Gesù col piercing? La raffigurazione può sembrare scandalosa e blasfema o forse – peccato ancora più grave nella nostra civiltà dell´immagine – soltanto kitsch, una "lettura" un po´ ingenua e superficiale. Più scandalosa e provocatoria, comunque, del Cristo-manager in giacca e cravatta di venticinque anni fa. È lecito raffigurare il Nazareno nei panni di un no-global, dopo avergli fatto indossare l´abito dello yuppie? Dopo secoli di santini devoti, di immagini oleografiche, di sacri cuori sdolcinati, non c´è il rischio di un´oleografia a rovescio, sovversiva solo in apparenza? E qual è il confine, in questo esercizio, tra la lode e la bestemmia?
Domande legittime e, tuttavia, fuorvianti. Perché ogni epoca ha dipinto il "suo" Gesù, dandogli i tratti a essa più congeniali: maestro di saggezza, profeta rivoluzionario, innocuo sognatore, filosofo itinerante. Ogni epoca ha proiettato sull´uomo di Nazareth le sue aspirazioni, i suoi sogni e, talvolta, le sue paure. Perché non la nostra? «Ogni epoca ha ricreato la figura di Gesù secondo la propria personalità», scriveva Albert Schweitzer, il medico di Lambaréné, e grande biblista. Non c´è nulla di scandaloso in tutto questo. E allora perché non il piercing?
Di Gesù non sappiamo quale fosse la statura, quale il colore degli occhi e dei capelli, se amasse esprimersi con i gesti, come fanno ancora i contadini del Mediterraneo. Non sappiamo che aspetto avesse. Ma ciò non ha impedito agli artisti del passato di raffigurarlo, di tramandare i modelli iconografici ancora oggi dominanti: la barba, i lunghi capelli, lo sguardo penetrante. Non ha impedito di attribuirgli le sembianze del monarca ieratico bizantino, del Cristo pantocrator, signore del cosmo e della storia, del sommo sacerdote o dell´umile carpentiere. Perché il "vero" Gesù resta un enigma, anzi l´enigma per eccellenza. Un giallo che ha mobilitato schiere di appassionati ricercatori e di detective improvvisati e che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, più che per ogni altro personaggio della storia.
Da una parte, secondo una facile ricostruzione, c´è Jeoshua ben Ioseph, un oscuro ebreo di Galilea di cui gli storici ufficiali ignorano il passaggio su questa terra. E dall´altra c´è il Cristo, cioè il Messia annunciato dai profeti, la cui vita e il cui insegnamento sono stati tramandati dai Vangeli, testi con finalità apologetiche compilati cinquant´anni dopo la sua morte sulla base di tradizioni e di narrazioni diffuse nella cerchia dei primi cristiani. Secondo la vecchia formula, da una parte ci sarebbe insomma «il Gesù della storia» e dall´altra «il Cristo della fede». Del primo si sanno poche cose, notizie troppo scarne anche per il più modesto Who´s Who. Del secondo, invece, le testimonianze e i documenti occuperebbero per intero lo spazio di una grande biblioteca.
Ma è davvero così? Davvero è così rigida la separazione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede? E chi, senza paura del ridicolo, può considerare i Vangeli soltanto come testi apologetici? Se è tramontato da tempo il sogno romantico di una vita di Gesù, se gli studiosi più autorevoli hanno gettato la spugna dichiarando l´impossibilità di una biografia del Nazareno, la ricerca storica ha fatto negli ultimi decenni passi da gigante e altri elementi, archeologici, paleografici, di critica testuale, si sono aggiunti al già ricchissimo dossier: si pensi soltanto agli scritti di Qumran che proiettano nuova luce sul mondo giudaico all´epoca di Gesù.
Nella letteratura latina le testimonianze più antiche, le "pratiche" dell´istruttoria sono tre: un´allusione, negli Annali di Tacito, ai «Crestiani» (sic), seguaci di un certo Cristo, «fatto suppliziare dal procuratore Ponzio Pilato sotto l´impero di Tiberio»; una lettera con la quale Plinio il Giovane, governatore della Bitinia tra il 111 e il 113, chiede all´imperatore Traiano come comportarsi con i cristiani denunciati al suo tribunale e come reagire di fronte alla «superstizione irragionevole e smisurata» di cui essi danno prova; infine, un accenno in Svetonio ai giudei che tumultuavano istigati da un tale «Cresto».
Troppo poco? Resta, sul versante ebraico, il documento forse più interessante (e controverso): il cosiddetto testimonium flavianum, attribuito all´aristocratico giudeo Flavio Giuseppe e giunto a noi in versioni diverse, frutto di interpolazioni e di stratificazioni successive. Considerato con sospetto da molti studiosi che in esso scorgono i segni di una manipolazione cristiana, il testimonium è stato recentemente rivalutato dallo storico Serge Bardet, al termine di una minuziosa indagine filologica, una vera inchiesta poliziesca in cui non mancano le rivelazioni e i colpi di scena (Le Testimonium Flavianum. Examen historique, Cerf, 2002).
