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10 Dicembre 2003 MISTERO
Alberto Arecchi
Il Capro Longobardo
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Opicino de Canistris: un prete pavese del sec. XIV, nato a Lomello e finito esule alla corte papale di Avignone, noto agli studiosi come cartografo, per la sua vita avventurosa e sventurata (fu uno dei pochi autori a lasciare un'autobiografia), ma soprattutto come cultore d'astrologia e studioso delle tradizioni popolari della sua terra natale, la Lomellina.
Proprio tre anni prima che egli si facesse prete, il papa Giovanni XXII condannava l'alchimia con la bolla Spondet pariter, dichiarava infami e punibili i laici che la praticavano e decretava la destituzione degli ecclesiastici che si rendessero rei della stessa colpa. Segno che anche fra i preti certe scienze dal sapore occulto dovevano essere abbastanza diffuse! Quanto all'astrologia, solo in epoca più tarda essa fu rifiutata dalla scienza ufficiale e divenne incompatibile per un prete parlare d'oroscopi e disegni delle stelle.
Opicino, che era un bravo disegnatore e miniatore, di gusto gotico, scrisse un libro per esaltare le bellezze di Pavia, ma tentò anche d'interpretare la città alla luce d'una "astrologia cristiana": egli volle dare alle proprie interpretazioni siderali un "battesimo" cristiano, integrando nei cerchi zodiacali i classici segni delle costellazioni con le ricorrenze dei santidel "calendario pavese".
Opicino aveva apparizioni notturne sin da quando, all'età d'undici anni, una voce del sogno gli consigliò di mettersi a studiare. In seguito sognò il Giudizio universale e più volte ritenne che gli apparisse la Madonna. Ai sogni, alle fantasie erotiche e alle interpretazioni astrologico-simboliche dedicò gran parte del proprio tempo. Le sue tavole sono fiorite d'allegorie, di santi personaggi con il loro doppio astrale, di corrispondenze siderali ed onomantiche. Egli, concepito due giorni dopo il concepimento di Cristo e nato un giorno prima del Santo Natale, vedeva in ciò un segno del destino. Tentò perciò di fondere la propria esistenza con le credenze della mitologia celtica, conosciuta nella natia Lomellina e approfondita nel suo lungo soggiorno in terra occitana, e di dare un'interpretazione cristiana di tutto quest'intreccio, nel quadro dell'astrologia.
Gli sembrava una maledizione il fatto d'essere nato sotto il segno del Capricorno e proprio la vigilia di Natale. Qualche studioso moderno non ha esitato a commentare le sue fantasie e le sue espressioni sino a definirlo psicopatico. Quando non riusciva a trarre per la sua città e la sua terra gli auspici di buon segno che avrebbe voluto, si metteva ad insultarle e ad insultare sé stesso.

 Una carta dell'Europa disegnata da Opicino.


Il caprone, simbolo per il mondo cristiano del male e dell'Anticristo, ossessionò la sua vita: nato Capricorno, divenuto parroco di Santa Maria Capella (termine che in latino significa cappella, ma anche capretta) a Pavia, finì per ritenere che capri e capre fossero il marchio indelebile della sua esistenza. Vedeva nel mar Mediterraneo, attraverso il quale l'Europa si congiunge all'Africa, l'immagine d'un enorme, osceno caprone, che si congiungeva carnalmente con i due continenti raffigurati in sembianze femminili.
"La misera Lombardia si è presa su di sé tutta la corruzione dell'intera Europa e dell'Africa, e a Pavia è toccata la parte dei genitali... il territorio di quel sito fa schifo come un inguine mestruato, valle del giudizio e inguine della turpitudine d'Europa".
