Aveva cominciato come lustrascarpe in Connecticut, terzo di dieci figli di un bottegaio chiamato Philo Barnum. Alla fine della sua vita, quando la morte lo spense nel sonno a ottant'anni, sarebbe stato il mondo a lucidare le sue scarpe e insignirlo di un titolo che nessuno potrà mai più contendergli: "l'Uomo che inventò lo show business".
Tutto quello che oggi vediamo e subiamo nell'Era della pubblicità, della televisione, della politica spettacolo, degli effetti speciali, dei "mostri" reali o immaginari, vengono da lui, Phineas Taylor Barnum, dall'uomo che enunciò la legge fondamentale della società dei consumi: "Tutta l'umanità è formata da potenziali clienti".
Se il suo nome è per sempre legato al circo moderno, alla riscoperta e alla commercializzazione dei tendoni a righe, eretti nelle spianate e nelle piazze d'armi con leoni in gabbia, nani, ballerine, acrobati, elefanti, contorsionisti e domatori in perizoma leopardato, delle sfilate di meraviglie esotiche che attraversavano, con fino a sessanta carri, le città americane scatenando l'eccitazione e la fantasia dei tempi senza cinema, radio o televisione, la storia di questo ineguagliabile imbonitore è molto più importante dell'avventura di uno spacciatore di donne barbute, di foche sapienti o di sirene imbalsamate, fabbricate con il torso di una scimmia impagliata e cucita con la coda di un delfino.
La creazione del circo moderno, quello che oggi altre forme di intrattenimento, insieme con il ribrezzo per l'umiliazione di magnifici animali minacciano di estinzione, fu infatti soltanto l'ultima delle sue imprese, un'idea che lui stesso aveva definito "l'hobby di un vecchio". Lo lanciò quando aveva già sessantun anni e una vita trascorsa a produrre spettacoli incredibili, attrazioni mostruose, incantesimi per un pubblico assetato di meraviglie, che lo aveva reso il primo "milionario dello show business" e l'americano più famoso nel mondo, alla fine dell'Ottocento, come scrissero le necrologie sui giornali di New York e di Washington, contagiate anche post mortem dalla sua abilità per le iperboli.
Il suo successo, ormai mondiale, sancito da udienze con la Regina Vittoria, lo Zar Alessandro III, l'imperatore Napoleone III, e da una reggia privata costruita in stile revival ottomano nel Connecticut, chiamata "Iraniana", era nato non dal super elefante Jumbo trasportato a New York dallo zoo di Londra o dall'ingaggio dell'"Usignolo della Scandinavia", una cantante svedese dalle voce angelica, che i ricchi di New York, gli Astor, i Vanderbilt, i Carnegie, pagavano fino a seimila dollari di oggi per ascoltare.
L'intuizione che lo rese immortale, oltre che favolosamente ricco, era il corollario della sua prima legge, quella su un mondo popolato di potenziali clienti. "Senza la promotion - spiegava nelle sue memorie, che regalava ad altri editori senza chiedere royalties, pur di diffondere il proprio messaggio - dunque senza pubblicità diremmo oggi qualcosa di terribile potrebbe accadere: niente".
Non è quello che vendi, ma "come" lo vendi che richiama i polli nell'aia, anche se una frase attribuita a lui, "c'è un pollo nato ogni minuto, se lo incontri ce l'hai fatta" è falsa. Il suo primo colpo, fatto poco dopo essere sbarcato a New York, da allora la capitale mondiale del marketing e della industria pubblicitaria, venne quando aveva venticinque anni, nel 1835.
Ingaggiò una vecchietta afroamericana, Joice Het, che per qualche tempo aveva girato nei paesi della provincia americana raccontando le memorie e l'esperienza di schiava nelle case di ricchi piantatori del Sud, dai quali era fuggita. Barnum ebbe un'idea migliore.
Con una campagna martellante di lettere ai giornali, allora molto più di oggi avidi di storie sensazionali e di feuilleton a effetto, sparse la notizia che Joice aveva centosessant'anni ed era stata la nutrice del piccolo George Washington nella sua casa natale in Virginia. Washington era, in quel 1835, morto da appena trentasei anni. Parenti e persone che lo avevano conosciuto erano ancora vivi, eppure un fiotto, poi un fiume di curiosi, accorsero, pagando venticinque centesimi a testa, per ascoltare la vecchia, inferma donna raccontare l'infanzia del "padre dell'America".
Quando morì, poco dopo, un Barnum indignato pagò di tasca sua un'autopsia condotta dai migliori anatomopatologi del tempo, che conclusero seccamente che Joice non poteva avere più di novant'anni e dunque non avrebbe mai potuto essere la balia e la babysitter di Washington, praticamente suo coetaneo.
Un altro imbonitore, un altro magliaro, ne sarebbe stato distrutto. Non Barnum che aveva imparato la lezione fondamentale, che poi generazioni di impresari, venditori di elisir di lunga vita, truffatori di Borsa e naturalmente politicanti, avrebbero assimilato e sfruttato: i clienti - il pubblico - credono a quello che vogliono credere.
