I vaccini per Ebola esistono. Sulle scimmie sono così efficaci che un macaco vaccinato può essere protetto o curato persino se gli viene iniettata una dose del virus cento volte più potente di quella letale. Ma nessuno sa per certo se i vaccini possono funzionare sull'uomo: una sperimentazione rigorosa non è ancora stata nemmeno avviata.
Solo per mettere a punto un vaccino da sperimentare sulle scimmie sono occorsi decenni: un processo lungo ed estenuante, cominciato negli anni Novanta, che ha comportato la morte di decine di macachi. Per poco i ricercatori americani non si erano arresi. "Nessuno credeva che da Ebola ci si potesse proteggere con un vaccino, perché il virus era troppo aggressivo", racconta Nancy Sullivan, dirigente dello U.S. National Institute of Allergy and Infectious Diseases.
Proprio l'insidiosa natura del virus Ebola è tra gli ostacoli che hanno più rallentato la ricerca di vaccini e cure in grado di combattere una delle malattie infettive più pericolose che il mondo abbia mai conosciuto. Tra gli altri motivi del ritardo, i rischi che sono sempre connessi alla ricerca scientifica e soprattutto un dubbio di natura morale ed economica: era giusto concentrare risorse su una patologia che prima dell'epidemia in corso aveva contagiato solo 2.400 persone in tutto il mondo? A confronto con la malaria, che uccide 600 mila persone all'anno, la tubercolosi (1, 3 milioni di vittime) e l'AIDS (1, 6 milioni), non ci si può meravigliare se a lungo le autorità sanitarie non hanno inserito la cura per l'Ebola tra le priorità.
Oggi però il virus sta devastando l'Africa, e comincia a colpire anche gli Stati Uniti e l'Europa. Solo nelle ultime tre settimane ha contagiato almeno 2.400 persone nell'Africa occidentale, e dall'anno scorso, quando è iniziata l'epidemia, ha ucciso 4.000 persone. Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health, l'agenzia del governo USA per la ricerca biomedica, ha puntato il dito sui risvolti politici della vicenda dichiarando in un'intervista che vaccini e cure sarebbero già pronti se i fondi per la ricerca di base non fossero stati tagliati.
"Non è che ci siamo svegliati all'improvviso dicendo: 'Perbacco, avremmo dovuto fare qualcosa!'", ha detto Collins. Se i finanziamenti non stessero diminuendo da almeno dieci anni, ha aggiunto, "saremmo avanti di uno o due anni con la ricerca, cosa che in questo momento sarebbe fondamentale".
Ora la ricerca del vaccino e di cure più efficaci sta diventando una corsa contro il tempo. Nelle prossime settimane i primi farmaci cominceranno a essere sperimentati sulle persone. Se almeno uno di essi risulterà efficace, l'epidemia potrà essere contenuta, evitando scenari da film catastrofico. Secondo l'Organizzazione mondiale della Sanità, in Guinea, Liberia e Sierra Leone potrebbero esserci anche 10 mila casi nuovi casi di contagio in più alla settimana da qui fino alla fine dell'anno. E finora la malattia ha ucciso circa il 70 per cento delle persone infette.
Tutti gli organi in un colpo solo
Al microscopio, il virus Ebola appare vermiforme e particolarmente grande: è lungo dieci volte più di quello dell'influenza e due volte quello del vaiolo (anche se è leggermente più sottile di entrambi). Battezzato con il nome di un fiume che scorre in quella che adesso è la Repubblica Democratica del Congo - nei pressi del luogo dove fu scoperto il primo caso, 38 anni fa - il virus può infettare quasi ogni tipo di cellula del corpo umano.
Ebola penetra in vari organi e subito comincia a duplicarsi, danneggiando cuore, polmoni, fegato, sistema digestivo, muscoli e cervello. Alcuni virus, come quello dell'influenza, possono essere bloccati in un solo organo, ad esempio i polmoni, ma per impedire che Ebola si diffonda bisogna fermarlo in tutti gli organi contemporaneamente.
Ecco perché i primi tentativi di creare un vaccino tentando di potenziare il sistema immunitario delle scimmie da laboratorio sono falliti. Nancy Sullivan ottenne i primi risultati reclutando un altro "reggimento" dell'esercito del sistema immunitario: i linfociti T. Il suo vaccino utilizza un virus che colpisce le scimmie - ma non ha effetti sull'uomo - per introdurre un frammento innocuo di una proteina del virus Ebola nel sistema immunitario delle scimmie da laboratorio. Quel frammento è in grado di stimolare la produzione di anticorpi e di linfociti T mirati, in modo da combattere una possibile infezione.
