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13 Agosto 2009 ARCHEOLOGIA
GOFFREDO SILVESTRI Repubblica.it
La Via dell'Impero e delle distruzioni
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ROMA - All'origine era via dei Monti perché portava ai Castelli Romani. Battezzata via dell'Impero da quando fu inaugurata il 28 ottobre 1932 a dopo la Seconda Guerra Mondiale quando cambiò nome in via dei Fori Imperiali, è la via per eccellenza dello scontro fra istituzioni, archeologi, urbanisti, architetti. Per come è stata tracciata. Per come è stata fatta, con la massima fretta in quell'ambiente fragilissimo e ricchissimo del centro di Roma antica. Ma i tempi dell'archeologia erano i più incompatibili con quello che si doveva fare.

Lunga 900 metri, larga trenta, via dell'Impero è stata completata nel tempo sbalorditivo di 16 mesi, dal luglio 1931, perché doveva essere pronta per il decennale della "Marcia su Roma", della rivoluzione fascista (ma le demolizioni termineranno nell'aprile 1933). Fatta senza riguardi cioè spazzando via testimonianze medievali (il quartiere Alessandrino), palazzi e giardini storici, numerose chiese medievali, rinascimentali e barocche, importanti conventi. "Di particolare pregio erano San Lorenzo ai Monti, detta nei documenti medievali San Lorenzo de Ascesa, e Santa Maria degli Angeli in 'Macello Martyrum' di origine molto remota". Polemiche ai giorni nostri per come via dei Fori Imperiali viene usata, per traffico pubblico e privato. Per come la si vorrebbe modificare. Per come viene trasformata in domenicale "isola pedonale".

Via dell'Impero (e lo "sventramento della collina della Velia") non erano previste dal piano regolatore del 1931. Ma era difficile non pensare, per ragioni ideologiche, politiche, di rinnovamento urbanistico, per ragioni pratiche di traffico, ad aprire un collegamento diretto fra l'Altare della Patria e il Colosseo. Fra il Vittoriano a Piazza Venezia, il simbolo dell'epopea risorgimentale completata dalla sanguinosissima "Grande Guerra", dove dal 1929 erano cominciate le "oceaniche" adunate del fascismo, e il simbolo della Roma imperiale, che la storia e la natura avevano posto oltre una collina di tufo. La Velia, una delle tre propaggini del Palatino, il nome più invocato dagli oppositori di via dell'Impero, una delle "entità originarie della Roma arcaica", dimora del terzo re Tullo Ostilio, sulla quale si venerava Roma Aeterna ed erano stati costruiti i templi antichissimi dei Lari e dei Penati protettori della stirpe romana e dal II secolo avanti Cristo ricche dimore private, che per almeno tre secoli ha avuto continuità di vita.

Dell'Italia completata, moderna e della Roma imperiale il fascismo si dichiarava erede e continuatore e uno "stradone" diritto ci voleva per celebrare la continuità in parata. Avrebbe fornito "l'impatto scenografico e simbolico degno della nuova Roma", una "capitale rigenerata" da papi e piemontesi, immaginata dal capo del fascismo, Benito Mussolini, che aveva anche proclamato che da piazza Colonna si doveva vedere il Pantheon.

Vale la pena ricordare che via dell'Impero non era prevista tutta diritta, ma con una deviazione, all'altezza di via Cavour, verso l'interno, con salita sulla Velia. Questo avrebbe salvato il vasto giardino della villa Silvestri Rivaldi di metà Cinquecento che si estendeva su una o più "domus" antiche abitate da raffinati padroni di casa come provano i marmi e le opere d'arte scavate ancora nel 2002. Viceversa avrebbe condannando la villa. La via dell'Impero realizzata ha cancellato gran parte dei giardini e con essi la collina e salvato la villa.

Ora la "strada delle polemiche" gode di un attimo di sosta in una mostra che testimonia il durante e il dopo delle demolizioni e dà una idea di quanto è stato trovato negli scavi e negli sterri condotti nella zona dal 1924 al 1940. "Via dell'Impero. Nascita di una strada", dal 23 luglio al 20 settembre ai Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli. Promossa e a cura del Comune (assessorato alle Politiche culturali e sovraintendenza ai Beni culturali). Catalogo che è una guida di 77 pagine (Palombi Editori).

