caccia, falconeria e altri sport, come pure dell’etichetta di corte. Lo storico John Mitchell dice che era “lo scrittore che sapeva tutto”.
Uomo di lettere? Il padre di William, John, (quello inglese) era un guantaio, commerciava in lana e forse faceva il macellaio. Era proveniente da una famiglia di contadini e piccoli proprietari terrieri (yeomen) del Warwickshire, un cittadino rispettato, anche se illetterato;
Shakespeare conosceva bene anche la storia romana e sapeva che Pompeo aveva soggiornato a Messina (36 a.C.). Nella Commedia “Antonio e Cleopatra”, infatti, conoscendo questi fatti storici, parla della casa di Pompeo che è a Messina e proprio lì ambienta l’atto II scena I: “Messina. In casa di Pompeo. Entrano POMPEO, MENECRATE e MENAS, in assetto di guerra”;
In “Molto rumore per nulla”, commedia degli equivoci, sono riscontrabili modi di dire e doppi sensi propri della parlata messinese;
inoltre emerge quel particolarissimo carattere del messinese che ama complicarsi l’esistenza proprio con gli equivoci;
“Crollare”, in italiano antico, significava “scrollare”, dimenare qua e là; quindi “crollalanza” è traducente perfetto di “shakespeare”. L’atto da cui deriva il cognome risale alla “Germania” di Tacito: “Si displicuit sententia, fremitu aspernantur; sin placuit, frameas concutiunt. Honoratissimum adsensus genus est armis laudare (cap. 11)” ( “Se il parere non è piaciuto, [I germanici in assemblea] lo respingono mormorando; se invece è piaciuto [s]crollano le lance. È il modo più onorevole d’approvazione, lodare con le armi.”;
La voce “crollare” nell’autorevolissimo Tommaseo-Bellini dimostra indubitabilmente l’accezione antica di “crollare” che equivale al “concutio” tacitiano e allo “shake” scespiriano;
A proposito della sua morte Richard Davies (1700) scrisse: “He died a papist” (morì da cattolico), frase che forse potrebbe confermare la circostanza che egli fosse in precedenza calvinista, come Michelangelo Florio, per poi convertirsi al cattolicesimo;
Quando muore, il 23 aprile 1616, nessuna commozione né lutto nazionale si registra in Inghilterra, quasi fosse uno straniero;
In “Molto rumore per nulla” il comandante delle guardie Carruba, rivolto a Don Pedro principe d’Aragona, ad una sua domanda risponde con una sicilianissima espressione, presente solo nella parlata dei siciliani e che soltanto un siciliano poteva conoscere allora, soltanto oggi entrata nel linguaggio comune italiano: “Mìzzeca, eccellenza!” (Atto V scena I);
I biografi ipotizzano che Shakespeare abbia maturato la sua vasta conoscenza della legge e la sua accurata familiarità con i modi, il gergo e i costumi degli avvocati dopo essere stato lui stesso per poco tempo il cancelliere del tribunale di Stratford;
proprio come se un giovanotto sveglio come me, cresciuto in un paesino sulle rive del Mississippi, potesse sviluppare una conoscenza perfetta della caccia alla balena nello stretto di Behring e del gergo dei veterani passando qualche domenica a pescare pesce gatti […] Gli elementi conosciuti sulla vita di Shakespeare si possono scrivere su di un lato di un foglietto per gli appunti » (Mark Twain in “Is Shakespeare really dead?”, 1909);
Chi conservò i manoscritti di Shakespeare? Un religioso del XVIII secolo controllo’ tutte le biblioteche private nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon senza trovare un solo volume che fosse appartenuto a Shakespeare. I manoscritti dei drammi costituiscono un problema ancora maggiore: non risulta che sia stato preservato nessuno degli originali. Trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. E’ da ritenere che tutte le opere fossero in mano ai Florio, che non potevano ufficialmente giustificarne la provenienza;
L’opinione maggioritaria tra gli studiosi identifica il drammaturgo con il William Shakespeare nato a Stratford-on-Avon nel 1564, trasferitosi a Londra e diventato attore e contitolare della compagnia teatrale chiamata Lord Chamberlain’s Men (proprietaria del Globe Theatre a Londra). Quest’uomo divise la propria vita tra Londra e Stratford, dove si ritirò nel 1613 e dove sarebbe poi morto nel 1616. Di lui possediamo la data di battesimo, il 26 aprile 1564. Oltre ad alcuni particolari sui genitori di Shakespeare, gli storici sono inoltre in possesso del certificato di matrimonio di William – datato 27 novembre 1582 – e dei certificati di battesimo dei suoi tre figli.