NAPOLI - Evviva i "palazzinari" di Ercolano. Quelli dell'epoca dell'imperatore Augusto. "Palazzinari" per interesse pubblico perché con il proprio denaro (e delle cariche ricoperte nelle province dell'impero) costruivano o restauravano i più importanti edifici pubblici, templi, mura e porte della città. Perché a questi "palazzinari" alla rovescia, a questi che venivano nominati patroni, gli abitanti di Ercolano hanno innalzato per riconoscenza, spesso con pubblica sottoscrizione, statue e monumenti equestri in marmo e bronzo che l'eruzione del 79 dopo Cristo ha seppellito e fatto arrivare fino a noi.
Ed eccole in mostra a Napoli, al Museo archeologico nazionale, quasi tutte le statue e le sculture più importanti scavate ad Ercolano con i cunicoli sotterranei dei lavori ufficiali decretati da Carlo III di Borbone nel 1738 e con gli scavi moderni a cielo aperto fino ai ritrovamenti più recenti. Mai si era vista una simile selva di statue antiche di bronzo, il materiale più raro arrivatoci dall'antichità, di dimensioni più grandi del naturale, come quella riunita in "Ercolano. Tre secoli di scoperte" (fino al 13 aprile). Pezzi usciti dai depositi, che si vedono per la prima volta o dopo decenni. La prima grande mostra dedicata alla città vesuviana che Pompei, con la sua immensa popolarità (e facilità dello scavo), tiene nell'ombra e fatto ingiustamente trascurare dal grande pubblico.
Mentre Ercolano ha caratteristiche originali rispetto a Pompei perché le temperature fino a 400 gradi che qui svilupparono i flussi gassosi dell'eruzione, ad una velocità di 80 chilometri l'ora, hanno restituito carbonizzati i materiali di natura organica, dalle materie commestibili, a papiri, corde, tavolette ceramiche, elementi di legno di mobili ed edifici. Che sono stati poi sigillati, senza ricambio di ossigeno e quindi rischio di deperimento, da un deposito vulcanico alto in media venti metri. E in mostra (per la prima volta) ci sono le stoffe fra cui un ampio frammento scavato nel luglio 2007 accanto ad una borsa.
Mancano le tre statue femminili di marmo in ampi panneggi dette la "Grande" e le "Piccole Ercolanesi" ora al Museo di Dresda. Sono state fra i primi pezzi usciti dai "pozzi" di Ercolano nel 1710 o 1711, dal Teatro. Furono scavate, a proprie spese, dal principe d'Elboeuf, che ne fece dono al cugino Eugenio di Sassonia a Vienna, e, dopo la morte di Eugenio, arrivarono a Dresda. "Si è rinunciato a chiederle per lasciarle come "ambasciatrici di Ercolano", ha spiegato il soprintendente Pietro Giovanni Guzzo, uno dei curatori. La mostra è la prima promossa dalla soprintendenza unificata per i beni archeologici di Napoli e Pompei e resa possibile dal finanziamento della Regione Campania. A cura di Guzzo, Mariarosaria Borriello e Maria Paola Guidobaldi (anche il catalogo). Organizzazione e catalogo Electa.
Le opere della mostra sono tornate ad occupare l'atrio monumentale del museo, la navata centrale e le due laterali. Il colpo d'occhio è impressionante, è come ritrovarsi nel Foro di una piccola città di provincia, ma orgogliosa di innalzare monumenti a cittadini illustri che sono anche lustro per la città. Anche Ercolano partecipa al "fenomeno di urbanizzazione e monumentalizzazione" che interessa tutta l'Italia in epoca augustea. Dietro la grande "E" stilizzata, l'"ouverture" è riservata a dei, eroi e dinastie imperiali anche se l'impatto visivo maggiore è dei due monumenti equestri in marmo con una altezza che supera i due metri e mezzo (2, 56-2, 52), dedicati al senatore Marco Nonio Balbo, proconsole delle province di Creta e Cirene e patrono di Ercolano, di cui costruì o ristrutturò la basilica ("Basilica Noniana"), le mura e le porte.