La concentrazione delle forze per far nascere nei tempi voluti via dell'Impero fu imponente: 1.500 gli operai mobilitati dalla ditta Federici incaricata dei lavori. Le condizioni di "non sicurezza" che appaiono dai documentari Luce e dalle foto esposte fanno tremare al pensiero degli incidenti e delle vittime sul lavoro, statistiche non trionfali che non sono note. Alla fine furono asportati 300 mila metri cubi di terra, tufo, macerie. La Velia fu tagliata per una lunghezza di oltre 200 metri (lungo l'attuale Via dei Fori Imperiali, davanti la basilica di Massenzio e il tempio di Venere e Roma), per una altezza fra 18 e 25 metri e una profondità fra 40 e 60. E si trattò anche di far sloggiare migliaia di persone, 746 famiglie divise, meglio disperse dalle loro antiche professioni artigianali, fra i quartieri romani delle "case popolari" e nelle nuove città attorno a Roma, come Acilia.

Quanto materiale archeologico fu "prodotto"? Il direttore dei Musei Capitolini, Claudio Parisi Presicce, lo stima, "per difetto, in 100 mila frammenti" finiti in centinaia di casse migranti fra depositi comunali vari, il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, soprattutto il disgraziatissimo "Antiquarium" comunale sul Celio abbandonato nel 1939 per i crolli causati dai lavori per le gallerie delle Metropolitana, ancora il Museo della Civiltà Romana all'Eur. Le casse mai aperte sono 500, quelle aperte e schedate 400.

"Delle casse custodite al museo all'Eur - continua Presicce-, 86 sono stata aperte nel 2008 e 24 hanno materiale da "Via dell'Impero". In un quaderno di appunti di Antonio Maria Colini, l'archeologo che seguiva i lavori per conto del Governatorato del Comune, si legge alla vigilia dell'inizio del lavori di sbancamento della Velia: "Che Dio ce la mandi buona!".

"Questa stessa frase, tuttavia, dimostra una grande consapevolezza, che è possibile ritracciare in tutta la documentazione conservata, attraverso la quale emergono tutti i dati più importanti. Noi lavoriamo per ricomporre il mosaico". Da quelle 24 casse sono emersi 794 frammenti marmorei, 778 frammenti di intonaco dipinto e stucco, 14.959 frammenti di ceramica di ogni epoca, 266 frammenti fra metalli, vetri, osso, eccetera. "Un palinsesto delle fasi di vita di Roma antica, che nella zona del centro storico non ha eguali". I materiali offrono "una visione completa dell'ampia stratificazione" delle fasi storiche di cui una super-selezione è in mostra. Sono stati studiati i materiali esposti? "In via preliminare perché appunto ci manca ancora il sistema, il mosaico" risponde Presicce.

Nelle casse, nei depositi, esiste un patrimonio immenso di pezzi archeologici da identificare, studiare, mettere insieme o vicini o collocare nello spazio, una miniera "da scavare" che darà un lavoro senza fine a studiosi italiani e stranieri. In un intervento per la precedente mostra sull'"Invenzione dei Fori Imperiali" (di Augusto, Cesare, Nerva, Traiano e i Mercati di Traiano), avviata nel 1926 anche qui "con tempi troppo rapidi" nelle demolizioni e negli scavi, Presicce nota che i frammenti raccolti furono migliaia. Una quantità paragonabile soltanto "con quelli, ancora quasi del tutto sconosciuti, recuperati nelle aree circostanti il Campidoglio durante le demolizioni per la costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II" che occupa le pendici settentrionali del colle.

Per registrare i lavori fra il 1924 e il 1940, il Governatorato impegnò una squadra di fotografi professionisti che produsse circa 7.700 immagini riunite in 84 album custoditi dal Museo di Roma. I fotografi, fra i quali Filippo Reale, Michele Valentino Calderisi, Angelo Sallustri e Cesare Faraglia, "usano negativi su lastre in vetro che richiedono abilità tecnica e manualità artigianale, in un'epoca in cui l'istantanea stava rivoluzionando il modo di fotografare". Le fotografie - spiega Anita Margiotta -, rappresentano una "rilevazione sistematica", non propagandistica "a volte anche impietosa, di quanto si stava demolendo e di quanto emergeva dagli scavi frettolosi e repentini", un "resoconto per addetti ai lavori". Sono rintracciabili varie tendenze di ripresa: vedute di insieme dalla "vocazione ancora pittorica"; particolari architettonici e scultorei che "avulsi dal contesto generale, generano opere che rasentano l'astrattismo"; riprese dei cantieri "con gli operai al lavoro su impalcature, o all'interno di irreali palazzi sventrati, che anticipano certe forme di neorealismo".