Che cosa dice questo documento che nella forma più lunga non supera le dodici righe? Eccolo, nella versione più "neutra", dovuta ad Agapio, vescovo di Hierapolis in Siria, nel X secolo: «In quel tempo ci fu un uomo saggio chiamato Gesù. La sua condotta era buona e le sue virtù, note. Molti tra i giudei e di altre nazioni divennero suoi discepoli. E Pilato lo condannò a essere crocifisso e a morire. Ma coloro che erano diventati suoi discepoli predicarono la sua dottrina. Essi raccontarono che egli era apparso loro tre giorni dopo la sua crocifissione e che era vivo. Forse era il Messia, del quale i profeti hanno raccontato i prodigi». Mancano, sotto il calamo di Agapio, i passi più discussi e sospetti, il riferimento a «Gesù, uomo saggio, se pur conviene chiamarlo uomo», frase che lascerebbe pensare a una professione di fede. Ma il dibattito è ancora aperto e il mistero del testimonium irrisolto.
In estrema sintesi, queste sono le "carte" sul Gesù della storia. Restano le numerose testimonianze indirette: sull´antico ebraismo, sull´ambiente culturale che ha reso possibile la rivoluzione cristiana, sul clima politico e sui conflitti sociali nella Palestina occupata dai Romani, sul mondo ellenistico nel quale si diffuse la nuova fede. Restano gli scritti intertestamentari, non recepiti nel canone delle Scritture, i testi gnostici scoperti nel 1954 a Nag Hammadi, in Egitto, e gli "apocrifi" del Nuovo Testamento, che spesso indulgono al meraviglioso o al pittoresco nel racconto degli eventi. E poi le fonti cristiane canoniche, le lettere di Paolo e i Vangeli che sarebbe troppo facile liquidare come testimonianze viziate in partenza dal partito preso degli autori (cioè dalla loro fede pasquale) e dunque inattendibili. Perché, come ha scritto il grande storico Henri-Irénée Marrou, studioso del mondo tardo-antico, i Vangeli «non sono una raccolta di verbali, resoconti più o meno esatti o tendenziosi, più o meno fedelmente trasmessi».
Altra è la loro finalità: «Trasmettere ai lettori la conoscenza di Cristo, necessaria alla salvezza». I Vangeli, conclude Marrou, «non sono una testimonianza diretta sulla vita di Cristo, ma sono un documento primario e di un valore incomparabile sulla comunità cristiana delle origini: attraverso l´immagine che i discepoli si sono fatta di lui possiamo arrivare a Gesù». Sui Vangeli e sulla storia della loro redazione, sulle fonti primitive e sulle stratificazioni successive, gli studiosi hanno tolto negli ultimi due secoli molti veli, mettendo in luce per esempio il ruolo della cosiddetta fonte Q (iniziale della parola tedesca «fonte»), da cui deriva il materiale comune a Matteo e a Luca, ma che non troviamo in Marco.
E ora? Qual è lo stato della questione? Quali sono le ultime notizie sull´uomo chiamato Gesù? «L´eruzione vulcanica delle passioni fa della ricerca sul Gesù della storia qualcosa come il Vesuvio o l´Etna: alle fasi di attività, e al moltiplicarsi delle pubblicazioni, si alternano le fasi di riposo», dice Daniel Marguerat. Ma è finito il tempo delle colate di lava incandescente, delle rivoluzioni storiografiche, dei processi di «smitizzazione» tesi a purificare i Vangeli dalle incrostazioni dei miti e delle leggende frutto di una mentalità premoderna (secondo il metodo reso celebre dall´esegeta protestante Rudolf Bultmann)? È passata la fase dei terremoti, delle scosse di assestamento, della ridefinizione e della ri-collocazione di Gesù nel suo popolo, ebreo tra gli ebrei?
Marguerat è un "vulcanologo" speciale. Preside della Facoltà di Teologia all´Università di Losanna, associa al rigore intellettuale del biblista i talenti del divulgatore. Nel suo studio non ci sono sismografi, bensì i normali strumenti dello storico e dell´esegeta, un computer, libri e schedari.
Proviamo con lui a ricostruire il puzzle della ricerca storica e ad affrontare il mistero di Gesù, l´uomo che veniva da Nazaret (come s´intitola uno dei suoi libri più fortunati, in corso di pubblicazione anche in Italia, da Claudiana). E prima di tutto, via i cliché, via le facili etichette, i luoghi comuni edificanti, le pie falsità. La parola d´ordine è, come ai tempi di Bultmann, "demitizzare": «No, Gesù non è l´essere soave, dal sorriso dolce ma un po´ ebete, che i pittori romantici hanno mummificato. È un uomo in carne e ossa, un ebreo del suo tempo».
