L'arte romanica in Puglia, ed in particolare nel Salento, fu influenzata
da presenze diverse, che si sovrapposero nel corso del tempo: Longobardi,
Bizantini, Normanni.
Nel Basso Salento l'influenza bizantina, specie nell'arte pittorica
e musiva fu prevalente. La cattedrale di Otranto ne è un
esempio.
Il suo mosaico pavimentale è una sintesi indiscutibile di
tali influenze.
Nel VI secolo, Gregorio Magno scriveva "L'immagine è
la scrittura degli illetterati".
Attraverso il linguaggio artistico, infatti, ed in particolare quello
pittorico, del quale il mosaico diviene un'espressione, analfabeti
e pellegrini erano messi in condizioni di conoscere e comprendere
con un linguaggio fatto di scene ed immediatezza visiva gli insegnamenti
della fede.
In tutto il Medioevo si assiste ad un moltiplicarsi di rappresentazioni
iconografiche tratte dalle sacre scritture.
Quando l'occhio corre al mosaico pavimentale di Otranto, subito
è catturato dal vorticoso ondeggiare di figure umane intorno
ai rami ed alle foglie degli alberi che, ergendosi dall'ingresso,
percorrono le tre navate.
Quello principale, nella navata centrale, identificato come una
rappresentazione dell'albero della vita, presenta in prevalenza
scene bibliche.
In una vorticosa sintesi di simbologie e di rappresentazioni l'occhio
coglie una scena la cui presenza lascia perplessi e l'interrogativo
è quasi immediato:
"Che cosa ci fa in quel mosaico re Artù?
Quell'immagine raffigura davvero il leggendario sovrano celtico?"
E, infine, la raffigurazione di Artù nasce con il mosaico
originario o è frutto di un intervento successivo?"
A queste domande, da decenni, illustri studiosi della materia hanno
fornito risposte, formulato ipotesi, tratto conclusioni a volte
contraddittorie.
Non sappiamo, nè mai sapremo con certezza, se sia esistito storicamente
un Artù sovrano celtico o se tale figura sia, come ritenuto da molti,
il frutto di una creazione tesa a contrapporre a Carlo Magno un
altro sovrano d'origine non franca oppure una creatura fantasiosa
voluta per opporre ai Sassoni insediatisi in Inghilterra i Celti
sconfitti.
Non vi sono prove certe, ma non vi è nulla che porti ad escludere
aprioristicamente e a ritenere del tutto fantastica l'esistenza
di un "dux" nella Britannia, da poco abbandonata dai Romani e preda
dell'invasione sassone.
Sicuramente l'Artù storico, ricondotto alla dimensione di condottiero
militare, fu figura notevolmente meno grandiosa dell'Artù leggendario
e letterario.
Fu Chrétien de Troyes che, nella seconda metà del XII secolo,
creò quei personaggi immortali che tutti conosciamo: Lancillotto,
Galvano, Parsifal, eroi dell'ideale cortese.
In realtà, nelle sue opere, Artù appare in ogni caso come una figura
secondaria in rapporto ai personaggi protagonisti delle gesta narrate.
Il primo, grande racconto della vita e delle gesta di re Artù, però,
comparve tra il 1135 e il 1137 in un'opera denominata "Historia
Regum Britanniae". Ne era autore un chierico inglese: Goffredo (Geoffrey)
di Monmouth.
Gran parte di quest'opera è dedicata ad Artù. Si può tranquillamente
sostenere che Goffredo fu l'autore dell'unica vita di re Artù mai
scritta. In tutta la letteratura successiva Artù è una presenza
costante, ma non di rado secondaria, intorno alla quale ruotano
altre figure di protagonisti.
L'opera di Goffredo ebbe un successo eccezionale per la sua epoca.