Il Governatorato mise al lavoro su disegni e dipinti, in particolare acquerelli, anche "decine di artisti di diversa formazione e qualità". Rossella Leone ricorda autori di formazione accademica come Pio Bottoni, Sarino Papalia, Angelo Della Torre, Enrico Ortolani, Giulio Farnese che offrono "un repertorio di angoli urbani con una sapiente resa delle prospettive e delle architetture". Edoardo Ferretti, collaboratore di archeologi, esegue rilievi dei reperti, ma è "apprezzato anche per le 'impressioni coloristiche'" col quali interpreta "con linguaggio naturalistico e sensibilità cromatica" i siti degli interventi. Maria Barosso diventa disegnatrice archeologica al seguito di Giacomo Boni e "accanto alla documentazione filologica" sviluppa "uno spiccato gusto per la narrazione aneddotica e celebrativa".

Vito Lombardi ha "un'efficace e moderna grafica da "reportage" di grande successo sulla stampa". Nonostante gli intenti celebrativi, "emerge una percezione della realtà antiretorica, una nozione di verità che contamina e rinnova la stessa visione degli artisti". Fra i soggetti più ripresi o dipinti in mostra Villa Rivaldi (giardino, giardino segreto, giardino su di una struttura antica, portale rinascimentale, portale barocco, grande vasca, muro di sostegno con ninfeo, nicchie e rilievi), l'elefante preistorico della Velia, la Basilica di Massenzio, il tempio di Venere e Roma, i lavori per l'apertura di via dell'Impero.

I pezzi archeologici di maggiori dimensioni e impatto in mostra sono tre lastre di rilievo marmoreo alte 102 cm, molto probabilmente parti di un ciclo figurato, un fregio monumentale di un altare, con Gigantomachia e scene di lotta di divinità. Nella prima lastra a sinistra, larga 125 cm, una dea alata e "con capigliatura mossa" che impugna l'arco (forse Artemide-Diana) si avvia verso il frammento di un albero di alloro tipico di Apollo. Al centro, un'altra divinità femminile con abbigliamento matronale e mantello che le copre la testa: è rivolta verso l'osservatore, ma ha perso tutta la fetta del volto. Accanto, una gamba e un braccio di un personaggio individuato dall'ascia che impugna come Efesto, dio del fuoco che fonde e lavora mirabilmente i metalli.

Nella seconda lastra larga 70 cm sono raffigurate due Erinni (a Roma Furie) con fiaccole in mano, dee della maledizione e della vendetta punitrice, qui presentate in una versione meno terribile, solo con le vesti agitate dal vento e i capelli scarmigliati, ma non serpenti. Nella terza lastra larga 54 cm, ancora Artemide-Diana con la faretra e l'arco nella raffigurazione rara con le ali. Le due prime lastre sono state trovate nel 1887 durante lo smontaggio di una fogna in via del Colosseo, la terza nel 1948 in via delle Botteghe Oscure e attribuita al Teatro di Balbo conservato sotto il palazzo della famiglia Mattei Paganica. Secondo Presicce i tre rilievi potrebbero provenire tutti dalla zona del Colosseo dove la famiglia Mattei aveva possedimenti. La lastra delle Botteghe Oscure potrebbe essere stata trasportata per essere impiegata come decorazione di un edificio o per farne calcina in una delle tante calcare. "Il rilievo è di alta qualità, opera romana ispirata all'ara di Pergamo, molto vicina allo stile della cosiddetta ara di Domizio Enobarbo, il monumento dei censori" osserva Presicce. La replica romana di datazione incerta viene collocata fra età di Domiziano ed età di Adriano-Antonino.

Interessante che i Musei Vaticani possiedano due lastre della stessa altezza dei pezzi in mostra e dello stesso soggetto. Si può concludere che tutti i rilievi sono repliche di un originale più antico. Data la prevalenza di scene con Diana il fregio potrebbe provenire dal "Dianium", un luogo di culto con altare monumentale in onore della dea della caccia, sorella di Apollo.

Il "prestigio sociale e ruolo politico del padrone di casa" della "domus" sotto quello che resta del giardino di villa Rivaldi, è dimostrato dalle sculture, esempio di "splendide copie o rielaborazioni romane di famosi originali greci". Come la testa di Apollo che raffigura il Pamopios di Fidia dedicato al dio che liberò Atene dalle cavallette. La gran testa cappelluta e barbuta di Silvano. La statua di Icaro (alta 102 cm) col bellissimo volto da giovanetto nonostante le vaste mutilazioni.

