Nella Curia le teste colossali di Vespasiano e Tito corrispondenti a statue alte fino a nove metri. La statua di culto "scotennata" proveniente dal tempio di cui rimangono tre colonne ai piedi del Campidoglio. Come era il cavallo di bronzo di Domiziano al centro del Foro Romano e distrutto nella "damnatio memoriae" dell'imperatore. Nel Criptoportico Neroniano i preziosi marmi e le statue del Palazzo Imperiale sul Palatino. E la soprintendenza si prepara a togliere il "coperchio" al "Lapis Niger", il punto più antico e uno dei più sacri del Foro Romano.
Il "Criptoportico Neroniano" nella parte alta del Palatino è un corridoio semisotterraneo di 30 metri largo circa tre e mezzo e alto altrettanto, legato alla leggenda dell'uccisione dell'imperatore Caligola. Era destinato ad unire la "Domus Aurea" ai Palazzi di Augusto, Caligola e Tiberio e, poi al Palazzo dei Flavi o "Domus Flavia" completato da Domiziano. Il palazzo che secondo Marziale (il poeta degli epigrammi, ma qui in preda a "domizianite acuta"), "era una delle cose più belle del mondo; alta mole colossale composta quasi di sette monti uno sull'altro, fino a toccare il cielo, al quale solo era pari, mentre era assai inferiore al signore che ospitava".
Qui continua la mostra sui Flavi con 24 materiali dalla decorazione originale del palazzo che danno un'idea della preziosità, raffinatezza, altissima qualità di pareti, pavimenti, sculture, del lusso del palazzo dove Domiziano gestiva il potere assoluto e curava al massimo grado la "rappresentazione del carisma imperiale", il "suscitare meraviglia" per ottenere consenso. Grazie alla mostra la grande maggioranza dei materiali è uscita dai magazzini del Museo Palatino; è anche la prima volta che il "Criptoportico" viene usato per una mostra.
Un pannello con frammenti di lastre e frammenti architettonici in giallo antico, marmo dorato dell'Africa settentrionale con venature giallo-scure o rosso-scure, usato in abbondanza. Decorati con cornucopie ricolme di frutta, ghirlande fiorite, grappoli d'uva, uccelli, un'aquila con serpente, una sfinge alata. Un blocco di architrave lungo 130 cm, alto 60, in pavonazzetto, breccia bianca con venature viola dell'Asia Minore. Probabilmente viene dall'esedra con colonne dello Stadio Palatino, un grande giardino decorato con statue, polmone verde del palazzo. Il fregio è decorato con rami d'olivo con un uccello da preda e resti di una maschera tragica. Un capitello alto appena 18 cm, in giallo antico, con due corone di foglie di acanto che sembra un lavoro di traforo. Dal frammento in marmo lunense di un fregio è nato un rilievo autonomo a tutto tondo, una catasta di armi alla rinfusa, scudi, elmi con figure, l'impugnatura di una spada. Viene dalla sala del trono di Domiziano, l'Aula Regia. Svetonio ci ricorda che l'imperatore "intollerante della fatica", "non aveva nessuna abilità nel maneggio delle armi, eccetto che dell'arco di cui era appassionato", ma il soggetto del fregio non è strano perché le armi sono barbariche e quindi rientrano in quella "smania auto celebrativa" che veniva rimproverata a Domiziano.
Fra le sculture, l'"Eracle con leontè": senza testa, in parte senza le braccia e la parte inferiore delle gambe, è sempre una magnifica scultura in marmo greco alta 80 cm. Proviene dalla parte privata del Palazzo Imperiale, la "Domus Augustana". Ercole era divinità molto cara a Domiziano che amava anche farsi ritrarre nelle vesti dell'eroe (come Augusto in quelle di Apollo). L'Ercole colossale in basalto ora alla Pinacoteca di Parma fu scavato nel Settecento alla "Domus Flavia" (insieme al pendant Dioniso), ma non è in mostra "per ragioni di conservazione". Il delicato busto del cosiddetto "Fanciullo pescatore", mutilo delle braccia e della parte inferiore del corpo. Il capo con berrettino da cui escono abbondantemente "i capelli pettinati a larghe ciocche appiattite", è inclinato verso il basso come stesse controllando i movimenti della lenza. La resa accurata dei capelli, i lineamenti lo fanno datare al I secolo.
