È la più singolare tra le navi di epoca romana scoperte a Pisa. In futuro, una sua replica potrebbe nuovamente navigare. Quando il fiume Serchio si chiamava ancora Auser, e si divideva in due bracci prima di sfociare in mare, nella zona di Pisa dove ora si trova la stazione ferroviaria di San Rossore c'era un attracco fluviale.
Era il porto urbano di Pisa, nato probabilmente in epoca etrusca, e le navi vi entravano risalendo il fiume per trovare riparo.
Nel corso dei secoli, però, tra il secondo secolo a.C. e l'inizio del Medioevo almeno cinque piene devastanti dell'Arno, che scorre a un chilometro da lì, travolsero le imbarcazioni che se ne stavano alla fonda, con il loro carico di materiali e talvolta di uomini.
Quattro anni fa le Ferrovie avevano cominciato nell'area i lavori per un nuovo centro direzionale. Con i lavori iniziarono a emergere i resti di alcune navi, finché uno scavo archeologico prese il posto del cantiere.
Nel corso del tempo si è moltiplicato il numero delle imbarcazioni identificate: sembravano nove all'inizio, ora siamo a 21 fra relitti e tracce di relitti, di cui 11 in buono stato di completezza. E tre navi, l'ultima nel gennaio scorso, sono state estratte e sono in attesa di restauro.
L'eccezionalità dello scavo è anche nello stato di conservazione delle imbarcazioni. Sepolte nella sabbia in un ambiente buio, senza ossigeno e infiltrato da acqua pura, hanno resistito bene al tempo. "In pratica" dice Andrea Camilli della Soprintendenza archeologica della Toscana, direttore scientifico dei lavori, "abbiamo uno scavo subacqueo "en plein air"".
Dopo la piroga, che è l'imbarcazione più tarda e risale probabilmente all'VIII secolo d.C., estratta dal fango nell'estate del 2001, a gennaio è stata la volta della nave C, ribattezzata Giuditta. È una barca a remi di forma slanciata, forse militare, dato che è stata trovata sprovvista di tutto l'arredo e del carico. Ed è la meglio conservata dell'antichità.
Per estrarla e sollevarla dal terreno è stata sperimentata una tecnica finora quasi mai utilizzata. Via via che vengono scavate, Giuditta e le altre imbarcazioni sono ricoperte con uno strato di resine al silicone che le protegge dai microrganismi e le mantiene al buio. Dentro questo guscio viene poi pompata acqua a pressione, con un normale impianto di irrigazione. È proprio l'acqua che serve a conservarle: la massa attuale del legno, infatti, è solo il 20 per cento di quella originale.
Il resto è acqua. Che al momento del restauro dovrà essere tolta e sostituita con sostanze che rendano stabile il legno. "L'intenzione" dice Camilli "sarebbe proprio creare un centro dove si sperimentino questi trattamenti".
Durante lo scavo le navi vengono anche fotografate e se ne ricostruisce un modello virtuale che consente di studiarle assai prima del completamento del restauro. Per la nave C c'è l'idea di realizzare una replica navigante a grandezza reale.
Il lavoro degli scavi è una sfida anche per gli archeologi che devono capire a quale nave appartengano i reperti del carico, confuso e sprofondato nei vari strati. "Stiamo sviluppando un software con un sistema tridimensionale che ci consente di attribuire gli oggetti a una nave o all'altra" dice Camilli.
Il carico fornisce una miriade di informazioni sulla vita dell'epoca. La nave B, imbarcazione da carico di età augustea, trasportava anfore caricate in Campania (lo si deduce dalle sabbie vulcaniche presenti in alcune di esse). Contenevano conserve di frutta e miele e sono forse il primo esempio di vuoto a rendere.
Per il futuro, il progetto è rendere il cantiere visitabile durante gli scavi. Oggi lo si può fare su appuntamento (per prenotazioni: tel. 05021441).
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