Una miniera a parte di materiali sono stati i pozzi della Velia che come ci ricorda Presicce sono dei pozzi (diametro 90 cm) tagliati nel banco di tufo della collina per arrivare alla falda acquifera a volte a 25 metri di profondità. In un secondo tempo sono diventati discariche, immondezzai dei materiali in disuso dalle abitazioni, in particolare frammenti di ceramiche e una gran quantità di ossa di animali domestici e di allevamento.

I pozzi più in alto contengono i materiali più antichi. Come piccoli piatti votivi in terracotta con dipinti un volto femminile di profilo fra una serie di onde e un volto sorridente preso di fronte, un unicum. Sono prodotti in età medio-repubblicana (fine V-inizio IV secolo avanti Cristo) e riproducono i tipi dei piattelli detti "Genucilia" dalla località della Puglia. "Questo significa - spiega Presicce - un anticipo dei primi scambi commerciali di Roma che finora erano indicati al IV-III secolo". Importantissima agli occhi degli archeologi la scritta graffita sul piede di una ciotola, Zeus (non Giove). Questo significa che a Roma, nel IV-III secolo, c'erano già greci della Magna Grecia, prima che Roma conquistasse Taranto. Salto di secoli, all'VIII-IX dopo Cristo, per la piccola brocca in ceramica invetriata verde scuro, decorata con eleganti "scaglie di pigna".

Si chiude con un altro pezzo che attira da lontano per la vivacità dei colori del marmo (alabastro): un frammento che raffigura due figure giovanili alate mutile, ma di grande qualità scultorea, due eroti di cui uno solleva per una zampa una pelle di leone. Di inizio epoca imperiale proviene dal foro di Cesare o di Augusto. Potrebbe essere il rivestimento dei portici del tempio o meglio il rivestimento di un'edicola.

Ma dopo la mostra dove finiranno questi pezzi, nelle casse? Per il momento sì, ma sono parte costituente del futuro "Museo della Città" in programma nel palazzo di proprietà del Comune attiguo a Santa Maria in Cosmedin, all'inizio di via dei Cerchi. Un piano sarà dedicato alla Velia. Se i fondi necessari ci saranno e in tempi che rispettino la programmazione, il museo potrà essere pronto in quattro anni. Se viene a mancare uno dei due fattori la realizzazione entra nelle nebbie. Ma ci sarà una anteprima del museo: i pezzi in mostra ed altri ancora provenienti dalle casse dell'Antiquarium, in tutto un centinaio, mai esposti al pubblico, saranno presentati in uno spazio già nella disponibilità del museo per una mostra nella primavera 2010.

Poiché problemi e polemiche fra istituzioni e fra archeologi, urbanisti, architetti si ripetono in occasione di ogni intervento piccolo o grande sul territorio e sul sottosuolo di Roma, allora il sovraintendente comunale ai Beni culturali, Umberto Broccoli, suggerisce un metodo diverso di affrontare quei problemi. Gli archeologi, le Accademie straniere, invece di disperdersi in tanti interventi, in periferia, nel Suburbio, invece di, il termine usato, con simpatia, è stato "cazzuoleggiare" in tanti cantieri, si concentrino in quei settori della città in cui ci sarà nuova residenza, complessi commerciali, interventi di urbanizzazione, linee della Metropolitana, ampliamento di strade, nuove condotte e impianti, eccetera, eccetera. E con gli archeologi si concentrati gli architetti. "Gli architetti diranno come costruire e gli archeologi dove". Broccoli ha precisato che per ora si tratta di una proposta di metodo, che non ha ancora calato sul territorio di Roma, sugli interventi previsti per esempio per attuare il piano regolatore. Il "Comune di Roma è pronto a fare da capofila" in uno sforzo che coinvolge molti soggetti.

Notizie utili - "Via dell'Impero. Nascita di una strada". Dal 23 luglio al 20 settembre. Roma. Musei Capitolini, Palazzo Caffarelli. Promossa e a cura del Comune di Toma (assessorato alle Politiche culturali e sovraintendenza ai Beni culturali). Organizzazione Zètema Progetto Cultura. Catalogo Palombi Editori.

Biglietti: mostra, intero 4 euro e ridotto 2; integrato mostra-musei intero 8 euro; ridotto 6.

Orari: da martedì a domenica 9-20 (la biglietteria chiude alle 19); chiuso lunedì