Essere superstiziosi, cioè credere nell'influsso di elementi
magici o soprannaturali sull'andamento delle vicende quotidiane,
potrebbe sembrare un atteggiamento dello spirito del tutto superato
nel nostro tempo, ora che le scoperte della scienza ed il livello
tecnologico elevato hanno rivelato la vera origine di tanti fenomeni,
eliminato molte convinzioni ed idee sbagliate, chiarito parecchie
"zone d'ombra", consentito grandi conquiste. L'uomo però,
non è un essere rigorosamente razionale e logico, ma un insieme
di intelletto e sentimenti, ragione ed istinti, valori e pulsioni:
quando egli si trova in uno stato di maggiore vulnerabilità
emotiva, o in situazioni stressanti ed angoscianti, ecco che entrano
in gioco l'ansia, il desiderio, e soprattutto la paura, e prevalgono
piuttosto l'irrazionalità e l'affettività. La paura
(di perdere la vita, la salute, l'amore, le proprie sicurezze, di
non superare certe prove), elemento fondamentale del vitale istinto
di conservazione, ha la funzione, prospettandogli i pericoli, di
mettere l'individuo in condizione di adottare, di volta in volta,
il comportamento più idoneo per vincerli e superarli. Contrariamente
all'animale, che reagisce istintivamente al momento, l'essere umano
è capace di prefigurarsi mentalmente i pericoli, siano essi
reali o immaginari: se li considera al di sopra delle proprie forze,
o la sua ansia di fronte ad essi raggiunge livelli troppo elevati,
quasi per esorcizzarli si abbandona alla credenza, al rituale magico,
alla pratica superstiziosa, cioè ad una risposta inadeguata,
irrazionale, ma rassicurante, che ha lo scopo di allontanare eventi
infausti o propiziarsi un destino favorevole. Questi non sono altro
che ciò che rimane, che sopravvive, di religioni anteriori,
frammenti cioè di un insieme organico di idee, tradizioni,
convinzioni, ora sorpassate, che guidavano la vita ed il comportamento
di molti popoli dell'antichità.
Un tempo, invero, la visione del mondo era molto più religiosa
ed unitaria della nostra: ogni elemento era una parte del tutto,
e qualsiasi variazione, cambiamento, evento particolare intervenisse
a modificare la situazione in atto, poteva diventare un segno, annunciatore
di qualcosa che stava per accadere, forse inviato dalla divinità
perchè l'individuo potesse prendere le sue precauzioni:"Si
pensava che infiniti fossero i mezzi con i quali essa divinità
poteva dare avvertimenti e mettere in guardia; l'inciampare, il
canto di una cornacchia o di un gufo, un cattivo incontro, una parola
casualmente udita, un sogno infausto, un'anfora d'olio che si rovesciasse
per terra, tante altre inezie potevano avere valore di presagio.
Solo gli irreligiosi, escludendo ogni intervento provvidenziale
della divinità nella vita dell'uomo, negavano il presagio
ed irridevano le superstizioni" (1).
L'uomo viveva quindi immerso in un mondo di segni, che, decifrati
attraverso il simbolismo e l'analogia, gli consentivano di adottare
comportamenti adeguati, e, con l'aiuto di oggetti magici, specifici
per le varie situazioni, gli amuleti ed i talismani, di evitare
pericoli e guai e predisporsi una vita più serena e fortunata.
Già nelle caverne sono visibili raffigurazioni preistoriche
di tipo magico-religioso, volte a provocare il terrore nei nemici
o a propiziare la caccia e quindi il benessere del gruppo.
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Zeus che tiene in mano il fulmine (da: Boardman, 1992, p. 63, fig.55,1) |
Gli Egizi utilizzavano immagini magiche, formule, incantesimi per
difendersi da influenze maligne, o anche per procurare sventure
e mali ai nemici. Potevano poi contare su un'ampia scelta di amuleti:
l'Ankh, il nodo di Iside, l'occhio di Horus, l'Ureo o cobra sacro,
lo Scarabeo, il pilastro Ded, ecc.
I Greci osservavano i prodigi, gli eventi insoliti, i fenomeni anomali,
ne traevano presagi, e regolavano su quelli le loro scelte e le
loro decisioni, influendo persino sul corso della storia, come nel
caso della spedizione ateniese in Sicilia comandata da Nicia: troppo
fiducioso nei pareri degli indovini sulla eclissi di luna verificatasi
il 27 agosto del 413 a. C., egli ritardò la ritirata dei
suoi soldati, causandone l'annientamento.