Ciò che va rilevato è che Goffredo di Monmouth fu l'unico scrittore
medievale a parteggiare per re Artù, rappresentato come un eroe
in lotta per il proprio paese. Fu, infatti, con la letteratura francese
che nacquero le rappresentazioni di turpitudine morale del re, i
triangoli adulterini e la guerra con Lancillotto
Chrétien de Troys compose le sue opere principali (Erec,
Lancelot, Yvain, Conte del graal) tra il 1170 e il 1185, in un momento
in cui la letteratura cortese medievale nasceva nelle corti (ogni
poeta aveva un protettore od una protettrice come nel caso di Chrétien
con Eleonora D'Aquitania) ed era destinata ad una platea cortigiana
ed aristocratica e non certo alla "gente comune".Il tutto senza
scordare che si fa riferimento ad un periodo storico in cui non
era stata ancora inventata la stampa, la trascrizione dei manoscritti
avveniva manualmente e la traduzione, spesso, liberamente; non esistevano
case editrici e società di distribuzione di testi letterari, nè
librerie ed era ancora lontana l'invenzione della Tv e dei quotidiani.
In sostanza, la diffusione dei testi letterari era caratterizzata
da tempi oggi impensabili (d'altro canto notizie "urgenti" di vittorie
e sconfitte in battaglia giungevano dopo anni dal fatto).
Le opere di Chrétien ebbero in ogni modo gran diffusione,
innanzi tutto nelle corti francesi e normanne, così come in quelle
italiane.In particolare ebbero notevole diffusione nelle corti normanne
del sud Italia, nelle quali, a partire dalla corte di Palermo, i
romanzi cortesi in lingua francese esercitarono una certa influenza,
sviluppatasi, in un secondo tempo, anche fuori dell'ambiente aristocratico.
Riassumendo: con Chrétien de Troys nasce il romanzo cortese
e le vicende di Artù e dei suoi cavalieri assumono un connotato
ideale e fantasioso, divenendo un fenomeno letterario che si svilupperà
sempre più nel corso dei secoli passando per Wolfram von Eschenbach
e giungendo, nel XV secolo, sino a Thomas Malory e, via di seguito,
ad Alfred Tennyson, sino ai nostri giorni.
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Facciata della Cattedrale di Otranto |
Sarebbe ormai circostanza assodata e condivisa da tutti gli studiosi
che il mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto fu commissionato
dall'Arcivescovo Gionata, primo vescovo latino della città, ed eseguito,
presumibilmente da un monaco basiliano di nome Pantaleone, forse
facente capo all'abbazia di S.Nicola di Casole, nel periodo tra
il 1163 ed il 1165.
In quell'epoca la Puglia era in mano normanna da quasi un secolo.
.All'epoca della realizzazione del mosaico era re di Sicilia Guglielmo
I detto "il Malo".
Ritornando al nostro personaggio, appare opportuno richiamare qui
quanto evidenziato da C.A. Willemsen nella sua opera sul mosaico.
Riferendosi alla raffigurazione di Artù, piuttosto "fuori tema"
quanto alla sua posizione nell'opera musiva,effettuata tra l'immagine
della cacciata di Adamo ed Eva dall'Eden e la vicenda biblica di
Abele e Caino, egli osserva " Tre interrogativi si imporranno anzitutto
all'osservatore,dopo che si sarà riavuto dalla sorpresa provocata
dall'inattesa visione,vale a dire: quale avvenimento della vita
di questo re così avvolto nella leggenda è qui raffigurato;perchè
egli è stato effigiato in una maniera così insolita; e,per finire,se
e come può essere spiegato il suo inserimento proprio in questo
punto".
E' univoco il convincimento che la scena rappresenti il combattimento
tra re Artù e il felide "Losanna", con un esito fatale per il re,
gettato a terra ed azzannato nella stessa scena. Perplessità ha
poi determinato la strana cavalcatura: un caprone, un animale demoniaco,
simbolo della lussuria e della voluttà. Infine si è ritenuta in
stretta correlazione l'immagine d'Artù in groppa al caprone, con
la vicenda d'Abele e Caino: il primo ucciso dal fratello malvagio,
mentre Artù morirebbe azzannato dal felide.Entrambi gli episodi
avrebbero come fondamento la lotta tra il bene ed il male.