Un approccio simile, rivelatosi potenzialmente più efficace, prevede che la proteina tratta da Ebola venga innestata direttamente su un virus innocuo, quasi fosse il proverbiale lupo (Ebola) vestito da agnello (un altro virus non dannoso). In questo modo nel corpo della scimmia si scatena una reazione immunitaria come se l'attacco venisse da Ebola in persona. "Ho molta fiducia in quel vaccino", dice Thomas Geisbert, docente di microbiologia e immunologia al Medical Branch della University of Texas di Galveston. "Nelle scimmie funziona benissimo".
Presto dovremmo venire a sapere se i due vaccini funzionano altrettanto bene nell'uomo. La sperimentazione umana, finora bloccata da preoccupazioni di ordine etico, è cominciata il mese scorso quando a dieci volontari americani in buona salute è stato somministrato il vaccino messo a punto da Sallivan e oggi acquistato dalla multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline. Una sperimentazione simile è programmata su pazienti sani in Inghilterra. E la settimana scorsa è partita una campagna di vaccinazioni in Mali, un paese dell'Africa occidentale che finora non ha subito il contagio. Se tutto va bene altre 3.000 persone, compresi alcuni bambini, dovrebbero ricevere il vaccino a partire da gennaio, in modo da stabilire l'efficacia e l'innocuità del prodotto.
Parallelamente è in corso la sperimentazione di una versione del vaccino di Geisbert. I test clinici sono stati approvati all'inizio di settembre, e la New Link Genetics Corporation, una ditta con sede nell'Iowa, sta seguendo lo stesso procedimento di sperimentazione graduale su diversi continenti.
Andrà bene per la prossima
Di solito questa fase di test preliminari può durare anche un anno o più prima che le ditte farmaceutiche siano autorizzate a somministrare il vaccino a persone potenzialmente esposte alla malattia. Ma oggi, mentre decine di persone muoiono ogni giorno, il tempo scarseggia. David Vaughn, capo della ricerca sui vaccini della Glaxo per il Nord America, ha dichiarato che la sua compagnia punta a distribuire il vaccino nei paesi colpiti da Ebola già a partire dal prossimo gennaio, anche se i test sulla sicurezza saranno ancora in corso. Ma secondo Vaughn, ammesso che il vaccino funzioni, occorrerà buona parte del prossimo anno per ottimizzarlo e produrne abbastanza dosi da incidere sull'andamento della malattia. Inoltre, il vaccino così com'è adesso deve essere conservato a 50 gradi sottozero, un'impresa molto ardua in paesi in cui la rete elettrica non è affidabile anche nelle grandi città.
"Speriamo che questa epidemia venga contenuta entro sei-nove mesi, e che il vaccino non serva", ha concluso Vaughn. "Sarebbe ideale: sarà pronto per la prossima".
Sangue, medicine e polemiche
La ricerca di una cura per le persone già contagiate su cui un vaccino non potrebbe più fare effetto, ha avuto problemi simili. Attualmente non esistono farmaci specifici: si ricorre alle cosiddette terapie di supporto, che consistono fondamentalmente nel tenere il paziente idratato e nel somministrargli cure per i sintomi come la febbre e per le altre patologie, come la malaria, da cui potrebbe essere affetto.
Migliaia di farmaci esistenti sono stati sperimentati contro il virus: sono probabilmente centinaia quelli che hanno dimostrato almeno una potenziale efficacia nei test in provetta, e qualche decina si è rivelata utile per curare piccoli animali.
"Ho gli scaffali pieni di roba in grado di curare topi e cavie affetti dall'Ebola", dice Geisbert. Ma solo due farmaci si sono rivelati efficaci nelle scimmie. Il primo, ZMapp, è stato somministrato ad alcune vittime umane del virus - tra cui i missionari americani Nancy Writebol e Kent Brantly - prima che le riserve del farmaco si esaurissero.
La medicina viene estratta da piante di tabacco geneticamente modificate. La compagnia che la produce, la Mapp Biopharmaceutical di San Diego, sta aspettando la maturazione del prossimo raccolto. Teresa Romero, l'infermiera spagnola che ha contratto il virus curando un missionario, ha ricevuto una dose di ZMapp la scorsa settimana, e secondo le notizie sembra in via di miglioramento.
Il secondo farmaco, chiamato TKM-Ebola, è stato somministrato di recente ad alcuni pazienti, tra cui il medico e missionario americano Richard Sacra, che sembra stia anch'egli riacquistando le forze.