I due monumenti sono stati scavati nel 1746, probabilmente dalla zona del Foro. Sono completi, ma il primo non aveva la testa e ora ha la copia della testa dello stesso personaggio da un gruppo di famiglia. La testa del secondo andò in frantumi nel 1799 per un colpo di cannone durante gli scontri per la perdita e la riconquista di Napoli. La testa è stata forse ricavata da un modello ricomposto con i frammenti originali superstiti. I monumenti, identici nell'iconografia, erano stati eretti durante la conquista del proconsolato in età augustea come suggerisce la leggera corazza. Uno era omaggio degli abitanti di Nuceria, di cui Nonio Balbo era originario, l'altro degli ercolanesi.
La città era "letteralmente invasa da statue del senatore" innalzate durante la carriera del personaggio pubblico più noto di Ercolano e celebrato anche dopo morto. Al centro della grande terrazza (detta di Marco Nonio Balbo), ben visibile dal mare, in cui furono raccolte le ceneri, il senato di Ercolano fece collocare un altare di marmo con iscrizione dedicatoria e l'elenco degli onori decretati al patrono. Il liberto Marco Nonio Volusiano aggiunse una statua con lorica alta 2, 35 di marmo. La testa e circa metà del corpo, di quello che è l'ultimo ritratto ideale del proconsole, sono stati recuperati in frammenti in due occasioni a distanza di quarant'anni.
Nella "Basilica Noniana" sono stata anche trovate statue monumentali in marmo della famiglia dei Nonii Balbi. In mostra sono la statua togata in marmo di Nonio Balbo padre con una "bella testa ritratto di età claudia" che però non è la sua, e la statua della madre Viciria tutta avvolta in un mantello sulla veste che scende in fitte pieghe. Davanti ai due monumenti equestri di Nonio Balbo, spiccano un doppio trio di imperatori e di mogli, future mogli e madri di imperatori. Cinque bronzi e un marmo. Il più piccolo supera il metro e 80, il più alto arriva ai due metri e mezzo. Dalla cosiddetta "Basilica", oggi denominata "Augusteum" (o "Porticus"), ancora sepolta sotto l'attuale Ercolano, proviene il trio degli imperatori. Due in bronzo, di Augusto a torace nudo, nelle vesti di Giove con il fascio di fulmini, mentre si appoggia ad un lungo scettro, e di Claudio tutto nudo, in "nudità eroica". In mezzo è la statua in marmo di Tito che indossa la lorica e ripete lo schema della statua dell'Augusto di Prima Porta, col braccio destro alzato a reggere la lancia e il sinistro lo scettro (entrambi perduti).
Il trio femminile tutto di bronzo proviene dal Teatro ed è formato dalla "Livia Augustea", "superba statua" di una dama non più giovanissima, da Antonia Minore in una lunga tunica sulla quale è un mantello dal "sontuoso drappeggio" e da Agrippina Minore, sposa di Claudio. Livia è tutta avvolta da un mantello che non nasconde i "seni prominenti". La mano sinistra sbuca da sotto il manto e la destra è ben lontana dal corpo, con la mano aperta quasi per accarezzare lo spazio circostante. La testa di Antonia è un po' piccola e larga rispetto al resto della figura evidentemente realizzate da due officine non in perfetta sintonia. Anche Agrippina Minore è tutta avvolta da un manto dalle mille pieghe verticali-orizzontali secondo il modello della "Pietas". Il manto che avvolge il capo crea una "profonda nicchia" con un forte gioco di ombre che mette in evidenza il volto.
L'Agrippina Minore è in mostra con altre due statue. Una di bronzo anche qui tutta avvolta da tunica e manto nel gesto dell'"Offerente". Una veste sacerdotale che richiama l'ingresso trionfale di Agrippina in Campidoglio, su di un cocchio, onore riservato a sacerdoti e immagini sacre, per sottolineare la posizione di "sorella, moglie e madre di imperatori". La seconda Agrippina attenua l'assenza delle "Piccole Ercolanesi" dato che ne ripete lo schema di braccia e panneggio.