La leggenda della lotta tra il re ed il felide è tramandata nel
Livre d'Artus (peraltro con esito vittorioso per il sovrano contrariamente
a quanto rappresentato nel mosaico).
Altra particolarità è costituita dal fatto che il re appare "armato"
solo di un bastone con il pomo a palla, che è indicato dai più come
uno scettro.
Ora,è necessario puntualizzare alcuni fatti:
1) la corona sul capo della figura di Artù non esisteva in origine
essendo stata posta durante un restauro effettuato nel XIX sec.
In un disegno del mosaico realizzato nel 1818 dall'antiquario e
storico francese Millin, il cavaliere risulta, in origine, privo
di corona;
2) la parte di mosaico in cui è inserita la figura di Artù è risultata
profondamente danneggiata nel corso dei secoli ;
3) tra la figura di Artù e della sua cavalcatura e il personaggio
di Abele si nota una sezione di mosaico, appartenente in origine
ad altra figura (sembrerebbe una coda o una foglia) che nulla ha
a che vedere con la scena che c'interessa, analogamente altro frammento
simile ad una foglia si nota più sopra del capo del re;
Abbiamo già evidenziatoto come, relativamente alla figura storica
di Artù, non sussistessero i presupposti per conferire alla stessa
una valenza quasi universale. Al contrario abbiamo considerato che,
in seguito al grande diffondersi della letteratura d'argomento arturiano,
la figura del re britanno e dei personaggi operanti accanto a lui,
aveva raggiunto una fama imperitura.
In sostanza, vogliamo affermare come, all'epoca della realizzazione
del mosaico di Otranto, la figura di Artù non avesse ancora raggiunto
una fama tale da essere presa in considerazione per l'inserimento
in un'opera di tal fatta e con le finalità non solo artistiche,
ma soprattutto simboliche ed allegoriche che quell'opera si proponeva.
Stante la fama raggiunta da secoli nessuno si stupisce della presenza
sul pavimento della cattedrale di una figura storica importante
quale quella del re macedone Alessandro il Grande , nè alcuno, con
tutta probabilità, si sarebbe stupito se, al posto di Artù, fosse
stato rappresentato Carlo Magno.
Le prevalenti interpretazioni non prendono in considerazione quest'aspetto
in quanto fanno riferimento ai romanzi cortesi e alle chansons de
geste, come veicolo di universale diffusione della leggenda.
Se la figura di Artù fu inserita da Pantaleo nel mosaico durante
la sua originaria realizzazione, ogni riferimento ai romanzi cortesi
è però privo di fondamento.
Abbiamo un dato certo: il mosaico fu realizzato tra il 1163 ed il
1165, mentre le prime opere letterarie che iniziarono a diffondere
la vicenda romanzata dei personaggi arturiani e del re nelle corti
normanne (ci riferiamo principalmente a Chrétien de Troys)
compaiono e si diffondono a partire dal 1170, così come i Lais di
Maria di Francia.Lo stesso vale per il Didot- Perceval di Anon che
compare nel 1190, il Parzival di Wolfram von Eschenbach (1197-1218),
il Tristan und Isolde di Gottfried von Strassburg (1205-10). Ne
consegue che, all'epoca della realizzazione del mosaico tutte le
opere cui fanno riferimento gli interpreti non erano state ancora
scritte, e se non erano state scritte non erano state diffuse, nè
conosciute, ergo: ogni riferimento interpretativo è destituito di
fondamento storico-letterario.
