I cibi degli abitanti dell'antica Pompei, i trucchi per una corretta conservazione, le tecniche di cottura del pane. Queste e altre affascinanti curiosità le rivela Annamaria Ciarallo, una delle massime esperte in materia - ricercatrice della Soprintendenza Archeologica di Pompei, Laboratorio di Ricerche Applicate - in un'intervista rilasciata alla redazione di Ricerca Italiana.
Che importanza rivestiva l'arte culinaria nell'antica Pompei?
Bisogna tener conto di cosa significhi, ieri come oggi soprattutto nei Paesi più poveri, il termine "arte culinaria". Nelle classi sociali meno abbienti esisteva l'alimentazione che, nel peggiore dei casi, era solo di sussistenza: l'arte culinaria nasceva con la disponibilità di cibo sia in termini di quantità che di varietà. Catone descrisse l'alimentazione dei lavoranti di una villa rustica: pane della non migliore qualità, un po' di cereali, olio scadente e vino diluito e come companatico, un pugno di olive tra quelle raccolte a terra, qualche fico e un po' di garum (salsa di pesce che si otteneva dalla fermentazione sotto sale delle parti di scarto del pesce azzurro). Se, poco più di due secoli dopo, si confrontano le ricette di Columella e di Apicio, le prime, per ammissione dell'autore, dedicate ai ceti sociali meno abbienti, le seconde specchio dell'alimentazione dei ricchi, appare chiara soprattutto la complessità di queste ultime determinata dall'uso, nella maggior parte dei casi, di un gran numero di ingredienti, di cui talora alcuni poco comuni.
Il pranzo descritto da Apicio consisteva in più portate: si apriva con gli antipasti e si concludeva con il dolce.
Alcune ricette, che utilizzavano ingredienti esotici, erano realizzate per strabiliare: l'uso delle lingue di pappagallo, ad esempio, sembra rispondere più all'esigenza di rappresentare la propria ricchezza con una strage di uccelli rari, che a quella di un particolare gusto.
Era invalso anche l'uso di creare artifici, che erano parte integrante della ricetta: ad esempio l'uso delle prugne e dei chicchi di melograno per dare l'impressione delle braci accese poste sotto una griglia con salsicce sfrigolanti, salsicce ed uccelletti utilizzati per riempire la pancia di vitelli e maiali, lepri che con l'aiuto di ali di pasta si trasformavano in rappresentazioni del cavallo alato Pegaso.
Ancor più che nella complessità delle ricette e nel numero delle portate, era nel servizio che appariva costante la ricerca dell'artificio per strabiliare i commensali: trionfi di pietanze poggiati su piatti da portata figurati, come ad esempio asinelli di bronzo con le bisacce piene di olive, venivano portati in tavola con teatralità.
Quali erano i principali metodi di cottura e di conservazione del cibo?
Nelle classi sociali meno abbienti, soprattutto ai tempi di Catone, era molto sentita la necessità di consumare poca legna: venivano pertanto privilegiati quei cibi che richiedevano poca o niente cottura. La cottura avveniva prevalentemente in recipienti di terracotta o di rame, posti direttamente sul fuoco o nel forno, mentre i dolci venivano cotti in recipienti di coccio, talvolta a "bagnomaria", mettendo cioè il vaso in terracotta, che conteneva l'impasto, in una pentola di rame piena d'acqua, che andava a diretto contatto con il fuoco (de agr. XC). L'uso del coppo, la forma più primitiva di "forno da casa", costituito da una tegola arroventata sulle braci, su cui veniva gettato l'impasto delle focacce, o sotto cui venivano poste le pietanze, andava proprio in questo senso, perché certamente era meno dispendioso del tradizionale forno.
Del resto, se si fa una disamina dei forni ritrovati a Pompei, sono ben poche le case cittadine che avevano un proprio forno, mentre la diffusione di quelli pubblici, al momento dell'eruzione, rispondeva probabilmente all'esigenza di usarli anche per la cottura delle vivande su commissione: un'usanza questa che si è conservata nei nostri paesi fino a pochi decenni fa.
Per quanto concerne la conservazione dei cibi, per gli antichi questo era uno dei problemi più grandi: il successo dei legumi, dei cereali e della frutta a guscio duro come noci, mandorle e nocciole era dovuto al fatto che potevano essere conservati senza troppi problemi.
I processi di salagione, affumicatura ed essiccatura delle carni e dei pesci, così come la conservazione di frutta e di verdure, essiccandole o immergendole in aceto, salamoia, mosto o miele, rispondevano all'esigenza di disporre derrate per l'intero arco dell'anno. Dall'Oriente furono poi importate spezie che, al di là della valenza aromatica, aiutavano meglio a conservare i cibi, in particolare il pepe e lo zenzero.
Scriveva Catone: Tenga in dispensa (la massaia, n.d.r.): pere secche, sorbe, fichi, uva passa, una in marmitte, mele stanziane in doglio e tutti gli altri frutti che è uso conservare, anche quelli selvatici, li conservi ogni anno con diligenza. (de agr. 144 (CLII)). A queste si aggiungevano i cosiddetti "acetaria", verdure (essenzialmente cavolo) conservate in aceto.