Uno dei risultati della cosiddetta third Quest, la terza fase della ricerca storica su Gesù (dopo la old Quest, quella dei pionieri ottocenteschi, e la new Quest, sviluppatasi essenzialmente in ambito tedesco con i contributi di Käsemann, Bultmann, Bornkamm, Jeremias), è proprio questo: aver ricollocato l´uomo di Nazareth all´interno del suo popolo, aver insistito sulla «giudaicità» o sull´ebraicità di Gesù. «La fase eruttiva attuale», dice Marguerat, «è cominciata alla fine degli anni ´70, con l´impulso dato alla rivisitazione del giudaismo da studiosi come Ed Parish Sanders, specialista di antichità ebraiche e di letteratura talmudica, e Geza Vermes, autore di un libro che s´intitola, significativamente, Gesù l´ebreo».
Secondo Marguerat, questa rilettura del giudaismo antico è stato uno dei contraccolpi della Shoah. Gli studiosi occidentali sono stati spinti, insomma, a interrogarsi sulle immagini del giudaismo e a chiedersi se la figura di Gesù modellata da venti secoli di cristianesimo non fosse impregnata di tratti antiebraici. E, questione ancor più spinosa, «se l´opposizione tra un giudaismo descritto come gretto, legalista, senza cuore e un Gesù dipinto come l´eroe di una religione del cuore, della generosità e della grazia, non avesse alimentato l´antisemitismo».
«Un dubbio», continua Marguerat, «ha cominciato a farsi strada tra gli studiosi: forse ci siamo sbagliati perché la nostra immagine del giudaismo era dominata dall´opposizione tra il Vangelo e la Legge forgiata dai Padri della Chiesa, sviluppata poi, in particolare, da Agostino, ripresa e indurita da Lutero, durante la Riforma». Il Vangelo e la Legge. Da una parte, il soffio della libertà creatrice; dall´altra, il polo del legalismo, della chiusura a Dio. E invece... Invece ci si è accorti che le cose non sono così semplici. E che l´ebraismo del tempo di Gesù «non è un blocco di granito, monolitico, ma una realtà variegata, diversificata, tollerante nel modo di definire la "pietà" rispetto alla Legge». Ci si è accorti che non c´è un giudaismo, ma dei giudaismi, al plurale, con almeno quattro correnti: i Farisei che difendono la stretta osservanza della Legge, sia pure con molte sfumature; i Sadducei, una specie di casta sacerdotale che nega la vita eterna (il «lievito dei Sadducei» contro il quale metterà in guardia Gesù); gli Zeloti, rivoluzionari che si battono contro l´occupazione romana della Galilea; infine, gli Esseni, di cui sappiamo, anche grazie alla scoperta dei rotoli del Mar Morto nel 1947, che praticano il celibato, un´obbedienza stretta alla legge di Mosè, vivono in comunità e attendono con impazienza il Messia.
E Gesù? A quale corrente apparteneva? In quale movimento è possibile inserirlo? Era un esseno, come pretendono alcuni? Oun rabbi di tendenza farisaica? Chi era l´uomo di Nazareth? Un profeta escatologico, annunciatore della fine dei tempi e liberatore d´Israele? Un sapiente contadino mediterraneo che conosceva la natura e i suoi ritmi e si esprimeva in parabole? Un guaritore? Un filosofo cinico? Un leader politico? Un rivoluzionario sociale? Un dolce sognatore, con la testa tra le nuvole?
Come ha mostrato Giuseppe Barbaglio nella sua pregevole e imponente indagine storica (Gesù ebreo di Galilea, EDB, 2002), in cui passa, tra l´altro, in rassegna le varie definizioni, le "etichette" attribuite a Gesù di Nazareth, l´elenco potrebbe essere ancora più lungo (vedi la nostra intervista). Ed è normale che sia così perché, aggiunge Marguerat, «il "vero" Gesù, il real Jesus di certe ricostruzioni storiografiche, è solo un miraggio, somiglia alla ricerca dell´inaccessibile stella, come dice una canzone di Jacques Brêl».
