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Le grandi piramidi d'Egitto furono costruite con blocchi di pietra
riagglomerata, ossia con un calcestruzzo, un impasto di frammenti
di pietra calcarea naturale con una sostanza legante?
Tale è la teoria del professore francese Joseph Davidovits,
super-esperto nel campo dei geo-polimeri, membro dell'Associazione
internazionale degli Egittologi. L'ingegner Davidovits, autore d'importanti
ricerche sulla chimica dei materiali e sulle reazioni polimeriche
(cementi, leganti), ha iniziato nel 1975 un lungo studio sulle tecnologie,
le ricerche minerarie e alchemiche degli antichi Egizi, nell'intento
di risolvere alcuni dei cosiddetti "misteri delle Piramidi".
Nel 1988 ha raccolto le proprie considerazioni nel volume They have
built the Pyramides ("Hanno costruito le Piramidi", seconda
edizione nel 1990), e nel 2002 ha pubblicato il suo libro in francese
presso l'editore Godefroy, col titolo Ils ont bâti les Pyramides:
un ponderoso volume, nel quale condensa le proprie ricerche e risponde
anche alle polemiche che le hanno accompagnate nel tempo.
La teoria di Davidovits si appoggia su una serie di prove archeologiche,
e sull'interpretazione di alcuni testi geroglifici che si riferiscono
alla costruzione dei giganteschi monumenti. Nessuno ha mai saputo
dire, sinora, una parola definitiva su come facesse una civiltà,
che non conosceva ancora l'uso dei metalli, a lavorare con la massima
precisione le pietre più dure e a sollevare enormi blocchi
di calcare sin sulla punta delle piramidi, ad oltre 140 metri d'altezza.
L'osservazione che più fece scalpore, una decina d'anni fa,
fu il ritrovamento di fibre organiche (peli o capelli?), insieme
a bolle d'aria e a pezzetti d'intonaco colorato in rosso, all'interno
di un blocco calcareo della Grande Piramide.
Nell'antico Egitto si venerarono due distinte divinità preposte
alla creazione del mondo, due dèi contrapposti l'uno all'altro,
ciascuno dei quali conobbe la propria epoca di splendore.
Il primo dio creatore fu Khnum, venerato da Cheope (tanto che il
nome del dio appare nel cartiglio insieme a quello del Faraone,
che si faceva chiamare "Khnumu-Khufu"). Era il dio della
pietrificazione, dei vasai che compivano la propria opera agglomerando
l'argilla, così come dell'agglomerazione della pietra artificiale,
usata per le piramidi. Khnum fu considerato il dio creatore dal
3000 al 1800 a.C.: si riteneva che avesse impastato l'umanità
dal limo del Nilo, usando il natron e la mafkàt. Con tali
manipolazioni non si producevano mattoni d'argilla, ma una vera
e propria "pietra artificiale".
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Statua di Khafra in diorite nera |
Il natron è un sale - carbonato di sodio - che si trova in
Egitto allo stato naturale, in particolare sul fondo e sulle sponde
d'alcuni laghi. E la mafkat? Si tratta d'un gruppo di minerali di
rame (silicati idrati, come la crisocolla), di colore verde-blu
chiaro, simili al turchese, che gli Egizi estraevano dalle miniere
del Sinai e che potevano essere usati come catalizzatori per le
reazioni chimiche di "riaggregazione" delle pietre dure.
Nei giacimenti di minerali di rame, si trova una gran quantità
di minerali derivati dall'alterazione del metallo: solfati, arseniati,
fosfati e silicati di rame. Tutti sono di colore bluastro o verdastro.
Il secondo demiurgo fu Amon, che s'impose al grande culto 1500 anni
dopo (verso il 1600 a.C., all'epoca del Nuovo Impero), venerato
da Ramses II. Era il dio dell'Alto Egitto, che creava il mondo intagliandolo
nella pietra viva, materia prima per fare templi e obelischi.
Per quelle due grandi correnti religiose, in concorrenza tra loro,
la manipolazione della pietra (che fosse materia riagglomerata o
scolpita) era un gesto sacro, che ripeteva l'atto della creazione
dell'uomo. La materia degli Dèi, per gli Egizi, era la pietra,
mentre per i Greci fu l'oro (Krysós). Questo fatto, secondo
Davidovits, generò anche un equivoco, perpetuatosi nei secoli
nelle tradizioni degli Alchimisti: essi cercavano di rigenerare
il corpo divino, e ottenevano regolarmente pietra, mentre erano
convinti di dover ottenere oro, perché la cultura alessandrina,
di un tardo Egitto ormai grecizzato, aveva spostato i termini interpretativi
del loro sapere e dei loro segreti.
Sin dalla remota antichità, le ricerche di minerali e il
loro trattamento col calore generarono i procedimenti dell'Alchimia.
Tali ricerche dovettero naturalmente condurre alla scoperta della
pietra conglomerata, o rigenerata, prima che non alla fusione dei
metalli (poiché il primo procedimento richiede una temperatura
inferiore al secondo:gli smalti si possono ottenere a temperature
di 600°-700° C, mentre il rame fonde a 1083° C, o eventualmente
un po' più bassa, grazie all'uso di sostanze "fondenti"
come il natron).