Ma vi è di più: l'episodio del Gatto di Losanna che azzanna il re.Esso
sarebbe tramandato dal Livre d'Artus ed è richiamato da Haug e da
Setti - Frugoni, i quali, però, dimenticano che il Livre d'Artus
è compreso nella Vulgata o Prose Lancelot che fece la sua apparizione
tra il 1220 ed il 1230, oltre mezzo secolo dopo la ultimazione del
mosaico, e poichè prima di tale data non esiste alcun racconto od
episodio che citi di una lotta tra il re ed il felide, appare del
tutto inverosimile che Pantaleone avesse una tale preveggenza da
anticipare di 55 anni la fantasia di uno scrittore futuro.
L'unico modo per ritenere che gli autori del pavimento, nella raffigurazione
di Artù, si rifacessero ai personaggi, agli episodi ed alle opere
richiamate consiste nell'asserire che quella figura non era presente
nel mosaico originario e che fu inserita o "divenne" re Artù solo
successivamente, nell'ambito di un restauro antico o modifica dell'opera,
in un'epoca in cui la letteratura arturiana era comparsa e si era
diffusa.
Si potrebbe subito obiettare: e l'opera fortunatissima di Goffredo
di Monmouth?
E' vero, l'Historia regum Britanniae ebbe una gran diffusione. Non
dimentichiamo, però, che essa fu redatta dal suo autore con intento
storiografico, che narra delle vittorie di Artù ed introduce la
figura di Merlino, nè fa riferimento alcuno all'episodio del felide
(romanzesco e successivo di quasi un secolo).
Il mito di Artù, in ogni modo, non apparteneva al mondo ed alla
cultura bizantina ancora presenti e radicati in Terra d'Otranto,
dalla quale era sostanzialmente sconosciuto.Il mosaico, però, pur
materialmente realizzato da un monaco di tradizione bizantina, è
un'opera tipica della cultura normanna.
Si potrebbe, a questo punto, giungere ad una conclusione ovvia:
la figura di Artù non appartiene alla realizzazione originaria del
mosaico, ma fu inserita successivamente, quando ormai si era ampiamente
diffusa la letteratura arturiana.Una tale conclusione restituirebbe
significato alle varie interpretazioni degli studiosi, pur nell'ambito
di una distinzione dell'epoca sulle parti dell'opera musiva.
La cosa, però, non convince a sufficienza.
Nel mosaico sono raffigurati diversi sovrani: Alessandro, il re
di Ninive, re Salomone. Sono elegantemente abbigliati e, sul capo,
hanno la corona.
Abbiamo visto come, invece, la figura di Artù fosse, in origine,
priva di corona, simbolo di regalità, e come questa sia stata aggiunta
durante un restauro ottocentesco. Artù, inoltre, è abbigliato semplicemente
ed impugna un bastone con una sommità sferica. Quest'ultimo potrebbe
essere individuato come scettro, in verità di esagerate dimensioni
e strana forma, se si confronta con gli scettri di Alessandro e
Salomone. Non si comprende, però, per quale motivo ad Artù sia stata
negata la corona, principale emblema della regalità e gli sia stato,
invece, concesso un enorme scettro. Con maggiore probabilità e verosimiglianza,
quello impugnato da Artù non è uno scettro, ma un semplice bastone.
Nel medioevo l'arma offensiva per eccellenza era la spada. Essa
era l'inseparabile compagna del cavaliere, era qualcosa in più di
un'arma: era un simbolo non solo laico e militare, ma spesso impregnato
di sacralità.
Non tutti, però, potevano portare ed utilizzare la spada, anche
in considerazione dell'alto costo. Gli zotici ed i poveri, quando
affrontavano scontri individuali o erano di supporto in battaglia,
usavano diversi tipi di bastone.
Sembra che una tradizione risalente al IX secolo facesse divieto,
ai funzionari ecclesiastici, di spargere sangue. Essi, però, potevano
utilizzare, per difendersi, grossi bastoni sormontati da un pesante
pomolo, poichè lo sfondare crani non equivaleva, evidentemente,
ad affettare l'avversario e consentiva di salvare il rispetto del
divieto.