Opicino rappresentava spesso i luoghi geografici con l'immagine di persone umane. Per lui l'Europa è una donna, spesso nuda, della quale l'Italia e la Grecia rappresentano le gambe, mentre la testa è nella penisola iberica. Ovvie le trasposizioni, per cui in certi disegni la laguna veneta diventa un "sesso castrato" e la Corsica un escremento che esce da Genova, definita Genua = Ianua, cioè "porta" d'uscita dei rifiuti organici.
"Ed ecco - aggiunge Opicino - in queste iniquità io sono stato concepito... A volte mi glorio d'essere uomo e mi dimentico d'essere un capricorno dalla lunga barba (longobardo), adoratore della testa del capro. Infatti sono nato in pieno peccato, come un ladro che arriva prima di Cristo, scivolando furtivamente nel giorno maledetto dell'Anticristo. Sono nato in pieno peccato, come un capro espiatorio, ma il battesimo mi ha trasformato e risuscitato dai vizi del capro all'innocenza dell'agnello. E se il signore Gesù Cristo non mi avesse subito seguito e riscattato dal peccato, avrei già toccato il vertice dell'Anticristo...ma io, miserabile capro, nato sotto il segno terrestre del capro e designato all'unione col più piccolo povero della capra, mi accorgo di non aver generato altro che capri e becchi che ritornano sempre alla loro natura sinistra".
Opicino gioca sui nomi, un vezzo frequente tra i saggi letterati, gli alchimisti antichi (e gli uomini politici moderni), il capro è spesso visto come il simbolo del male, del peccato e della depravazione...
"giudicate quindi voi chi e quale sia la mia genitrice e quale la mia consorte... la religione alla patria, la patria alla mia parrocchia, la parrocchia a me stesso, alla mia persona procurano dei crimini carnali... tutte quelle parti che sono membra del diavolo non sono al centro di Gerusalemme ma nelle spire del labirinto".
In tale disperata tensione di ricerca delle proprie radici, intese come radici di peccato, poiché proveniva da una città che ai primi del Trecento era stata scomunicata in quanto ghibellina, Opicino tenta di leggere l'oroscopo di Pavia e del territorio della Lombardia, dell'Europa, del bacino del Mediterraneo, per collegarli fra loro e con il proprio.
In un intero codice, fatto di pelli d'agnello conciate e disegnate su entrambi i lati, traccia globi terrestri con abilità da esperto cartografo. Poi identifica i Tropici e l'area del bacino del Mediterraneo. Sovrappone alla Terra immagini di Santi, della Madonna e di Gesù Cristo, in posizione diritta e rovesciata "in corpo astrale". Sul Mediterraneo, sull'alta Italia e l'Occitania, scende più in particolare. Arriva a sovrapporre in uno stesso disegno una carta geografica, un disegno allegorico (a volte sacro, a volte osceno) e la pianta di Pavia, coi luoghi più importanti, coperta da ben dodici ruote zodiacali. Sei cerchi zodiacali che ruotano in un senso e gli altri in quello opposto, in un tentativo d'interpretazione dinamica, per cui i fatti salienti sono le congiunzioni e le opposizioni fra i vari segni, lungo linee che partono dal centro geometrico della città.
Nel centro dell'Italia superiore, un mostro misterioso dotato di sei buffi piedi umani, squamato, coronato da testa di leone, "causa di peccato, corpo di riprovazione". Secondo Salomon si tratta d'una delle locuste dell'Apocalisse e rappresenta la concupiscenza, secondo quanto scrisse monsignor Gianani. Due scritte, molto chiare: "In hac stercoraria valle hoc simulacrum adoratur: causa peccati, corpus reprobationis. Hic est turpior locus totius Europe. In questa valle di merda si adora questo simulacro, causa di peccato e oggetto di riprovazione", e "dalla città meravigliosa (Pavia) è nato il mostro stupefacente".
