"Sto aspettando la grande scoperta che non sembra arrivare mai". Nel 1909, Charles Dawson si rivolgeva così all'amico Arthur Smith Woodward, custode al Natural History Museum. Ormai erano anni che Dawson bazzicava la zona del Sussex in cerca del tesoro, ma a parte rospi fossilizzati, una statuetta in ghisa risalente all'epoca romana, qualche osso di castori, rinoceronti e ippopotami, nulla di eclatante. Certo, sarebbe stata altra cosa trovare il fossile di un antenato della specie umana, magari proprio l'anello di collegamento tra le scimmie e l'uomo moderno (Darwin aveva fatto scuola, circa una cinquantina di anni prima). Se la grande scoperta fosse arrivata, oltre che vantarsi con l'amico Woodward, Dawson avrebbe potuto fare di meglio, magari anche entrare a far parte della prestigiosa Royal Society e vedere esposti i suoi gioielli al Natural History Museum.
E, guarda caso, la tanto agognata scoperta finalmente arrivò. Nel letto di ghiaia nei pressi di Piltdown, nel Sussex, un imprecisato giorno del 1912, Dawson si ritrovò tra le mani dei frammenti diversi da tutti quelli che lui, avvocato con la passione dell' archeologia, aveva collezionato negli anni. Sembrava capace di tirar fuori qualsiasi cosa da quegli scavi, tanto che presto gli abitanti del luogo lo soprannominarono il " mago del Sussex".
Quella volta dal suo cappello uscirono dei frammenti del cranio di un ominide e una mandibola con due insoliti molari ancora attaccati. Richiamò l'amico Woodward, e insieme misero insieme i fossili dell' uomo di Piltdown, poi denominato Eoanthropus dawsoni. Il 21 novembre 1912 il Guardian titolava così l'annuncio del ritrovamento: "Una delle più importanti scoperte preistoriche dei nostri tempi è stata fatta nel Sussex", perché così era stata accolta. Sembrava proprio il famoso anello mancante nell'evoluzione umana: un fossile con un cranio grande, paragonabile a quello degli uomini moderni, e una mandibola più simile a quella delle scimmie.
Dopo l' uomo di Java e quello di Heidelberg, insomma, anche la Gran Bretagna aveva il suo antenato, vecchio di circa 500mila anni. Come facevano a saperlo, senza la datazione al radiocarbonio? Avevano cercato di risalire all'epoca in cui era vissuto Eoanthropus dawsoni identificando i resti di animali trovati insieme all' uomo di Piltdown (con il quale avrebbero probabilmente convissuto) e confrontandoli con quelli esposti al Museo di storia naturale.
Solo dopo la morte di Dawson si sarebbe scoperto che in realtà l'uomo di Piltdown era molto, molto più giovane, e che era sì metà uomo e metà scimmia, ma in senso letterale. I primi dubbi sull'autenticità del fossili comparvero intorno agli anni Trenta, quando altri ominidi emersi dagli scavi di Giava mostravano caratteri quasi opposti all'uomo di Piltdown, ipotizzando per questo una linea evolutiva separata.
Ci avrebbero pensato Kenneth Oakley, paleontologo al British Museum e Joseph Weiner, studioso di anatomia all' università di Oxford, a far luce su tutta la truffa.
Nel 1949, utilizzando il metodo del fluoro per datare i composti, Oakley calcolò che il presunto ominide non poteva avere più di 50mila anni, tempi in cui cioè l' Homo sapiens esisteva già da tempo. Insieme ai colleghi avrebbe poi scoperto che i denti, così come la mandibola, appartenevano a un orangutan e che erano stati limati e colorati per farli somigliare di più a quelli umani e adattarli al resto. La datazione al radiocarbonio dimostrò, anni dopo, che i frammenti di cranio erano di un uomo moderno, vissuto meno di mille anni fa. Così il 21 novembre 1953, il Natural History Museum annunciava pubblicamente la beffa. Fuori dal museo, allora? No, l'uomo di Piltdown sarebbe potuto rimanere, ma nella sezione Bad science.
(Credit per l'immagine: Reg Speller/Fox Photos/Getty Images)
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