Pertanto, le ipotesi di Davidovits sono tutt'altro che astoriche
o incredibili.
Una gran quantità di vasi in "pietra", che si ritrovano
nelle tombe dell'antico Egitto, appaiono realizzati in pietre durissime
e di difficilissima lavorazione: microgrès o scisto metamorfico,
gneiss anorthositico, andesite, basalto, breccia. Oggetti indistruttibili
e misteriosi, ritrovati in quantità enormi (decine di migliaia).
Negli stessi materiali, gli antichi Egizi plasmavano statue, lisciate
con una perfezione che appare irraggiungibile anche con l'uso di
tecniche moderne. Alcuni oggetti lavorati in pietra durissima sono
addirittura anteriori all'estrazione di metalli idonei per la loro
lavorazione. Anzi, paradossalmente, la lavorazione di vasi in pietra
dura scompare all'epoca in cui si diffondono strumenti in bronzo
e in ferro. All'uso di strumenti metallici, corrisponde la lavorazione
di materiali più teneri, quali l'alabastro, la steatite,
il talco.
Davidovits ritiene che le opere di "pietra dura" siano
in realtà oggetti plasmati o lavorati al tornio, con un materiale
litico ricomposto, fatto di un inerte e un legante, che si modellava
come la creta o l'argilla. L'effetto finale è quello di una
pietra durissima, ma la lavorazione di quei vasi - secondo l'elegante
dimostrazione di Davidovits - non fu fatta con trapani e altri arnesi
di scultura, bensì con gli attrezzi e le tecniche tipiche
di chi modella e plasma un materiale plastico, per poi farlo indurire.
Davidovits riporta anche il caso delle sculture d'Akhenaton e di
Nefertiti, appartenute alla cosiddetta "collezione Mansùr".
Una serie di perizie successive hanno dichiarato l'autenticità
storica e archeologica di tali sculture, mentre altre, apparentemente
contraddittorie con le prime, sostengono che esse non sono scolpite
in pietra, ma realizzate con un surrogato litico artificiale, e
forse addirittura modellate sulla maschera dei volti dei soggetti
rappresentati... il che corrisponde esattamente alle tesi sostenute
dal nostro autore!
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Vasi di pietra ritrovati nelle tombe egizie ©Davidovits |
Davidovits individua le seguenti cinque tappe nel progresso della
ricerca alchemica:
- la scoperta dello smalto (collegato alla scoperta del rame nei
suoi minerali), ca. 4000 a.C. Si trovano smalti brillanti realizzati
intorno al 3800 a.C.
- l'uso per l'auto-smaltatura delle statuette della soda caustica,
ottenuta dal miscuglio natron-calce, ca. 3600 a.C.
- la scoperta del silicato di sodio, ca. 3600 a.C.
- l'agglomerazione della pietra grazie al turchese, usato come catalizzatore,
ca. 3600 a.C.
- l'agglomerazione dei calcari alluminosi, per la costruzione di
grandi blocchi, con soda caustica (arch. Imhotep, "inventore"
delle grandi piramidi), ca. 2700 a.C.
Quali sono le prove addotte dall'ing. Davidovits per la sua teoria
sulla costruzione delle Piramidi?
Il calcare nummulitico della piana di Gizah, usato per realizzare
le grandi piramidi, è una pietra fossilifera. Nei giacimenti
di tale roccia, le minuscole conchiglie riposano tutte "orientate",
nella posizione che assunsero quando si depositavano in fondo al
mare. Nei blocchi delle piramidi, invece, il loro orientamento è
disordinato, casuale, e denota l'uso di pezzi di calcare come "inerte",
in un impasto riaggregato. Il calcare di Gizah, secondo Davidovits,
è la pietra più indicata per la sua "ricomposizione
artificiale". Infatti è tenero e, macerato in acqua,
si disaggrega con facilità (la massa diviene una specie di
fanghiglia, mentre le conchiglie in esso contenute rimangono intatte,
come ciottoli). In particolare, esso contiene una piccola quantità
di "ingredienti geo-polimerici naturali e reattivi", come
l'argilla con caolino, indispensabile per la reazione di presa con
la soda caustica. Questa si può ottenere, mescolando semplicemente
alla fanghiglia calcarea un po' (1%) di natron (sale che si trova
in Egitto allo stato naturale) e un po' di calce (2%).