Altre teste di leone figurano qua e là, nelle molte pelli d'agnello che compongono il manoscritto del prete pavese. In altre tavole, il mostro a sei zampe è la Tarasca, immagine mitica dell'antica tradizione celtica, ancor oggi ricordata in Provenza, raffigurata nell'atto di mangiare un uomo. Il suo corpo, in un altro disegno, appare corazzato, come quello d'un armadillo, e coperto d'ispide punte. Inoltre elementi di sacro, le immagini di Cristo e della Madonna ricorrono spesso. Il mostruoso e il diabolico spesso intrecciato con questi, in un'orgia che talvolta rasenta la pornografia; costruzioni cartografiche delineate con la perizia d'un sapiente geografo, nelle quali l'attenzione maggiore si punta sul bacino del Mediterraneo e sull'Italia: allegorie in cui quest'ultima si trasforma nella gamba d'una donna, carnalmente allacciata con il mare, che ora è un giovane, ora un satiro barbuto; la topografia di Pavia, ricca d'allusioni cosmiche e di coincidenze simboliche; infine l'autobiografia dell'autore, pedantemente tracciata a forma di canestro, per ricordare il proprio cognome, e dettagliata in ciascun evento per lui significativo (per esempio, è indicato il momento esatto in cui i compagni di scuola gli insegnarono le prime parolacce, e quello in cui cominciò ad avere visioni notturne).
Tutti questi piani si fondevano, o meglio si confondevano.

 La Tarasca: mostro celtico-provenzale con sei zampe, che man-gia i bambini.


Pare che - nel quinto o sesto secolo - le chiese venissero disposte nel tessuto della città secondo la forma delle costellazioni celesti. La città diventava così l'immagine del Cosmo creato, con tutti i suoi influssi fasti e nefasti, e ogni luogo veniva "battezzato", destinato a rappresentare qualcosa, una stella, un'energia, una festività. Otto secoli dopo re Teodorico e il vescovo Ennodio, Opicino, quando lavorava sulla pianta di Pavia per identificare gli influssi zodiacali, non possedeva probabilmente elementi precisi su cui basarsi. La sua appare come una ricerca sperimentale, tanto più che egli la estende al perimetro di Pavia dei suoi tempi, molto più ampio di quello delle origini.
Dal lontano esilio d'Avignone, Opicino si preoccupava di trovare un senso, una risposta coerente al progetto spazio-temporale della propria città, inteso come un flusso storico continuo d'intenzioni e d'avvenimenti. Astrologia, allegorie, topografia, storia e destini futuri si fondono in una visione unica, della quale bisogna arrivare a comprendere il senso: come e perché Opicino si era messo d'impegno, lavorando all'interpretazione zodiacale di Pavia. Gira e rigira, gli sembrava di non riuscire a venire a capo dell'arcano disegno: "A dicembre si riscuotono le decime, ma io non riesco a tirare le fila del mio lavoro". Parafrasava il profeta Ezechiele, le cui frasi di sconforto gli erano sempre piaciute: "Mi sono arrovellato invano, più volte, per descrivere Gerusalemme, per comprenderla in un cerchio. Mi sono scontrato con le limitatezze della mia testa dura, e lo zelo non è bastato a mettere ordine in quel confuso calderone". "La vera Pavia dovrebbe essere "figlia del Papa", ma questa è avversaria del Pontefice, e i suoi abitanti sono figli del diavolo: nessuno vuole riconoscere d'avere un padrone, e vogliono comandare tutti".