Un miraggio, una stella inaccessibile, l´introvabile diamante verde. Eppure la ricerca sul Gesù della storia non è mai stata così vivace, il vulcano mai così attivo. «La ricerca sul Gesù della storia», continua Daniel Marguerat, «si snoda oggi lungo tre piste: la prima è quella del profeta escatologico, annunciatore della fine dei tempi, ma interamente ebreo (questa è la strada aperta da Sanders); c´è poi un´altra pista, quella percorsa da Vermes e da Gerd Theissen e che in Theissen, professore di Nuovo Testamento all´Università di Heidelberg, ha un´impronta socio-politica molto netta. Secondo lo studioso tedesco, Gesù è un leader carismatico, un profeta itinerante che annuncia il regno di Dio, che ama la convivialità, pratica guarigioni ed esorcismi, in una provocazione permanente verso tutti coloro che trasformano il discorso teologico in uno schema di esclusione». In questa prospettiva, Gesù è colui che dà alla grazia un effetto «inclusivo» dal punto di vista ecclesiologico e sociologico. È colui che abbatte i muri di separazione, colui che «include», mentre l´identità ebraica, in tutte le altre correnti (compreso Giovanni il Battista), «esclude», cioè separa per distinguere... gli ebrei e i gentili, noi e gli altri, il puro e l´impuro.
E la terza pista? «È quella aperta da John Dominic Crossan e da altri biblisti americani. Questi studiosi presentano Gesù come un contadino ebreo mediterraneo o un filosofo cinico. E ricompongono la sua parola eliminandone ogni tratto escatologico. Al contrario di Sanders e di Theissen, Crossan e gli altri pensano che l´annuncio del Regno non abbia avuto alcun ruolo nella predicazione di Gesù, ma che esso sia un apporto post-pasquale, della prima comunità cristiana». Interpretando un po´ troppo liberamente i testi, Gesù diventa così un maestro di saggezza, un contestatore radicale, una specie di hippy «in un mondo di yuppies dell´epoca romana».
Ma se non è possibile scriverne la biografia, se il real Jesus resta un miraggio, se alla figura di Gesù è possibile avvicinarsi per cerchi concentrici, studiando con meticolosità le fonti e mettendo sul tappeto i dati di cui disponiamo (come fa il biblista americano John P. Meier nella sua opera enciclopedica, Un ebreo marginale, pubblicata in italiano da Queriniana), quali sono gli elementi, le tessere del mosaico, i segni particolari per un ritratto plausibile dell´uomo che veniva da Nazareth?
«Non si può scrivere una sceneggiatura della sua vita, ogni film non sarebbe altro che una lettura approssimata: ormai è assodato», risponde Marguerat. «Possiamo dire soltanto che la sua vita pubblica è cominciata con il battesimo da parte di Giovanni il Battista ed è terminata con la crocifissione, vissuta dai discepoli in un primo tempo come una sconfitta. La fine della sua esistenza è segnata essenzialmente dal ministero in Galilea e dalla morte a Gerusalemme. La sua attività carismatica è attestata anche nel Talmud nei brevi passaggi polemici contro Jeshou, accusato di esercitare la magia».
Chi è dunque Gesù? «Un rabbi che con il suo insegnamento affascina le folle, un maestro che predica l´amore di Dio per tutti, senza esclusioni, che si esprime in parabole (una quarantina, più che in tutta la letteratura ebraica del suo tempo). Questo rabbi, dall´esistenza nomade, fragile, conta sull´ospitalità e sull´accoglienza e raccoglie attorno a sé un gruppo di discepoli. Per la sua predicazione, entra in conflitto con il potere ed è crocifisso da Pilato su denuncia del sinedrio: condannato per le sue opinioni sovversive sul Tempio e sulla Legge».
Fin qui il Gesù della storia: un mosaico di cui mancano troppe tessere, un puzzle incompleto. Un enigma, appunto. Ma che, secondo i credenti, si svela nella fede, nello stupore di un mattino di Pasqua, nel mistero di una tomba vuota e nella risposta sempre nuova a quell´antica domanda: «Voi chi dite che io sia?». E nella confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16).
Nei Vangeli, Gesù è chiamato «Rabbi» e «Maestro» (Gv 1, 38), oppure «il Figlio di Davide» (Mt 1, 1), il «Figlio di Dio» (Mc 15, 39), «il Figlio dell´uomo» (Mt 8, 20): sono i titoli cristologici attribuitigli nella luce di Pasqua. Egli è il Signore, il Messia. «Bisogna dedurne allora che Gesù si è definito così?», si chiede il biblista Charles Perrot, autore, tra l´altro, di una bella monografia (Jésus, PUF, 1998). «Apparentemente, le autorità del Tempio lo hanno pensato, accusandolo di bestemmia (Mc 14, 64). E anche il credente lo confessa, ma una tale affermazione dipende dalla fede. Quanto allo storico, egli non può che lasciare aperto il mistero Gesù».
Per la fede cristiana quel rabbi che amava i banchetti, amico di persone poco raccomandabili, di prostitute e di pubblicani, è la pietra di inciampo, non un profeta tra i tanti o un filosofo eccentrico, non un maestro di vita vagamente New Age, un inoffensivo dispensatore di saggezza, bensì il Vivente, il liberatore.
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