I farmaci sono stati utilizzati prima di aver completato il consueto procedimento di approvazione da parte delle agenzie federali. Ma quelle poche dosi utilizzate non possono provare la loro efficacia. I missionari americani e l'infermiera spagnola erano stati sottoposti anche ad altri tipi di terapia, e magari sarebbero guariti anche senza ricevere cure. L'unico fatto certo finora è che quei farmaci non hanno effetti letali, o almeno non su tutti i pazienti.
Anche due antivirali, il Brincidofovir e il Favipiravir, sono stati sperimentati su alcuni pazienti, tra cui Thomas Eric Duncan, il liberiano arrivato a settembre a Dallas e morto la scorsa settimana.
Nel tentativo di sperimentare un altro tipo di cura, Brantly ha ricevuto una trasfusione di sangue da un ragazzo guarito dall'Ebola: l'idea era che gli anticorpi presenti nel sangue lo avrebbero aiutato a combattere la malattia. Guarito a sua volta, Brantly ha donato il suo sangue ad altri pazienti, tra cui Nina Pham, l'infermiera di Dallas contagiata mentre assisteva Duncan. La donna è attualmente ricoverata in condizioni stabili.
Tuttavia non esistono studi che provino l'efficacia della terapia a base di donazioni di sangue (detta "del siero convalescente").
Il dibattito sulla liceità della sperimentazione resta acceso. Secondo alcuni studiosi, gli standard normalmente applicati alla sperimentazione di nuovi farmaci non dovrebbero essere abbassati solo perché c'è un'epidemia in corso: solo al termine di un procedimento rigoroso gli scienziati saranno in grado di avere una risposta definitiva sull'efficacia dei farmaci, e questo, nel lungo periodo, consentirà di aiutare un numero maggiore di pazienti.
Altri sostengono che esistono modi accettabili di velocizzare le sperimentazioni. "Qui la velocità è tutto", afferma ad esempio Piero Olliaro, specialista di medicina tropicale e visiting professor all'Università di Oxford. Olliaro sostiene che per una patologia che uccide il 50-70 per cento dei pazienti infetti, sarebbe immorale confrontare l'efficacia del farmaco con quella del placebo: equivarrebbe condannare a morte quasi tutte le persone che lo assumessero. Secondo lo studioso, va iniziata subito una campagna massiccia di sperimentazioni per tutti i farmaci potenzialmente utili e anche per il siero convalescente. "Siamo pronti a partire", conclude Olliaro, che è in partenza per la Guinea, dove spera di lanciare la campagna entro un mese.
Scelte politiche
Al di là dei problemi etici, è stata anche la stessa pericolosità del virus a causare ritardi nella ricerca. Secondo Nancy Sullivan, qualsiasi ricerca sull'Ebola richiede almeno il doppio del tempo rispetto a quelle su altre malattie come la malaria.
Qualsiasi ricercatore che intenda studiare il patogeno letale deve ricevere un'autorizzazione speciale e assumere le stesse precauzioni prescritte per gli operatori sanitari: indossare indumenti protettivi, lavarsi meticolosamente, usare maschere e guanti che rendono il lavoro più lento e difficile.
E poi c'è la politica. Gli Stati Uniti hanno cominciato a investire grosse somme nella ricerca sull'Ebola solo dopo gli attacchi dell'11 settembre 2011, nel timore che il virus potesse essere usato come arma dai terroristi. Ma una ricerca del genere deve essere finanziata con il denaro dei contribuenti, perché nessuna ditta privata sarebbe disposta a investire il tempo e il denaro necessari a sviluppare vaccini e farmaci per un mercato potenziale che - fino a quest'anno - sembrava riguardare solo poche centinaio di pazienti l'anno.
Secondo alcuni specialisti di politica sanitaria, sarebbe stato persino poco etico spendere tempo e denaro per l'Ebola quando ci sono tante altre malattie che fanno molte più vittime.
I finanziamenti ai NIH sono fermi al 2004; tenendo conto dell'inflazione, significa che la ricerca ha meno soldi a disposizione. I fondi stanziati per la ricerca medica sono scesi da 1, 30 a 1, 27 miliardi di dollari dal 2010.
Qualunque sia il motivo per il rallentamento, conclude Olliaro, la situazione attuale dovrebbe spingerci a riconsiderare tutta la politica di ricerca sulle malattie emergenti: "Non dobbiamo lasciar passare questa crisi senza almeno provare a trarne insegnamenti utili".
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