Opicino disegnò dapprima la città, con le tre cerchie di mura, tramandate dalla tradizione, che ricordano la Gerusalemme celeste.Poi l'avvolse con diversi anelli zodiacali. Provò a leggere ciascun giro zodiacale in un senso e nell'altro, girando ora nella stessa direzione della volta celeste ed ora in direzione inversa. Numerò i calendari, disegnati intorno ai cerchi, indicandovi i mesi e i segni zodiacali. Cominciò quindi a cercare i significati delle congiunzioni, che nascevano dal ruotare dei diversi calendari. Capricorno con Vergine: sub communitate virginis mobilitas capricorni. Toro e Toro: ex duplici tauro stabilitas firmamenti. E via via, le corrispondenze fra segni mobili, segni stabili e segni comuni. Leone con Gemelli: suppositio leonis; ignis sub aere (il fuoco posto a fondere il bronzo). Non dimenticava infatti la corrispondenza dei pianeti coi metalli e le loro proprietà. Mercurio: tremore e mollezza. Venere: stagno. Marte: bronzo rosso. Giove: piombo e pesantezza. Saturno: ferro, ruggine, l'età del ferro e il trionfo dell'Europa. Luna: argento, l'Africa. Sole: oro, sette metalli, otto se si aggiunge l'elettro, dodici materie se si aggiungono anche i quattro elementi primordiali.
Le coincidenze si moltiplicavano: Gemelli e Sagittario: resistentia pacis ad bellum. Così pure le opposizioni: Sagittario opposto a Sagittario: obviatio belli. e così via.
Opicino, per cristianizzare l'oroscopo, aggiunge qua e là le feste dei Santi, cerca coincidenze e significati reconditi. Lavora sui cerchi zodiacali, tenta di interpretare il presente e il futuro d'una situazione politica che gli sembra disastrosa. L'imperatore Federico II, col suo regno di Sicilia, ma con pretese territoriali nell'Italia peninsulare, alleato dei Ghibellini e degli eretici di mezza Italia, gli appare come un uomo diabolico.
Opicino è stato definito "un Noé malato che cerca di mettere nella sua Arca di carta ciò che può salvare della terra e di sé stesso". Venuto ad Avignone, presso il Papa, per trovare un impiego che non riuscì a mantenere a lungo, disegnò decine di carte che raffigurano il Mediterraneo, il proprio racconto autobiografico, considerazioni astrologiche e una serie di elaborazioni geografiche e cartografiche. Muto, paralizzato al braccio destro e a parte del viso, privato d'una parte della sua memoria letterale, visionario perseguitato dall'idea del peccato, ma convinto d'essere depositario d'una verità segreta, Opicino convoca il cielo e la terra per testimoniare l'impossibile conciliazione delle due immagini, quella del corpo mistico, rigorosamente geometrica, e quella, difforme, d'un corpo stravolto dai peccati del mondo e dalla storia. Allora, in tale inadeguatezza, i territori si accoppiano carnalmente, come parole in giochi d'assonanze, i nomi s'incarnano in personaggi d'un teatro geografico. In una tavola, due carte geografiche identiche sono sovrapposte. S'intravvede la seconda sotto la prima, ma invertita specularmente secondo un asse diagonale, come nelle carte da gioco. Il gioco di parole si trasforma in gioco geografico, il mondo si assoggetta ad una logica linguistica. Rodi cade sul Rodano, Creta sul ventre di Pavia, i due stivali dell'Italia si ricoprono e nel mar Nero si scorge lo stretto di Gibilterra. Il serpente tunisino, che appartiene all'Africa, simbolo del vizio e seduttore della Chiesa, deve ritrovarsi sul Kanastreion di Tessalonica; un tacco vi sovrasta l'iscrizione Canistrum, con allusione anche al proprio nome e alla statua detta del Regisole, che si trovava di fronte a casa sua, nella quale il piede sinistro del cavallo appoggiava su un cagnolino. Quest'immagine, secondo un versetto di Giacobbe, può essere considerata come una profezia dell'Anticristo, al quale Opicino si identifica.
Il calendario, i territori, i nomi propri, i corpi, i testi sacri, i toponimi, tutto diviene segno in questa confusione geografica, lotta contro la malattia e strumento della memoria, utopia impraticabile in cui I'immagine non riesce a nascondere la lettera, né la lettera lo spirito. Opicino insegna che è impossibile ignorare queste commistioni, che la carne del mondo non si può trascendere e che le parole non possono fare altro che immergervisi. In margine ad una carta, Opicino scrive:
"Sapere non è nient'altro che conoscere il sapore dello spirito, e sapere senza misura non è nient'altro che conoscere la carne e la lettera".