Il bastone impugnato da Artù nel mosaico ricorda molto quel tipo
di strumento.
Lanciando, poi, uno sguardo generale all'area del mosaico interessata
dalla figura di Artù si nota subito come la stessa non sia quella
originale, della quale sono rimasti solo alcuni "pezzi" indecifrabili
di immagini e figure.
Se la figura del re bretone, come non appare dubitabile, non fu
inserita nella realizzazione originaria del mosaico, che cosa c'era
al suo posto? E se, com'è probabile, in un primo tempo il personaggio
raffigurato e del quale ci interessiamo non avesse rappresentato
Artù, essendosi "trasformato" solo in seguito ad un intervento successivo
nel leggendario sovrano, la figura originaria, chi o che cosa rappresentava?
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Particolare del Mosaico della Cattedrale di Otranto in
cui è raffigurato Re Artù |
Possiamo, innanzitutto, affermare con ragionevole sicurezza che
l'immagine arturiana non sia stata realizzata contestualmente con
il resto del mosaico, ma in una fase successiva.
I resti di mosaico presenti in loco appartenenti ad immagini esistenti
in precedenza e la presenza di tessere scollegate tra loro portano
a ritenere che, tra la scena della cacciata di Adamo ed Eva dall'Eden
e quella dell'uccisione di Abele ad opera di Caino, vi fossero altre
e diverse immagini collegate a quegli specifici episodi della Genesi.
Si osservi come sopra alla figura di Caino compaia l'immagine divina
che chiede in latino "Dov'è tuo fratello ?".
Non si può escludere che tra le due immagini, in origine, esistesse
solo una ramificazione dell'albero (dietro alla coda del caprone
montato da Artù si nota ancora oggi un residuo di tessere simili
a tante altre foglie dell'albero), al di sopra della quale si affacciava
la figura di Dio e di qualcun altro (forse un Arcangelo) riconducibile
alla figura trasfigurata oggi ricondotta e identificata addirittura
con Parsifal.
Anche con riferimento a quest'ultima immagine si osservi la sproporzione
tra la testa del giovane raffigurato ed il resto del corpo, risultato
di un grossolano intervento successivo.
Probabilmente in quell'area del mosaico, così come in altri punti
dello stesso, successivamente alla sua ultimazione avvenne qualcosa:
forse un danneggiamento seguito ad interventi di modifica strutturale.
Si rese necessario, pertanto, un nuovo intervento ripristinatore
e di completamento dell'opera .
Ne venne fuori un caprone avente in groppa una figura più ecclesiastica
(ictu oculi) che regale (si confronti la regalità delle figure di
Alessandro Magno o del re di Ninive presenti nello stesso mosaico),
aggredita ed abbattuta da un felino (si dice un gatto, ma potrebbe
tranquillamente essere un leopardo o un leone o una lince).
A questo punto è davvero necessario un nuovo rapido excursus nel
periodo storico che ci interessa.
Il regno normanno di Sicilia e di Puglia era strettamente collegato
al regno normanno d' Inghilterra.
Nel 1177 Guglielmo II detto il Buono, re di Sicilia e signore di
Puglia, sposò Giovanna, figlia di Enrico II Plantageneto, re d'Inghilterra,
sorella di Riccardo Cuor di Leone e di Giovanni Senzaterra.
Prima di soffermarci sulla figura del sovrano inglese, però, puntiamo
per un istante l'attenzione sui rapporti dell'epoca tra i Normanni
e la Chiesa.
Nel Salento meridionale esisteva un episcopato greco. Nel caso di
Otranto è assai difficile individuare con precisione un momento
di passaggio dall'episcopato greco a quello latino. In ogni caso
Gallipoli conservò il rito greco sino al 1513, mentre la prima testimonianza
storica di chiese suffraganee assegnate ad Otranto risale alla fine
del XII secolo (nel Liber Censuum sono menzionate come suffraganee
le diocesi di Castro, Gallipoli, Lecce, Ugento e Leuca).
