TRIESTE «Harwa: un nuovo sovrano dall'Egitto». È il titolo di una conferenza di grande richiamo, che Francesco Tiradritti (egittologo delle Civiche raccolte archeologiche di Milano, direttore della missione di scavo italiana a Luxor e curatore di numerose mostre di successo) terrà domani, a Trieste, alle 18, nella sede delle Assicurazioni Generali. Sarà un'occasione per riesaminare una delle più notevoli scoperte degli ultimi anni: quella che gli addetti ai lavori chiamano la Tomba TT 37, situata sulla riva occidentale del Nilo, nella piana dell'Assasit di fronte all'antica Tebe (appunto l'odierna Luxor), occupata fin da epoche remote dai templi funerari del faraone Mentuhotep II (2065-2014 a.C.) della regina Hatshepsut (1479-1458). Un luogo che, sulla scia di questi illustri precedenti, era stato a lungo usato per le tombe dei massimi dignitari di corte, ma che dalla fine della XX Dinastia (1075 a.C.), dopo il declino del potere dei Faraoni (e la divisione della loro terra fra Nord e Sud), era stato occupato anche da sepolture comuni.
Malgrado la perdurante attrazione esercitata dal veneratissimo santuario di Amon-Ra (il dio che in epoca ellenistica e romana sarà noto come Ammone) nella non lontana località di Karnak, per circa 300 anni la crisi dell'Egitto (secoli bui: un fenomeno corrispondente e contemporaneo a quello che nel mondo greco è noto come «Medioevo ellenico») interrompe anche la tradizione dei grandi monumenti funerari. Ma intorno alla metà dell'VIII a.C., proprio approfittando di quella debolezza, le popolazioni nubiane stanziate a Sud di Assuan intraprendono la conquista del paese.
«Il re Piankhy – dice Tiradritti – racconta in una celebre iscrizione l'avanzata delle proprie truppe attraverso la valle del Nilo». Il risultato è che, con lo stesso re e con i successori Sabacone e Taharqo, l'antica terra dei Faraoni è riunificata, ma con un assetto del tutto particolare: sul basso corso del grande fiume (cioè verso il Mediterraneo, a Nord) i nuovi padroni (che però dopo la conquista tornano in Nubia) si fanno rappresentare dalle potenti famiglie che già erano emerse durante il periodo di crisi; in Alto Egitto, cioè all'interno, dove appunto spicca la città di Tebe, creano una nuova situazione politico-religiosa. Il ruolo di Divina Adoratrice, la più alta carica nella gerarchia dei sacerdoti di Amon-Ra, è affidato prima ad Amenirdis, sorella di Plankhy, e in seguito alle figlie dei suoi successori. È un formidabile strumento di controllo, data la potenza e il prestigio del clero tebano, che amministra un territorio che a Nord si estende per 300 chilometri e a Sud giunge fino ad Assuan.
In questa situazione, la figura di Harwa gioca un ruolo di primo piano. Proprio a lui è destinata la Tomba TT 37: le iscrizioni lo designano come «Maggiordomo della Divina Adoratrice». Quale può essere l'interpretazione? Spiega l'egittologo: «È una carica con la quale Harwa, fra la fine dell'VIII e l'inizio del VII a.C., dovette amministrare tutto l'Alto Egitto per circa un ventennio: formalmente per conto dei sovrani nubiani della XXV Dinastia, ma in realtà agendo in prima persona».
In effetti è solo grazie a questa posizione preminente che si spiega la ripresa, dopo quasi tre secoli, della consuetudine di farsi seppellire in una tomba di grande rilevanza monumentale. E si può anche pensare che, grazie al riassetto attuato dai «Faraoni neri» e all'ombra del culto di Amon-Ra, non solo Harwa ma l'intera comunità tebana godessero di una rinnovata floridezza. Il modello a cui la tomba si ispira è illustrissimo: è il «cenotafio», cioè il monumento funerario vuoto, del dio dei morti, Osiride nella città sacra al suo culto, Abido. Monumento vuoto in quanto il dio stesso, morto perché smembrato dal crudele fratello Seth, era stato ricomposto dalla sorella-sposa Iside ed era resuscitato: signore quindi non solo della morte, ma della vita oltre la morte. Dal cenotafio di Abido costituito da una vasta serie di ambienti sotterranei, la tomba di Harwa riprende anzitutto l'idea di un fossato-canale che delimita e isola tutto il complesso: un'allusione appunto all'isola del Delta del Nilo in cui erano stati sepolti i resti del dio prima dell'intervento di Iside. Inoltre il sepolcro, a sua volta sotterraneo, è anch'esso costituito da una serie di ambienti: rampa di accesso, vestibolo, cortile scoperto, due sale ipostile santuario, il tutto accompagnato da una ricchissima decorazione scultorea. I rilievi narrano la vita di Harwa, con l'ausilio di iscrizioni geroglifiche.
«È un'esistenza ideale – spiega ancora Tiradritti – con le azioni meritevoli compiute nei confronti del prossimo. Nel passaggio che conduce alla seconda sala ipostila è raffigurato il momento della morte: una delicata allegoria in cui il dio Anubi, afferrando la mano di Harwa (appesantito dalla vecchiaia), lo conduce verso l'Oltretomba. Nelle scene successive si illustra il distacco del ka (l'essenza vitale di ogni individuo) dal corpo, finché Anubi stesso non torna a prendere per mano Harwa, ora raffigurato come un giovane vigoroso, e lo conduce al cospetto di Osiride. Una statua del dio, collocata nel santuario, conclude questo straordinario programma figurativo».
Nella cerchia dei sovrani nubiani, portatori di una situazione politica inedita, si torna quindi a cercare ispirazione nelle tradizioni più sacre e antiche del grande paese bagnato dal Nilo: una sorta di «Rinascimento» culturale, attraverso cui la XXV Dinastia persegue una sua legittimazione.
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