La vita di Opicino de Canistris

 In questa carta del Mediterraneo, disegnata da Opicino de Cani-stris in sovrapposizione agli isolati della città di Pavia, appare anche un osceno accoppiamento tra le figure allegoriche del Ca-prone (nel mare) e dell'Europa, raffigurata come una donna con un seno divorato dalla cancrena.


Opicino (Opizìn) de Canistris (Cavagna?) fu concepito il 27 marzo 1296, primo di cinque fratelli (ebbe due fratelli e due sorelle), e nacque il 24 dicembre, verso l'ora del tramonto, sotto il segno del Capricorno, a Lomello, in una famiglia assai vicina a quella dei conti di Langosco. Dall'autobiografia, disegnata all'età di quarant'anni in forma allegorica di canestro, possiamo trarre alcune indicazioni sulla sua vita. Di questa sua nascita, avvenuta la vigilia di Natale, gli parlarono quando aveva l'età di sette anni. Delle sue sorelle conosciamo anche i nomi: Reginetta e Sibillina.
Nell'aprile del 1300 cade e si spacca la fronte e la faccia: rimarrà segnato in volto per tutta la vita. Poi, da bambino, viene mandato a Biella. Nel 1305, egli ricorda che "iniziarono a Biella le avversità" per la sua famiglia. Non era di famiglia povera, dato che poteva studiare e che a meno di dieci anni fu fatto chierico dal vescovo, per solo titolo di patrimonio. Era piuttosto il figlio d'un "maggiordomo" della famiglia dei conti di Langosco, signori di parte guelfa che imposero, per qualche tempo, la propria autorità alla città di Pavia. Visse durante la sua infanzia tra Biella, Bassignana e Lomello. Iniziò da giovane a occuparsi di politica e ciò, unito alla data di nascita (la vigilia di Natale, che egli interpreta come un giorno particolarmente maledetto, legato alla figura dell'Anticristo: ante Christum = anti Christum), tormentò in seguito la sua coscienza di prete. Un sogno premonitore lo avverte di mettersi a studiare. L'anno dopo frequenta le scuole, prima a Lomello, poi a Bassignana, alla confluenza del Tanaro nel Po. Studia poco e riesce male in tutto, ma si scopre una vocazione naturale al disegno (mentre, ad esempio, non è assolutamente versato per il canto). Come scrive egli stesso, a dodici anni impara le "parolacce".
Nel 1310, visto lo scarso rendimento scolastico, la famiglia lo mette a riscuotere i pedaggi sul ponte che attraversa il Po, vicino a Bassignana. L'anno dopo "cresce in malizia" e comincia a sentirsi "legato ai vizi". Si ammala per tre mesi di febbre quartana. Nel 1314 smette di studiare per le ripetute malattie. L'unica attività nella quale appare versato è il disegno.
Nel 1313, a 16 anni, tenta di studiare canto, poi abbandona gli studi ufficiali e fa qualche pratica di cure mediche. è chiamato a Milano a curare il figlio d'un conte tedesco prigioniero, poi diventa insegnante privato di materie letterarie della figlia d'un signore di Pavia in esilio, probabilmente del conte di Langosco. Qui verso i 19 anni, ospite della moglie dello stesso signore e probabilmente innamorato di lei, si interessa di politica. Nella sua autobiografia, scrive che ha avuto dei contatti con "scomunicati e interdetti". In quei momenti infuriano, a Pavia e a Milano, le lotte tra Guelfi e Ghibellini (che a Pavia si chiamano, rispettivamente, Fallabrini e Marcabotti).