Columella, poco più di due secoli dopo, stilò un elenco di conserve molto più lungo, introducendo anche l'uso dei contenitori in vetro.
Il loro avvento rese infatti la conservazione del cibo più semplice, perché potevano essere prodotti a stampo in grandissimo numero, non conservavano gli odori, per cui una volta lavati si potevano riutilizzare e, se proprio si rompevano, i cocci potevano essere riciclati.
Essi erano molto simili ai nostri: di forma quadrata, con una larga imboccatura circolare filettata, per permettere di chiuderla utilizzando pezzi di pelle legati con un legaccio. Il loro uso favorì in particolare la conserva in miele dei frutti a polpa delicata, che introdussero un elemento di "esoticità" nell'alimentazione del tempo.
Anche allora il pane era un alimento fondamentale per il sostentamento?
I cereali costituiscono una notevole fonte di energia per l'organismo: di ciò erano ben consapevoli gli antichi, che in tutte le culture li posero alla base della loro alimentazione. Lo sviluppo della civiltà occidentale, in particolare di quella mediterranea, lo si deve essenzialmente ai cereali, alla vite e all'olivo.
L'uso del pane, ottenuto impastando acqua e farine di diverse origine, perfino quella ottenuta dalle ghiande tostate e macinate in tempo di carestia, era diffuso in tutte le classi sociali, anche se il cosiddetto "pane bianco" era riservato alle tavole più ricche.
Come avveniva la panificazione? Esistevano i fornai?
Se mettiamo a confronto i diversi autori classici, che hanno trattato di cucina in un arco di poco più di due secoli, notiamo come l'evoluzione nella coltura dei cereali fu determinante nel cambiamento delle abitudini alimentari.
Ai tempi di Columella prevaleva la coltivazione del farro, un frumento, cioè, "vestito": per ricavarne farina bisognava prima tostare le cariossidi per liberarle dalle reste e ciò costava tempo e fatica.
L'orzo concorreva non poco nell'alimentazione, ma se scoppiava qualche carestia non veniva disdegnato il miglio e la farina ottenuta dalle ghiande.
Per favorire la lievitazione si usava mescolare la farina con grandi quantità di ricotta che, fermentando a contatto con il calore, "gonfiava" dando sofficità all'impasto.
Ai tempi di Columella e di Apicio, le varietà di frumento si erano moltiplicate e la coltura del farro era progressivamente abbandonata a favore dei frumenti "nudi", che non richiedevano penose operazioni di scortecciamento. Di questi, inoltre, si conoscevano varietà tenere e dure, che si prestavano ad usi diversi: il frumento tenero, ad esempio, lievitava più facilmente, anche perché si era diffuso l'uso del "crescito" e si prestava meglio agli usi di pasticceria. Una conseguenza di ciò fu la diffusione sempre maggiore diffusione dei forni di tipo "industriale", dove si potevano acquistare pane e dolci.
Quali alimenti erano più comuni nelle tavole dei pompeiani, oltre al pane?
Ai tempi di Catone (234-149 a.C.), i limiti in cucina erano posti da una ridotta disponibilità di materie prime e dalla necessità di limitare al massimo l'uso del fuoco.
Alla base dell'alimentazione delle classi sociali più alte c'erano naturalmente i cereali con cui venivano preparate focacce. La farina, che poteva essere di farro, di orzo o di frumento, nelle ricette più elaborate veniva impastata insieme a latte, formaggio, uova o miele, questi ultimi entrambe usati con molta parsimonia, a seconda che si volesse realizzare un alimento dolce o salato. (de agri cultura, LXXXIV e segg.)
Il condimento più usato, seppur con parsimonia, era l'olio, mentre con lo strutto si preferiva impastare e friggere. La spezia più usata era il lauro, seguivano il cumino, la ruta, la menta, il coriandolo. L'alimentazione era integrata con fave, lenticchie ravanelli, rape, l'asparago e soprattutto con il cavolo, considerato anche un importantissimo cibo a fini terapeutici... Diversa era l'alimentazione degli schiavi costituita da pane d'orzo, olive di scarto, fichi e mele secche, garum, olio e vino di qualità scadente.
Ai tempi di Varrone (129-26 a.C.) prevaleva ancora la coltura del farro, rispetto a quella dell'orzo e del frumento. Seguivano le leguminose: oltre alle fave, i piselli, le lenticchie, i ceci e la veccia.
Per la prima volta, però, venivano introdotti nuovi tipi di allevamento, quali quelli di oche, gru, galline, piccioni, lepri e pesci di acqua dolce e salata, che contribuirono, ovviamente, presso le classi sociali più ricche, ad innalzare l'apporto proteico di origine animale, rispetto a quello di soli suini, e ai modesti allevamenti casalinghi di ghiri e di lumache. Nel I sec d.C. la coltivazione di nuove varietà orticole grazie anche al diffondersi dell'uso delle serre in vetro, l'introduzione di specie esotiche sia animali che vegetali, cambiarono le abitudini a tavola, anche se in maniera più avvertita presso le classi sociali più alte, presso le quali era testimoniata non solo dalla disponibilità di cibi esotici, ma anche dal numero delle portate e dalla ricchezza del vasellame.