Mentre il rapporto tra i Normanni e la Chiesa latina era fondato
su una sostanziale alleanza, altrettanto non si può affermare con
riferimento alla Chiesa greca.
La Chiesa greco-bizantina, infatti, vedeva i Normanni come alleati
del papato, i quali intendevano imporre un episcopato latino in
Puglia e nel Basso Salento.
Essa, pertanto, viveva una fase di incertezza.
Dai Normanni, l'espressione greca della fede cristiana era considerata
legittima, ma auspicavano il passaggio dei Greci sotto l'obbedianza
romana. Così tentavano di sottoporre i sacerdoti greci a vescovi
latini.
La metropoli di Otranto sarebbe stata latinizzata abbandonando il
suo ruolo missionario in Lucania, per divenire la sede arcivescovile
del Salento meridionale.
I Normanni, però, non eliminarono il rito greco, limitandosi ad
un suo graduale soffocamento.
Nel Medioevo la trasmissione del sapere non viaggiava rapidamente
sui testi, come nelle epoche successive, ma si fondava in prevalenza
sulla parola e sulla memoria.
Le rappresentazioni artistiche e quelle a carattere iconografico,
pertanto, assumevano rilevanza come strumenti di conservazione e
di registrazione delle conoscenze.
Si può affermare come l'arte figurativa medievale fosse anche un'arte
della memoria.
Vi è un episodio, degno di nota e del quale non si può escludere
una ripercussione anche nella realtà sociale e religiosa del Basso
Salento.
Nel 1170, nella Cattedrale di Canterbury, probabilmente per volontà
di Enrico II d'Inghilterra, divenuto suocero, sette anni dopo, di
Guglielmo II di Sicilia e di Puglia, fu assassinato da quattro cavalieri
Thomas Becket, Arcivescovo di Canterbury.
Questi era nato da una ricca famiglia londinese ed era fraterno
amico e cancelliere di Enrico. Andavano in perfetto accordo e, quando
nel 1161 morì l'Arcivescovo di Canterbury, Primate d'Inghilterra,
Enrico II volle al suo posto proprio il suo amico Thomas, collaboratore
energico e fidato.
Thomas, però, deluse le aspettative del suo amico e sovrano, anteponendo
gli interessi spirituali dei fedeli agli interessi del re.
Enrico, da grande amico, divenne il peggior nemico di Thomas.
Ne nacque un contrasto, che costrinse il Primate a rifugiarsi in
Francia, dove trascorse sei anni nell'abbazia cistercense di Pontigny.
Nel 1164 Enrico II promulgò le Costituzioni di Clarendon con le
quali sottopose i chierici al giudizio del re, attentando all'autonomia
ed alla sovranità della Chiesa.
Rientrato in Inghilterra Thomas continuò la sua battaglia di principio,
sino alla sua uccisione ad opera dei seguaci del re.
Il suo assassinio destò grande scalpore e venne considerato un vero
e proprio martirio. Nel 1173 papa Alessandro III lo canonizzò ed
il pellegrinaggio alla sua tomba divenne uno dei più importanti
del suo tempo.
Anche nel regno normanno del sud Italia l'uccisione di Thomas Becket
ebbe altissima risonanza.