Opicino è del partito guelfo, amico dei Langosco, signori di Lomello e di Pavia; il 6 ottobre 1315 la città di Pavia cade in mano ai Visconti, per il tradimento di Marchetto Salerno. I Ghibellini uccidono Ricciardino Langosco in piazza San Giovanni (l'attuale piazza Borromeo). Opicino riesce a far fuggire le donne della famiglia Langosco, accompagna la madre delle sue allieve sino al monastero di Giosafat, oltre il Ticino, e dobbiamo supporre che non la veda mai più. L'anno dopo, egli stesso con tutta la sua famiglia è esiliato a Genova. Il padre, caduto in disgrazia, non può più garantire il mantenimento familiare. Così egli, come primogenito, si trova obbligato a lavorare. Fa il precettore e, scrive, "si dà ai piaceri della carne". Il 3 settembre 1316, egli ricorda, gli viene rivelata in sogno la visione dell'estremo giudizio. Impara a miniare libri, come sostegno economico per la sua famiglia. Nel 1317 un suo fratello, ancor bambino, viene ucciso per incidente. Alla fine d'ottobre muore suo padre. L'anno seguente, nell'aprile del 1318, con la madre, le sorelle e il fratello che gli resta, ritorna a Pavia e trova che la città, ormai in mano ai Ghibellini, è stata colpita da interdetto papale: vi è proibita la celebrazione di funzioni solenni e alcuni sacramenti non sono amministrati. S'impegna in lavori manuali, per vivere con la propria famiglia, e diventa devoto della vergine Maria. Alla fine dell'anno tenta d'ottenere gli ordini per diventare diacono ed è bocciato agli esami. Ottiene gli ordini minori a Bologna, nel marzo 1319, e il diaconato dal vescovo di Bobbio; nel febbraio 1320 è finalmente prete. Negli anni che seguono studia le "scienze divine" e scrive su diversi argomenti. Nel 1323, in ottobre, ottiene la cappellania di San Raffaele nella chiesa di San Giovanni in Borgo, ma dopo poco vi rinuncia e viene eletto alla parrocchia di Santa Maria Capella, con una rendita che finalmente, a 27 anni, dovrebbe permettergli la tranquillità economica, per sé e per la propria famiglia.
Nel frattempo va trattando argomenti divini in diversi libretti o trattati. La sua famiglia abita nella parrocchia di Santa Tecla ed egli, dalle finestre, domina l'Atrio di San Siro, cioè la piazza delle due Cattedrali, con la statua del Regisole. Scriverà un giorno, dall'esilio: "Nella nostra città di Pavia, sotto il piede anteriore sinistro d'un cavallo di bronzo che reca in groppa la statua del Regisole (o Raggisole), vi è un cagnolino che sembra mordere l'unghia del piede e guarda verso la casa dove abitavo io". Intanto Pavia vive dilacerata dalle lotte tra fazioni rivali, che si appoggiano ad analoghe fazioni milanesi e, in ultima istanza, rappresentano i partiti dell'Impero e del Papato. Nel 1322, Musso Beccaria e Galeazzo Visconti hanno assunto la successione dei genitori, Manfredo Beccaria e Matteo Visconti, nelle Signorie di Pavia e di Milano.
Puntuale, la scomunica che aveva colpito i padri si abbatte anche sui figli. Nel 1323, la cancelleria del Cardinal Legato di Piacenza si sobbarca a una gran fatica ed emana le liste dei nobili Marcabotti pavesi da scomunicare: fino a centocinquanta, appartenenti a settanta famiglie. Anche Guido da Vigevano, famoso ingegnere militare e medico personale del defunto imperatore Arrigo VII, viene colpito dalla scomunica. A Pavia le chiese sono sempre più vuote, i preti fuggono. Opicino è rientrato in città nell'aprile del 1318, ma è destinato a un nuovo esilio. Come Dante Alighieri, dovrà abbandonare per sempre la sua città.