Due muse sedute, provenienti dallo Stadio. Alte rispettivamente 157 e 142 cm, tutte e due senza testa e in parte mutile di un braccio o di avambracci, hanno il torso nudo con un mantello che ricade sulle braccia. Sono copie di età flavia di originali greci del III-II secolo avanti Cristo. La prima è una replica della musa che fu arbitra della gara musicale fra Apollo e Marsia finita tragicamente per il satiro impertinente che venne scuoiato. Il masso roccioso su cui sono sedute è reso "rozzamente sgrossato" o "schematicamente con una rozza muratura a blocchi". Eppure la prima composizione è piena di grazia e sciolto l'atteggiamento col mantello che avvolgendo "le rotonde forme del corpo ne accentua la seducente nudità". Nella seconda "la freschezza e naturalezza del torso esile contrastano con alcuni particolari del panneggio".
Riprendendo la Via Sacra per la Curia, un pannello raffigura il monumento equestre in bronzo che Domiziano si fece costruire nel centro del Foro e dedicare dal succube senato, "ultimo affronto ai luoghi della tradizione". Aveva dimensioni spropositate: una altezza di 18 metri compreso il piedistallo (lungo 12 metri). Il Marc'Aurelio non riesce ad arrivare all'altezza del solo piedistallo. E Domiziano, con la statua di Minerva in mano, volge lo sguardo non alla Curia sede del Senato, ma sul Palatino, verso il suo Palazzo Imperiale, l'unica sede del potere. Fu uno dei primi monumenti a cadere sotto la "damnatio memoriae". Pochi metri più avanti, nel prato del Foro, una ringhiera delimita la pavimentazione corrispondente alla traccia del piedistallo.
Il "colpo di teatro" finale della mostra è alla Curia. Con quattro soli pezzi. Tutti eccezionali a vario titolo. Tre teste e una statua in piedi. Le tre teste per le dimensioni colossali ancora più impressionanti una accanto all'altra. La prima a destra è quella di Vespasiano, alta 90 cm, un bellissimo volto con tratti naturalistici, di grande significato perché - afferma Coarelli -, è "la statua di culto dell'imperatore nel tempio dedicato a lui e a Tito da parte di Domiziano nel Foro. Una statua seduta alta circa quattro metri e mezzo (o in piedi 5, 50) in cui Vespasiano doveva apparire come Giove.
E nel tempio del Divo Vespasiano è stata trovata una base perfettamente corrispondente ad una statua di questo tipo". La testa ("che non è stata ancora studiata") proviene dal Museo archeologico nazionale di Napoli, dalla collezione Farnese dove era fin dal 1540, "frutto evidente degli scavi condotti in quel periodo da Paolo III fra arco di Settimio Severo e Tabularium, nella zona del tempio di Vespasiano", le cui tre colonne d'angolo e relativa trabeazione svettano ai piedi del Campidoglio. In più la testa è lavorata come le teste degli acroliti usati nei templi, vuota, come fa vedere la calotta saltata della capigliatura, alla quale si è rinunciato perché di restauro. Questo tipo di statue avevano testa, mani e piedi di marmo, pietra, avorio e il corpo di legno coperto da una veste.
Accanto c'è una seconda testa di Vespasiano, un po' meno colossale perché corrisponde "ad una statua alta tre metri e mezzo". Viene da Napoli, ma di provenienza sconosciuta, "forse anche questa Farnese, scavata sul Palatino negli Horti Farnesiani". La terza testa è di Tito ed è la più sbalorditiva: "Diametro di un metro e mezzo, un metro cubo di marmo, peso tre tonnellate: corrisponde ad una statua alta nove metri, forse seduta" elenca Coarelli. Scoperta a fine Ottocento all'angolo fra via XX Settembre e via Pastrengo durante la costruzione del ministero delle Finanze. L'ha individuata Eugenio La Rocca al museo di Napoli, ma anche questa deve essere studiata. Il luogo della scoperta riferisce la testa al tempio della Gens Flavia, tomba e specie di Pantheon, costruito da Domiziano sul Quirinale, nel luogo della casa natale, nel 95 circa. Anche questa è una novità per Roma perché il monumento funerario era distinto dal tempio di culto degli imperatori divinizzati.