Quali sono le diverse fonti archeologiche di riferimento?
L'applicazione delle moderne tecniche di indagine allo scavo archeologico, che solleva il velo che coprì Pompei e le sue contrade, rende oggi leggibili le tracce degli antichi ambienti naturali, che, confrontate con gli autori classici e l'iconografia dell'epoca, offrono uno spaccato della vita che si svolgeva nell'antica città vesuviana.
La fedele raffigurazione delle piante in molti affreschi, l'identificazione dei resti carbonizzati di parti di piante, (foglie, legni, semi), il riconoscimento dei pollini depositati sul terreno prima dell'eruzione, le tracce di coltura, quali il disegno delle aiuole, i solchi di aratura, le fonde e le "porche", i calchi delle radici e gli attrezzi agricoli permettono, ad esempio, di ricostruire con precisione non solo gli impianti delle antiche colture, ma di risalire anche all'anno dell'impianto stesso. Il ritrovamento delle unità produttive (cantine, granai, ecc.) e di "macchine" quali macine, torchi vinari ed oleari, aiutano a capire poi come i prodotti venivano trasformati. Il rinvenimento, infine, dei resti di ciò che cuoceva nelle pentole il giorno dell'eruzione, completa il quadro per quanto concerne anche ciò che arrivava in tavola. Lo stesso discorso vale ovviamente per la fauna: la raffigurazione di specie locali, messe a confronto con reperti di varia natura, dalle ossa alle conchiglie, dalle stalle ai recipienti fittili per piccoli allevamenti domestici, danno conto non solo delle popolazioni animali caratteristiche, dei diversi habitat e degli allevamenti più diffusi, ma anche, ad esempio, delle tecniche di macellazione.
Come sono state utilizzate?
Incrociando i dati archeologici, geomorfologici, climatici, floristici e faunistici, al fine di delineare con ragionevole certezza i caratteri salienti degli ambienti naturali, e dei coltivi che caratterizzavano il territorio vesuviano nel 79 d.C.; con essi di conseguenza quelli delle risorse disponibili per gli abitanti del luogo nell'intero arco dell'anno: una testimonianza unica al mondo, che permette di conoscere meglio i legami che univano una comunità di duemila anni fa al proprio territorio.
Gli studi dell'alimentazione del passato influenzano in qualche modo quelli sull'alimentazione del nostro tempo?
Potrebbero influenzarli soprattutto per quanto concerne, ad esempio, l'uso delle tecniche conservative: gli "acetaria" descritti da Catone, che abbiamo riprodotto sperimentalmente, ponendo le verdure senza neppure lavarle, per considerare il caso peggiore, a macerare in due parti di aceto e una di salamoia forte, alle analisi di laboratorio sono apparsi del tutto esenti da cariche batteriche.
Oppure per quanto concerne la produzione di prodotti "biologici" perché le tecniche adoperate dagli antichi ignoravano naturalmente i presidi fitosanitari oggi in uso, ma non certamente il problema delle infestanti e dei parassiti o ancora, per la definizione di alcune DOP: la salagione dei prosciutti, così come descritta da Columella, le grandi forme di formaggio, che Plinio descrive come prodotti caseari tipici dell'attuale Emilia, i filetti di tonno conservati sotto sale e affumicati realizzati dai pescatori calabresi e siciliani ( è sempre Plinio a raccontarlo), financo lo stesso garum, che in una forma molto simile è ancora prodotto dai pescatori di Cetara, appaiono chiaramente all'origine di prodotti considerati tipici della tradizione culinaria italiana.
Che sviluppi futuri avranno le ricerche effettuate?
Se si riesce a liberarsi della tentazione di guardare con sufficienza, se non con derisione, a quanto scrivevano gli autori classici ricordando che, al di là delle inevitabili credenze popolari, il loro sapere nasceva dall'osservazione pratica tramandata per molte e molte generazioni, alla luce delle nostre moderne tecniche di indagine, si potrebbe indagare sulla validità di molti accorgimenti da loro messi in atto in termini di gestione delle risorse naturali in senso lato: dal riciclaggio dei materiali alla scelta delle colture, legandole alle caratteristiche podologiche e climatiche, dalle tecniche di gestione delle acque a quelle della conservazione dei cibi. Non si può infatti non considerare che, quando Plinio scriveva, raccontava di esperienze tramandate per molte e molte generazioni per secoli, e lo si può facilmente riscontrare mettendolo a confronto con Catone vissuto due secoli e mezzo prima: quando noi utilizziamo, ad esempio, un nuovo prodotto chimico parliamo di prove sperimentali condotte su un numero di anni che in taluni casi si può contare sulle dita!
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