La tranquillità finalmente raggiunta dura troppo poco: le rinnovate lotte fra Fallabrini e Marcabotti lo obbligano ad un nuovo, definitivo esilio. Nel luglio 1328 abbandona nuovamente Pavia, raggiunge Tortona, Alessandria e Valenza. Qui il 3 agosto si ammala "per languore" ed è dato per spacciato. Invece guarisce e fa pratica ad amministrare quei sacramenti che a Pavia erano interdetti. L'anno dopo, ad aprile, giunge ad Avignone, alla corte del papa Giovanni XXII. Per un mese è occupato a miniare un libro d'un protonotario del papa, poi mendica coi clerici poveri. Papa Giovanni XXII vede il libro da lui miniato e lo assume come miniatore. Tuttavia, la sua scarsa competenza nelle cose ecclesiastiche lo conduce ad essere accusato di falsità. Deve astenersi totalmente dalle cose divine e non ottiene comprensione né dai penitenziari né dal penitenziario maggiore. Infine, dopo mille difficoltà, viene assolto dal camerario del papa. Più volte invia suppliche al signor papa e più volte egli le riceve, per poter comparire alla sua presenza, ma non riesce nell'intento.
Nel 1330, a 33 anni (l'età di Cristo), si sente predestinato a cose grandi. In sogno, ha un'apparizione dell'Eucaristia. Poi scrive un libretto con la descrizione e le lodi di Pavia, invocando il Papa perché ritiri l'interdetto sulla sua città. Il libretto, a lungo conosciuto come opera d'un "anonimo Ticinese", viene concluso il 19 settembre 1330. Con Opicino, in quegli anni, ci sono diversi preti pavesi alla corte d'Avignone. Conosciamo i nomi di Pietro da Pavia e Uberto d'Antonio, dell'arciprete Giacomo de Trivilla e del vicario generale della diocesi di Pavia, Giovanni Mangano, originario di Valenza. Le accuse contro di lui non vengono mai ritirate, nonostante la condiscendenza papale. Quattordici testimoni, più o meno, si dichiarano a favore della sua causa. Per diversi anni rimane contro di me la mozione della questione, che quasi mai da allora cessa, per un triennio, se non casualmente. Ciò l'obbliga a spendere tempo e denaro per discolparsi. I suoi principali accusatori sono, probabilmente, proprio quei prelati pavesi da cui egli sperava aiuto. Ciò motiva, almeno in parte, le sue invettive contro la città e i suoi abitanti. Intanto, per interessamento del papa, la sorella minore viene accolta in un monastero pavese.

 Autobiografia di Opicino de Canistris.


Il 31 marzo 1334 lo colpisce una nuova malattia, rimane muto e paralizzato ed è dato per moribondo. In giugno ha di sera un'apparizione, sulle nubi. In agosto gli appare in sogno la Madonna e comincia a guarire, benché muto e debole nella parte destra. Il 4 dicembre muore papa Giovanni XXII. Il 1° gennaio del 1335 viene eletto il nuovo papa, Benedetto XII. La mano destra di Opicino recupera la sua funzionalità. Il 25 aprile del 1335 muore sua madre, cui egli era sempre stato fortemente legato e che aveva portato con sé ad Avignone. Nel 1336 viene risollevata contro di lui la vecchia denuncia, che l'obbliga nuovamente a forti spese. Infatti la redazione dei due codici di disegni che conosciamo può essere motivata come una sua memoria, grafica più che letterale, di discolpa di fronte al tribunale papale, nella causa intentatagli contro.