All'ombra di questi giganti, sono esposti in teche due bustini sempre imperiali, alti 36-41 centimetri in lamina d'argento. Una Livia in sottile lamina, lavorata a sbalzo, molto ammaccata. All'interno furono recuperati, carbonizzati, una assicella di legno e frammenti di tessuto di lino probabilmente per tenere ritta la scultura. Sul capo un diadema di foglie di alloro, sul collo due riccioli di una capigliatura a lunghe ciocche ondulate. Dalla casa cosiddetta di Galba un busto di Galba a grandezza naturale, in lamina lavorata a sbalzo. L'opera è giudicata notevole anche dal punto di vista tecnico perché non ha rivelato segni di saldatura e potrebbe essere un'unica lamina perfettamente levigata. Il cesello è stato utilizzato nelle sopracciglia, sulla Gorgone alata della lorica. Sullo spallaccio della corazza è ricavato il fulmine che lo assimila a Giove.
Anche gli imperatori si mettono a sedere. Nella nicchia centrale dell'Augusteum sono state trovate tre statue di marmo, due sedute e in mezzo una in piedi "vestita da eroe". Le statue sedute sono le due statue colossali (altezza 2, 15 e 2, 22) in mostra nella navata di sinistra: Augusto ancora come Giove, con un serto di foglie di quercia sul capo, il piede sinistro che poggia sul tallone (il cipiglio lo ritroveremo secoli dopo nel Napoleone del Canova), e Claudio, col torso nudo e il mantello che avvolge le parti inferiori. Le "fattezze originarie delle statue sono perdute, ma con ogni probabilità furono correttamente restaurate" da Filippo Tagliolini, lo scultore-mago della porcellana e del bisquit della Real Fabbrica dei Borboni. Nella terza statua (altezza 2, 11) è stato riconosciuto Tito che indossa la lorica. Ai piedi ha "sontuosi" sandali alti. Tracce di colore rosso sono state trovate fra i capelli. La statua "può essere ritenuta la prima ufficiale dell'imperatore" perché l'elevazione di Tito alla dignità imperiale è del 24 giugno del fatidico 79 dopo Cristo cioè a quattro mesi dall'eruzione (la cui data si colloca a fine ottobre e non più al 24 agosto).
Subito dopo le statue imperiali incontriamo un altro patrono di Ercolano, Lucio Mammius Maximus la cui statua togata in bronzo (altezza 2, 12) dall'ampio e ricco panneggio, volto "pensieroso e preoccupato", fu offerta dagli abitanti con una pubblica sottoscrizione e collocata nel Teatro. La sua principale benemerenza l'offerta di almeno otto statue alla famiglia imperiale giulio-claudia, collocate nelle nicchie lungo le pareti della piazza con portico, la cosiddetta Basilica-Augusteum.
La selva di giganti fa correre il rischio di saltare le opere all'ingresso, dedicate alle divinità e agli eroi. Tra gli affreschi staccati, il grande "Ercole e Telefo" dalla straordinaria profondità tridimensionale ed equilibrio della affollata composizione. Con il piccolo Telefo figlio di Ercole, allattato e riscaldato dalla cerbiatta. Ancora, "Achille e Chirone" con il più saggio dei centauri che insegna al futuro, tragico, supereroe e perplesso giovanetto, a suonare la lira. E la grande statua in marmo di "Demetra" che accoglie i visitatori con atteggiamento invitante, eccezionale ricomposizione di numerosi frammenti che conserva diverse tracce della policromia. Proviene dall'area della Villa dei Papiri, ed è indicata come "peplophoros" per il peplo che indossa. Viene interpretata come creazione romana "di un artista che ha contaminato tipi iconografici diversi".
Nella navata di destra è uno dei pezzi più affascinanti, una testa femminile di marmo che pure ha perso naso-bocca-mento: è la "dama dai capelli rossi", forse una Amazzone. Capelli tutti rossi come all'origine, nella perfetta scriminatura sulla fronte. Rosse anche le sopracciglia, le palpebre dipinte a brevi tratti e l'iride. Di epoca augustea, è stata scoperta nella Basilica Noniana, nel gennaio 2006. Una replica della testa accanto, intatta, ma solo con rare tracce di colori. A fianco è un'altra esibizione di policromia, affascinante dal punto di vista tecnico perché in un Bacco di bronzo alto 68 centimetri. Una scultura un po' sgraziata nella figura, ma di grande effetto cromatico per l'inserimento di rame nelle labbra e nei capezzoli, di argento e oro a forma di macchie tonde sulla pelle di pantera buttata sulla spalla e sulla belva tenuta ferma dal dio con un piede. Proviene dalla bottega di un fabbricante di tubi di piombo ("plumbarius").