La statua in piedi è quella di Tito, marmo bianco, intatta, alta più di due metri, raffigura l'imperatore in una corta corazza (lorica), con il braccio destro alzato a reggere la lancia che non c'è più e il sinistro avvolto nel corto mantello, col bastone di comando. Colpiscono le tracce di rosso sulla capigliatura, i due grifi alati al centro della lorica e sulle placche i musi di due elefanti che possono richiamare le glorie militari di Tito in Oriente. Il tutto curato con molti particolari come i calzari, mentre il retro della statua non è rifinito perché doveva essere vista di fronte.
La statua proviene da Ercolano, dalla cosiddetta Basilica, l'"Augusteum" dedicato al culto imperiale (ed è stata spostata dalla mostra sulle scoperte di Ercolano in corso a Napoli, al Museo archeologico). Si inquadra nella vita scarognata di questo imperatore, ma a noi regala una delle sculture meglio datate dell'antichità. Tito divenne infatti imperatore nel giugno del 79 e quattro mesi dopo l'eruzione del Vesuvio "sigillava" Ercolano e le altre città vesuviane con tutto quello che di animato e non animato contenevano. Una certa sproporzione fra la testa, tozza, realistica, e il resto del corpo e soprattutto i tempi strettissimi fanno sospettare che sia stata presa una statua esistente e messa la testa di Tito. Ma contrasta la cura di certi simboli come gli elefanti legati a Tito. In ogni caso questa appare come la prima immagine ufficiale dell'imperatore al di fuori di Roma.
Alla Curia non ci sono immagini di Domiziano, il terzo imperatore dei Flavi, e si capisce. Era talmente odiato dai senatori e dal popolo che alla sua morte la folla si radunò alla Curia urlandone peste e corna. Poi con scale la gente si arrampicò sulle pareti a staccare i ritratti sugli scudi facendoli precipitare in pezzi e si diede a scalpellare le iscrizioni, persino a distruggere le parti della Curia che Domiziano aveva restaurato. L'unico edificio eretto da Domiziano che si salvò dalla "damnatio memoriae", anche nei secoli successivi, fu il "Templum Gentis Flaviae".
Nella Curia hanno stabile dimora i due famosi plutei (rilievi figurati sulle due facce) di Traiano che fu il secondo imperatore dopo Domiziano. Due facce raffigurano il Foro con templi, archi e monumenti subito dopo essere stato "ripulito" del passaggio del despota. Davanti alla scalinata della Curia è in montaggio il cantiere col quale la soprintendenza archeologica si prepara ("con somma urgenza") a quello che sarà un avvenimento memorabile nella storia dell'archeologia. E cioè l'eliminazione della copertura in cemento e dei lucernari che coprono il punto più antico del Foro e uno dei più sacri della storia romana (non visibile e non visitabile).
Si tratta del "Lapis Niger" (o "Niger Lapis"): un complesso monumentale arcaico databile all'incirca al 570 avanti Cristo e quindi in piena età dei re di Roma, "costituito da un altare a tre ante, una base di colonna e un cippo" con inciso un regolamento dei riti sacri in latino arcaico. Fra le ipotesi è che il "Lapis Niger" sia un santuario di Vulcano presso il quale Romolo sarebbe stato ucciso dai senatori per il suo dispotismo (o secondo una leggenda dove era sepolto il fondatore di Roma). Diventato un "luogo funesto" fu coperto da un tratto di pavimento in marmo nero (da cui il nome), delimitato da lastre di marmo infisse in verticale. Vicino a quest'area erano i più importanti edifici del Foro (Comizio, Curia, Rostri). Il "Lapis Niger" fu scoperto da Giacomo Boni nel gennaio 1899 ed ora sarà "scoperto" dal pubblico.
FOTO:
http://www.repubblica.it/2009/04/sezioni/arte/gallerie/flavi-colosseo/flavi-due/1.html
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