Sulla scia dei procedimenti alchemici usati per fare i vasi di pietra
dura, pare che l'architetto del faraone Zoser, il celebre Imhotep,
che in seguito fu divinizzato, abbia scoperto il modo di "costruire"
blocchi di pietra artificiale, sfruttando le particolari proprietà
del calcare di Gizah, mescolato in giuste proporzioni col natron
e con la calce. I titoli ufficiali di cui si fregiava Imhotep erano:
Cancelliere del Basso Egitto, Primo ministro del Re nell'Alto Egitto,
Amministratore del gran palazzo, Medico, Nobile ereditario, Gran
Sacerdote di Anu (Eliopolis, per i Greci), Architetto capo del Faraone
Zoser, Scultore e "fabbricante di vasi di pietra". L'autore
suppone che, nel tentativo di rinforzare e "stabilizzare"
i mattoni d'argilla cruda che erano di uso generale per le costruzioni,
Imhotep scoprisse le particolari proprietà dell'impasto calcare+argilla
caolinitica+natron+calce, e le sfruttasse per la costruzione della
Piramide a gradoni del Faraone Zoser, e poi per quelle ancor più
straordinarie della Piana di Gizah.
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Esempio di blocco a forma piramidale realizzato con la tecnica elaborata da Davidovits ©www.geopolymer.org |
Così, in una ventina d'anni i Faraoni avrebbero ben potuto
realizzare i due milioni e mezzo di blocchi di pietra calcarea,
del peso compreso tra 2 e 30 tonnellate ciascuno, necessari all'impresa
di costruzione delle grandi piramidi. I blocchi sono ben connessi,
in modo che le loro superfici combacino perfettamente (il che appare
ovvio, quando si cominci a pensare a blocchi "gettati in opera",
per i quali i blocchi già fatti servissero da casseforme).
Il volume delle pietre "realizzate" in soli quarant'anni
(quaranta milioni di metri cubi di pietra calcarea) avrebbe uguagliato
quello delle pietre "cavate" e poste in opera per i monumenti
dei 1500 anni successivi.
Molte altre considerazioni di Davidovits collaborano ad appoggiare
le sue tesi: dal microclima che si trova all'interno delle piramidi,
alla distribuzione delle misure e dimensioni dei blocchi sui diversi
strati delle costruzioni.
Certo, gli elementi più sorprendenti sono: le dimensioni
del "sarcofago" di Cheope, all'interno della Camera del
Re della Grande Piramide, la presenza nella Valle dei Re d'un grande
sarcofago in sienite rossa (oggi al Museo del Louvre), di dimensioni
maggiori della stretta gola d'ingresso alla Valle, e la presenza
nella piana delle Piramidi, nei templi funerari di Khefren e di
Menkaure (Micerino), di blocchi calcarei dalle dimensioni veramente
spropositate, alti 2-3 matri e pesanti sino a 500 tonnellate.
Davidovits smonta, ad una ad una, le "prove" dei sostenitori
delle tesi tradizionali, che vorrebbero le piramidi costruite da
una miriade d'uomini, affannati a trascinare blocchi con rulli di
legno su lunghissime rampe inclinate.
I blocchi delle piramidi sarebbero invece composti da un 90-95%
di calcare naturale con conchiglie fossili, e da un 5-10% di leganti
geologici naturali (cementi "geo-polimerici"). Una tecnica
di fabbricazione molto simile a quella del nostro calcestruzzo,
in cui la soda caustica, ottenuta dalle particolari composizioni
dei minerali impiegati (mafkat e natron), prendeva il posto del
nostro cemento d'altoforno.
Anziché 100.000 uomini, affaccendati per tutto il giorno
su un arco di quarant'anni, secondo le teorie di Davidovits sarebbero
bastati 1.400 operai e vent'anni di lavoro per costruire la Grande
Piramide; e il problema del "sollevamento dei blocchi"
non si porrebbe più, poiché questi sarebbero stati
gettati in opera, e il trasporto del materiale incoerente si può
effettuare con sacchi, ceste o altri recipienti d'ogni sorta.
Rimarrebbe il problema della fabbricazione della calce, che l'autore
risolve elegantemente con l'osservazione che la cenere di canne
e papiri è ricca d'Ossido di Calcio (calce viva). Egli suppone
quindi che, nel periodo di costruzione delle piramidi, si praticasse
la raccolta generalizzata delle ceneri, da tutti i forni per il
pane dell'intero Egitto. Così si sarebbero potute fornire
dalle 7.200 alle 36.000 tonnellate di calce l'anno.
D'altra parte, è ben noto che le grandi volte e cupole dell'Antichità
fossero costruite con la tecnica del calcestruzzo: citiamo gli esempi
del Pantheon, della Basilica di Massenzio, della Basilica di Santa
Sofia a Costantinopoli. I Romani, in particolare, usavano malte
e calcestruzzi fatti con la pozzolana, una roccia d'origine vulcanica,
che permetteva loro di costruire moli e opere portuali capaci di
resistere nei secoli all'aggressione chimico-fisica delle acque
del mare.
Davidovits espone anche lo studio di questi casi, insieme alle proprie
ipotesi sulle Piramidi d'Egitto, nel suo ricco sito internet http://www.geopolymer.org/archaeo.
Dal sito è possibile scaricare anche un filmato, realizzata
in Francia nel corso del 2002, che mostra la fabbricazione sperimentale
di alcuni blocchi di "calcare piramide".
di Alberto Arecchi
liutprand@iol.it
www.liutprand.it
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