Il fossile di un bambino vissuto in Siberia 24 mila anni fa ha svelato agli archeologi indizi per risolvere un puzzle complesso: quello delle antiche migrazioni umane nel continente americano. Le analisi genetiche delle ossa del giovane - noto come ragazzo di Mal'ta, dal nome del villaggio vicino al Lago Baikal, dove fu rinvenuto a metà del '900 - indicherebbero che un terzo del DNA dei nativi americani ha origini europee, e che le popolazioni dell'Europa occidentale si spinsero, nelle loro migrazioni, più a est di quanto si credesse.
Cold case: un giallo riaperto dopo 50 anni
I resti del giovane di Mal'ta - poche ossa coperte da un lastrone di pietra rinvenute in Siberia in una campagna di scavi terminata nel 1958 - sono rimasti per oltre 50 anni all'interno dell'Hermitage, l'importante museo di San Pietroburgo, in Russia.
Solo nel 2009 un gruppo di archeologi dell'Università di Copenhagen (Danimarca) ha chiesto di poter compiere studi genetici sul fossile per trovare prove dell'origine est asiatica dei nativi americani: una delle ipotesi più condivise sull'origine dei più antichi abitanti del "Nuovo mondo" è che discendessero da popolazioni siberiane imparentate con popoli dell'Asia orientale.
L'analisi del DNA estratto dall'osso del braccio del bambino - i cui risultati sono stati appena pubblicati su Nature - ha riservato, però, due belle sorprese.
La prima è che il DNA del ragazzo è in parte simile a quello delle popolazioni dell'Europa occidentale: la prova, se i risultati venissero confermati, che durante l'ultima Era Glaciale le popolazioni europee si spostarono molto più a est, nell'area euroasiatica, di quanto si pensasse finora, fino in Siberia.
Del resto, anche non si conservano frammenti di pelle o capelli del giovane, i suoi geni fanno pensare che avesse capelli e occhi castani, caratteristiche assimilabili a quelle degli europei occidentali.
La seconda è che un'ampia porzione - il 25% - del codice genetico del bambino combacia con quella dei moderni nativi americani, mentre non sembra particolarmente affine a quello delle popolazioni asiatiche orientali. Dopo aver escluso l'ipotesi di una contaminazione del DNA con altri reperti, gli scienziati hanno condotto analisi di conferma anche su altri fossili di antichi siberiani e anch'essi mostrano marker di origine europea.
Secondo le ipotesi degli scienziati le popolazioni dell'Europa occidentale si sarebbero incrociate con quelle euroasiatiche occidentali - quelle per intenderci, del villaggio di Mal'ta - una volta migrate in Siberia: i nuovi individui avrebbero poi varcato l'area dello stretto di Bering per raggiungere il continente americano.
Secondo le analisi dei ricercatori i moderni nativi americani dovrebbero ai loro "parenti" in parte europei in parte euroasiatici tra il 14 e il 38% del loro codice genetico. La prova che i nostri antenati arrivarono nel "Nuovo mondo" ben prima di Cristoforo Colombo.
- Indiani d'America, dalla Siberia camminando sullo stretto di Bering
Scritta nel DNA l'origine siberiana, raggiunsero l'America attraverso una lingua di terra scomparsa.
Una sottile striscia di terra ghiacciata che unisce le terre più inospitali dell'Asia e dell'America, un popolo in marcia attraverso lo stretto di Bering, tra Siberia e Alaska, appena 12 mila anni fa.
E' questa la suggestiva immagine che, per i ricercatori dell'Università del Michigan, fotografa le origini delle popolazioni native americane: un'immagine che si oppone a quella tradizionale, secondo cui i nativi di Nord e Sud America sarebbero giunti 30 mila anni fa dalla Polinesia e da altre zone dell'Asia, via mare e via terra, in ondate successive.
La nuova teoria si fonda sull'esame delle caratteristiche genetiche di 29 popolazioni americane e di due gruppi siberiani: l'equipe di genetisti ha rilevato un'unica variante genetica che caratterizza tutti i popoli americani - senza distinzione fra nord, centro e sud - e che, nel mondo, si rileva esclusivamente nella Siberia dell'est. Man mano che ci si allontana dallo stretto di Bering, le somiglianze genetiche fra siberiani e indiani americani si riducono.
Si tratta di una mutazione "giovane", si legge ancora nella ricerca, il che fa pensare ad una migrazione relativamente recente, avvenuta in un unica soluzione : "Se ci fossero stati diversi e successivi flussi migratori e se molti dei gruppi di migranti non avessero presentato la variante, non avremmo rilevato una presenza così diffusa della mutazione nelle Americhe", sottolinea Noah Rosenberg, genetista che ha partecipato allo studio.
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