Nel tempo del trionfo positivista, a metà dell'Ottocento, anche l'innaturale sembrava naturale. Sul successo della falsa balia di Washington, costruì il museo delle cose impossibili, proprio di fronte ad una della chiese più celebri di Manhattan, la cattedrale di San Paolo, dove il primo presidente americano aveva giurato fedeltà alla Costituzione.
Accanto a strumenti scientifici autentici, studiati per dare un certo cachet alle panzane, esibì una collezione di ciò che lui stesso chiamava lo humbug, un'espressione presa dalla più famosa favola natalizia di Charles Dickens e che significa, detto brutalmente, "balle".
Produsse il "Generale Pollicino", un nano di cinque anni che vestiva in alta uniforme e costringeva a fumare sigari mostruosi sorseggiando bourbon, cose che oggi avrebbero portato all'immediato arresto e alla condanna di P. T. Barnum.
Accanto al generale, spuntò un ammiraglio tascabile e una marinaretta in miniatura, formando la troupe "dei lillipuziani innamorati": la piccola sposò il generale, preferito all'ammiraglio, in un matrimonio solenne al quale partecipò anche il sindaco. Nacque un verbo: "barnumizzare", trasformare il nulla in eventi, la credulità in realtà.
Arrivò la sirena impagliata, mezza scimmia e mezzo delfino, con le foche letterate che si fingeva sapessero leggere, le immancabili donne cannone specialmente sensazionali in quegli anni di fame, il cane tessitore che faceva funzionare un telaio, Chang ed Eng i gemelli siamesi. E poi spettacoli musicali con "menestrelli negri", in realtà bianchi con il nerofumo in faccia, per prendere in giro il Sud, i sudisti e i proprietari di schiavi.
Tra il 1841 e il 1864, quando il locale bruciò, incendiato da spie inviate dalla Confederazione, dai sudisti, furiosi per la propaganda antischiavitù e per i soldi che Barnum passava agli eserciti delle giubbe blu, trentotto milioni di "polli" pagarono i loro venticinque centesimi per visitare il museo di Barnum, un numero di persone superiore al totale degli abitanti degli Stati Uniti, che nel 1860 erano trentadue milioni, prova di ripetute frequentazioni.
E quando decise di ingaggiare in esclusiva per una tournée americana di sessanta giorni Jennie Lind, soprano svedese che aveva deliziato le corti europee ma era del tutto ignota oltre oceano, ipotecò tutte le sue proprietà per pagarle l'ingaggio inaudito di mille dollari per sera. Dopo una settimana, aveva non soltanto recuperato l'investimento e pagati i debiti, ma quadruplicato il capitale.
Lo slogan, lo "spot" aveva raggiunto il bersaglio: "Venite ad ascoltare la voce dell'angelo che vi porterà lontani dalle miserie della vostra vita". Una vita che, nella Manhattan dove lo sterco dei cavalli lastricava le strade, e nuovi immigrati senza documenti e senza futuro brulicavano in termitai umani, aveva disperato bisogno di echi angelici.
Eppure Barnum, forse ben conscio di un'altra classica legge del commercio americano secondo la quale "nessuno ha mai fatto bancarotta vendendo religioni", si proclamava un uomo profondamente spirituale. Nel suo museo a Broadway esibiva il tronco di un ulivo sotto il quale Gesù e i suoi apostoli si sarebbero riparati dal sole della Palestina. Un falso, ma non molto più falso della panoplia di reliquie che nell'Europa delle indulgenze e della ribellione luterana circolavano.
Come tutti gli imbonitori, detestava gli altri spacciatori di menzogne, chi "scherza con l'anima, che è quanto di più prezioso abbiamo". Offriva cinquecento dollari a tutti coloro che smascheravano medium e comunicatori con l'aldilà, "infami speculatori sulla disperazione e il lutto" e, come avrebbe fatto Houdini anni dopo, personalmente svelava i trucchi dei "maghi", conoscendoli bene.
Tentò fortuna anche in politica, e fu eletto, prevedibilmente, deputato, da quel perfetto conoscitore dei "clienti", in veste di elettori, che era.
Il circo equestre fu un'idea tardiva, appunto un "hobby senile". Ma l'archetipo che sarebbe poi stato riprodotto all'infinito, prima del suo tramonto, che avrebbe sedotto poeti come Maxim Gorki e arcigni dittatori comunisti, fu suo.
L'infinito rosario di carovane prima e poi di vagoni ferroviari attraversavano le grandi pianure e i monti per rovesciare meraviglie inimmaginabili su tutta l'umanità dispersa in un continente spopolato, fu sua, come suo era il treno che acquistò per il trasporto.
L'annuncio dato da un clown, che entrava in città polverose o fangose gridando "The circus is in town, the circus is in town", il circo arriva, è una sequenza che si è stampata nella memoria genetica di ogni americano, anche di coloro che ormai non frequentano i palazzi dello sport nei quali si esibiscono gli eredi di Barnum, il "Ringling Brothers Circus".
Certamente, Phineas T. Barnum, l'inventore del marketing e delle promozioni, aveva pensato la propria morte diversamente dal silenzioso passaggio nel sonno. Ma si era, genio della pubblicità, fino in fondo cautelato. È sepolto nel cimitero che lui aveva fatto costruire per se stesso.
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