Nei disegni del codice Vaticano Latino 6435 appaiono le coste dell'Europa e del Mar Mediterraneo. I continenti e il mare sono animati da figure allegoriche: frati, guerrieri, donne e - nel mare - un immenso satiro dagli evidenti attributi sessuali. L'Europa, in particolare, cambia da una tavola all'altra e - da donna casta e pura - si trasforma in meretrice oscena e ammalata, che si accoppia con un satiro o Caprone, raffigurato nelle forme del Mar Mediterraneo: è la Grande Meretrice, allegoria della Chiesa in decadenza. In alcune di quelle tavole, la pianta di Pavia si sovrappone alla carta geografica e la corrispondenza di punti nel territorio con parti dei corpi allacciati si fa più densa di contenuti, in una rappresentazione quasi parossistica. Questi sono forse tra i più noti e studiati dei disegni di Opicino, proprio per i riferimenti alla cultura cartografica della sua epoca e alla topografia cittadina. La sequenza delle tavole potrebbe essere letta in chiave diacronica, quasi come un film. Non desideriamo però spingerci oltre in tale lettura, che a nostro avviso richiede ancora importanti approfondimenti.
Il codice Palatino Latino 1993 è composto di 52 disegni, ricchi di notazioni teologiche, astrologiche, storiche e geografiche. Il codice contiene, tra l'altro, la celebre veduta delle due cattedrali romaniche di Pavia e l'autobiografia dello stesso Opicino, disegnata come un grande canestro, a cerchi concentrici di vimini. Ricordiamo in particolare come le autobiografie, a quell'epoca fossero generalmente concepite come elementi di discolpa di fronte agli accusatori. Opicino riversa in disegni tutta la propria sapienza per esporre tutto sé stesso, per dimostrare di essere un prete, un prete pavese, educato nella Chiesa e affezionato alle proprie tradizioni e alla propria terra.
Si divertiva a studiare le leggende celtiche e longobarde ed a trascriverle in latino. Scrisse di non aver mai visto, vivi, né un lupo adulto né un leone né un cinghiale o altre fiere, pur avendo visto delle belve già morte. E aggiunse: "Cresciuto fra bestie viziose, sono stato preservato dall'incontrare le belve della natura".
Poco sappiamo del seguito della sua vita: malato, Opicino deve aver perso il suo posto di miniatore ed aver trascorso gli ultimi anni della sua vita ad Avignone, vecchio pensionato memore della sua Pavia per sempre irraggiungibile e di quella effimera promessa di gloria che aveva vissuto, da giovane, all'ombra della famiglia Langosco. A nulla approdano le sue ricerche astrologiche, con cui tenta d'interpretare le sorti proprie e della "sua" città. Deve essere morto nel 1352, o non molto dopo, a poco più di 55 anni.
Era stato concepito due giorni dopo il miracoloso concepimento di Cristo, ma era nato il giorno prima di Natale: tutti segni evidenti, a suo avviso, di una missione divina.



Note:
(1)
Santa Maria Capella era detta anche Santa Maria Lintarda o Leutarda, perché fu fondata nel sec. XIII da un prete Leutardo o, secondo un'altra versione, della famiglia Lintarda (v. P. ROMUALDO DA S. MARIA, Flavia Papia Sacra, Ticini, 1699, parte I, p. 127, e G. ROBOLINI, Notizie appartenenti alla storia della sua Patria, Pavia, 1823-38, t. II, nota DD). Secondo Padre Romualdo l'attributo "Capella" non significava "cappella", ma derivava dal nome della famiglia Capelli. Era una chiesa con tre navate, che si affacciava aul lato orientale di una piazzetta-sagrato, tuttora visibile nella parte bassa di via Rezia. Il suo parroco aveva anche il titolo di Rettore. Nel 1692 vi si stabilirono i Padri Crociferi, che iniziarono la costruzione dell'imponente convento adiacente e rinnovarono parzialmente la chiesa, pur mantenendo parte delle antiche strutture. Nel 1789 quell'ordine fu soppresso e i fabbricati, acquistati dalla noblie famiglia Beccaria, furono trasformati in case di abitazione. Cfr. anche E. GIARDINI, Memorie topografiche, Pavia, 1872, p. 105 e nota 133.
(2) Apoc., 9, 7-10.

di Alberto Arecchi
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