NEW YORK (Stati Uniti) - «Non c'è stata vittoria né sconfitta». Così, parafrasando la famosa frase che si legge nella piazza delle Tre Culture di Città del Messico a proposito della disfatta degli Aztechi ad opera dei conquistadores di Hernan Cortés, il ministro dei Beni culturali italiano, Rocco Buttiglione, ha salutato la firma dello storico accordo appena concluso a Roma con Philippe del Montebello, direttore del Metropolitan Museum di New York.
IL BRACCIO DI FERRO - Si chiude in questo modo, con un sottile capolavoro di alta diplomazia nel quale ufficialmente non ci sono né vincitori né vinti, il lungo ed estenuante braccio di ferro fra gli Stati Uniti, superpotenza globale, e l'Italia, potenza decisamente minore sul piano dei rapporti di forza, ma superpotenza almeno sul piano della cultura. Con gli accordi di Roma è terminata, senza umiliare gli Stati Uniti, ma al tempo stesso accettando le buone ragioni dell'Italia, che da questo confronto esce come la vincitrice morale, quella che era stata definita la «guerra dell'arte».
L'INTESA ITALIA-USA - Il Metropolitan si impegna a restituire all'Italia il prezioso «Cratere di Eufronio» del 500 a.C., acquistato nel 1972 in circostanze non chiare e che, come hanno sempre sostenuto i carabinieri del nucleo archeologico e la magistratura italiana (che minacciava di denunciare per ricettazione il museo) risulterebbe rubato. In contropartita l'Italia si impegna però a rinnovare il Protocollo di cooperazione archeologica con gli Stati Uniti e, soprattutto, a concedere al Met e agli altri musei americani, in prestito, per la stessa ragione, anche gli «argenti di Morgantina», così chiamati dal paese della Sicilia dove, a detta degli studiosi e degli investigatori italiani, erano stati rubati dai tombaroli e successivamente venduti al museo newyorchese, che in buona fede e all'oscuro di tutto li aveva acquistati.
I MARMI DI ELGIN - L'epilogo di questa vicenda, che si trascinava da anni, non soltanto per la Un turista fotografa i «marmi di Elgin» al British Museum (Reuters)credibilità dei musei degli Stati Uniti, ma per il mercato mondiale dell'arte, è di enorme importanza. Basterà ricordare il clamore sollevato (finora senza successo) dalla Grecia - e in particolare dalla cantante Melina Merkouri quando era ministra della cultura - per ottenere dalla Gran Bretagna la restituzione dei cosiddetti «marmi di Elgin» che dal oltre un secolo si trovano a Londra e sono esposti nelle sale del British Museum. I bassorilievi del Partenone, a detta dei greci, furono sottratti nell'Ottocento da un «fornitore» che lavorava per conto di Thomas Bruce, settimo conte di Elgin e da poco nominato ambasciatore britannico ad Atene all'epoca della regina Vittoria. Poi Elgin, una volta tornato a casa per fine missione, aveva fatto il bel gesto di regalare i «suoi» pezzi di Partenone allo Stato britannico. Da allora, tutte le rimostranze dei greci per ottenere la restituzione dei marmi sono cadute nel vuoto. La risposta di Londra è la stessa: «I capolavori sono stati acquistati in buona fede e in maniera legale. Ormai fanno parte del patrimonio britannico».
CULTURA E BUSINESS - Adesso, con il precedente del "trattato di pace" appena firmato a Roma dal Ministero dei beni culturali con il Metropolitan, tutto questo ambiguo equilibrio rischia di saltare di colpo, mettendo a nudo i non sempre trasparenti legami che corrono fra i grandi musei che gestiscono patrimoni di centinaia e perfino miliardi di dollari, i collezionisti che sono a volte anche speculatori, e i mercanti d'arte con le case di vendita all'asta internazionali. Il problema in America è molto più complicato che altrove perché il museo americano è al tempo stesso una istituzione capace di fare cultura e un grandissimo business. E in questo sta la sua forza, ma anche la sua vulnerabilità.
LA «PACE DI ROMA» - E' vero infatti che le risorse del museo Usa, non solo economiche e organizzative, ma anche scientifiche e umane, sono spesso maggiori e anche gestite con maggiore efficienza rispetto ad altri paesi. Ma non si può neppure ignorare che il museo americano dipende in larga misura, oltre che dalle proprie risorse, anche dalla collaborazione dei trustees, mecenati non sempre motivati dal più puro altruismo, che concedono in prestito le collezioni al museo, e magari poi sono capaci di sfruttare la pubblicità che ne deriva per fare il buono e il cattivo tempo sul mercato dell'arte. Questa è la ragione per cui il direttore del Metropolitan, Philippe de Montebello, francese di nascita, americano di passaporto e cittadino del mondo, andando a firmare la «pace di Roma» (dopo che i trustees fino a ieri, con la faccia impassibile, avevano giurato: «Tutto quello che è esposto è di provenienza legale») sa perfettamente di avere scoperto un vaso di Pandora capace di provocare terremoti in tutto il settore.
LA CONTESA COL GETTY MUSEUM - Un esempio è il caso del museo Paul Getty, appena restaurato (al costo di 275 milioni di dollari) e di recente riaperto a Malibu, vicino a Los Angeles, dove l'Italia rivendica almeno quattro opere di possibile provenienza furtiva e Marion True, la donna che per dieci anni ha diretto il Getty pilotandone anche la «campagna acquisti», si trova sotto processo in Italia, dopo essere stata costretta dallo scandalo a dimettersi dal museo. In realtà la battaglia dell'arte «senza vincitori né vinti» non è finita ma prosegue con altri mezzi. Al'Italia rimane, per ora, la soddisfazione di avere tenuto duro. «Se i musei in America hanno ceduto - dice un diplomatico occidentale - è perché hanno capito che i giudici italiani questa volta andavano avanti sul serio. A nessun direttore di museo piace l'idea di vedersi trascinato in un'aula di tribunale».
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