Ora, ricapitolando gli elementi analizzati otteniamo:
- la Chiesa Greca di Otranto attraversava un momento critico stante l'intento normanno di latinizzarla;
- l'autore principale del mosaico e, presumibilmente, quanti vi posero mano nei decenni che seguirono facevano capo al monachesimo greco di S. Nicola di Càsole;
- nel Medioevo le rappresentazioni artistiche, e dunque anche i mosaici, assumevano spesso un contenuto di registrazione della memoria storica;
- nel 1177 Giovanna, figlia di Enrico II d'Inghilterra,sposando Guglielmo II di Sicilia e Puglia divenne regina;
- suo padre, nel 1170, causò la morte del Primate d'Inghilterra, Thomas Becket, poi canonizzato;
- Thomas ed Enrico erano stati amici fraterni;
- l'uccisione di Thomas seguì al suo contrasto con Enrico, determinato dalla lotta intrapresa dall'Arcivescovo contro la corruzione e il potere secolare.
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Particolare del Mosaico della Cattedrale di Otranto in cui sono raffigurati Caino e Abele |
Egli cavalca la lussuria e la corruzione (simbolicamente rappresentati
dal caprone), che combatte. Saluta, poiché ritorna dall'esilio
in Francia per continuare nella sua lotta a difesa della Chiesa.
Il gatto è un leone leopardato simbolo araldico di Enrico II , o
potrebbe anche essere una lince. Quest'ultimo felino, infatti, è
richiamato nella profezia di Merlino con riferimento alla famiglia
di Enrico II ("Uscirà da lui una lince che s'insinuerà in ogni dove
e che minaccerà la distruzione del proprio popolo").
La scena è inserita nel mosaico proprio a ridosso dell'episodio
di Caino e Abele, probabilmente perché Enrico e Thomas erano
legati da antica e fraterna amicizia.
Enrico, simboleggiato dal felide, è il Caino della vicenda, che
non accettando la devozione totale dell'amico Thomas alla Chiesa
di Cristo, lo uccide a tradimento.
L'autore della scena intendeva fissare una polemica di carattere
politico religioso: la casa normanna, tanto alleata della Chiesa
romana da tendere alla definitiva latinizzazione della Chiesa greca
meridionale, era legata da stretta parentela con assassini di vescovi
e di santi. Questa manifestazione di protesta doveva restare in
quel luogo sacro per sempre, ma non poteva essere palesemente evidenziata
(la regina era la figlia di colui che aveva armato la mano degli
assassini).
In seguito, durante un altro intervento sul mosaico, qualcuno, così
come accade ancora oggi, si chiese che cosa fosse o rappresentasse
quella scena misteriosa. Nel frattempo si era diffusa la letteratura
arturiana e, con tutta probabilità, l'uomo in groppa ad una cavalcatura
attaccato da un gatto ricordò qualcosa di simile presente nelle
opere del ciclo bretone.
Non ci volle molto a mettere da parte differenze ed incongruenze,
che rendevano la scena del mosaico totalmente diversa e lontana
dall'episodio letterario: bastò scrivere accanto al nome d'Artù.
Si tratta di ipotesi, ma appare innegabile il presupposto storico
e letterario posto a fondamento delle stesse. Tutto coincide: l'epoca,
i testi, i fatti storici ed i loro protagonisti.
Nel XVI secolo il Laggetto riferì delle riparazioni effettuate sulla
Cattedrale di Otranto da parte di Alfonso D'Aragona. Egli non menziona
mai la figura di Artù.
Girolamo Marciano, nella sua opera più nota (primi anni del XVII
secolo), ci parla del mosaico pavimentale, ma non fa alcun riferimento
alla figura di Artù.
Il mosaico è descritto dal Salazaro, che non nomina l'immagine di
Artù.
Il De Giorgi, negli ultimi anni del XIX secolo descrive il mosaico
pavimentale, richiamando, tra l'altro, l'opera del Salazaro. Nomina
Abele e Caino, ma non fa alcun riferimento alla figura di Artù.
Probabilmente questo lavoro non risolverà "l'enigma", sicuramente,
però, pone nuovi presupposti di ricerca e valutazione su di un'opera
che, dopo quasi nove secoli, ancora affascina per la sua complessità
e per quell'alone di mistero che l'accompagna.
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