Ercolano significa anche uno dei ritrovamenti in assoluto più importanti dell'archeologia, la Villa dei Papiri. Appartenuta, come sembra ormai accertato, a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare e console nel 58 avanti Cristo, ha prodotto 97 sculture (più di due terzi bronzi di cui 16 statue) e più di mille rotoli di papiro. %u0116 una mostra nella mostra. Busti, bustini, teste di bronzo, repliche di filosofi, poeti, oratori. Il celebre "pseudo Seneca" (circa 50 le copie note), dagli occhi di avorio-osso, volto pieno di rughe, capigliatura scarmigliata. L'opposto del Dionysos-Platon, dalla capigliatura e dalla barba pettinata come un campo di grano curato da un giardiniere svizzero. Un busto virile (cosiddetto re "Tolomeo Apione") con lunghi boccoli stretti che fanno tanto treccioline rasta. Una allegra brigata di bronzetti, sileni barbuti, giovani satiri, putti. Satiri di dimensioni di poco inferiori al naturale, ebbri su di una roccia o dormienti. Due cerbiatti a grandezza naturale e un porcellino saltatore. Sempre in bronzo le due famose statue di corridori, efebi nudi a grandezza naturale colti un attimo prima dello scatto. Lo schieramento finale è ancora una volta impressionante: quattro (delle cinque) "Statue muliebri" (cosiddette "Danzatrici") alte un po' più di un metro e mezzo, vestite di un peplo dorico molto lineare, diverse nella posa, nelle braccia e capigliatura. Un'ipotesi propone come modello le statue di Danai nel portico annesso al tempio di Apollo Palatino a Roma.
Dopo divinità e celebrità, al primo piano del museo si scopre la gente comune e i notabili senza nome di Ercolano o meglio col nome nascosto nelle diverse centinaia di tavolette lignee cerate e carbonizzate degli archivi privati e nelle lunghe liste su grandi lastre di marmo affisse a parete forse vicino alla "Basilica Noniana". Tra i ritratti in marmo (uno in bronzo certamente da una statua), spicca una testa-ritratto femminile in legno carbonizzato, alta 32 centimetri, con tratti realistici. Le luci della mostra si spengono sull'inevitabile ultima scena degli abitanti di Ercolano. Al di là di cortine di fili neri ecco il rettangolo calcinato con i calchi degli scheletri di parte dei fuggiaschi che si erano accalcati nel fornice numero 12 dell'antica spiaggia e che il "vento rovente" del Vesuvio spogliò di carne e liquidi, per fortuna in un attimo. Ma non riuscì a interrompere la stretta delle mani delle due persone in primo piano.
Notizie utili - "Ercolano. Tre secoli di scoperte". Dal 16 ottobre al 13 aprile. Napoli. Museo archeologico nazionale. Promossa dalla soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Napoli e Pompei, diretta da Pietro Giovanni Guzzo, con il finanziamento della Regione Campania. Curatori Guzzo, Maria Rosaria Borriello e Maria Paola Guidobaldi (anche del catalogo). Organizzazione e catalogo Electa.
Biglietto: intero 10 euro, ridotto 6, 75. La mostra è inserita nel circuito Campania Artecard.
Orari: dalle 9 alle 19, 30. Chiuso il martedì. Prenotazione obbligatoria per gruppi, scuole e visite didattiche 848800288; 0814422149.
di Michael A. Cremo, Richard L. Thompson2. Archeologia Misterica
di Luc Bürgin3. Archeologia dell'impossibile
di Volterri Roberto4. Archeologia eretica
di Luc Bürgin5. Il libro degli antichi misteri
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