I Romani, per natura, avevano uno spirito pratico e concreto; tuttavia
la divinazione era importante per loro, in quanto indicava la volontà
degli dei circa l'opportunità o meno di intraprendere una
impresa, di adottare un certo comportamento. La stessa nascita della
città di Roma è legata ad un presagio: "Si dice
che un presagio, sei avvoltoi, sia giunto per primo a Remo; ed essendo
già stato annunciato, quando a Romolo se ne mostrò
un numero doppio, i due gruppi abbiano proclamato re entrambi, gli
uni basavano la loro pretesa al regno sulla priorità temporale,
gli altri sul numero degli uccelli. Si venne ad una lite e si passò
da parole rabbiose a fatti di sangue. E' più popolare la
variante secondo cui Remo, per deridere il fratello avrebbe oltrepassato
le nuove mura e sarebbe stato ucciso dall'irato Romolo che avrebbe
aggiunto le parole: 'Così muoia chiunque altro, da ora in
poi, osi oltrepassare le mie mura.'Romolo quindi si impossessò
del potere da solo e la città appena sorta fu chiamata con
il nome del suo fondatore" (2).
Certamente forte è stata l'influenza etrusca, greca ed in
particolare delle culture e religioni orientali, per cui ai tradizionali
aruspici, che traevano responsi dalle viscere delle vittime sacrificate
ed agli auguri, i cui pronostici si basavano sulla osservazione
del volo degli uccelli, si aggiunsero maghi, indovini, astrologi
o "Caldei. Incredibile divenne il numero delle superstizioni
che si diffusero nell'Urbe:"Era presagio di sventura se un
cane nero entrava in casa, o una serpe cadeva dal tetto nella corte,
se una trave di casa si spaccava, se si rovesciava vino, olio, acqua;
se si incontravano muli carichi di ipposelino, erba che era ornamento
dei sepolcri; se un topo faceva un buco in un sacco di farina. Peggio
se un simulacro divino sudava sangue, se dei corvi beccavano l'immagine
di un dio..." (3).
Si doveva fare attenzione, durante le cerimonie religiose, i banchetti
ad evitare azioni di cattivo augurio (starnutire, far cadere qualcosa,
nominare i fulmini..), e sperare di notte di non fare sogni che
presagissero eventi negativi.
In una citta dove era facile che si sviluppassero incendi (l'illuminazione
notturna era ottenuta con fiaccole e bastava un pò di vento
per provocare ed alimentare roghi ) era importante allontanarne
il pericolo scrivendo sulla porta della casa la parola arseverse
(forse da averte ignem, cioè "contro il fuoco").Anche
i lampi e i fulmini facevano paura, e in quel caso si usava emettere
un sibilo, fischiare.
Nei confronti delle ombre, dei "fantasmi", i Lemures,
si adottano particolari rituali. In occasioni delle feste Lemurie,
il paterfamilias a mezzanotte, a piedi nudi, schioccando le dita,
mette in bocca delle fave nere, e poi le butta dietro le spalle
pronunciando per nove volte le parole:"Le gitto e me redimo
e i miei con queste fave!" e ancora "Ombre degli avi uscite".
(4)
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Pendente a forma di lunula. I-II se. d.C. (da: L'oro dei Romani, Roma, 1992, p.173) |
Ambivalente il rapporto con il lupo, che da un lato è datore di vita e di fecondità (la lupa che nutre i gemelli Romolo e Remo; l'animale totem del Ver Sacrum; la barba di lupo che si attaccava dietro la porta per salvarsi dai sortilegi), dall'altro è legato al mondo degli inferi, alla violenza, alla malvagità. C'era la credenza nella possibilità che alcuni uomini potessero trasformarsi in lupi e di notte andassero a seminare morte e terrore negli ovili. Tali esseri (versipelles, cioè capaci di mutare, di trasformarsi, o anche lupi hominari, da cui "lupi mannari") sono descritti da vari autori, come Ovidio, che così narra la trasformazione di Licaone, re di Arcadia, il quale, in onore di Zeus, uccise un giovinetto e si cibò delle sue carni:
"Egli fugge sgomento, nei campi
silenziosi s'inoltra, forte urla e si sforza a parlare,
ma non riesce: la bocca gli prende la rabbia dal cuore,
e dell'usato macello bramoso si volge nel gregge,
gode tuttora del sangue. Le braccia diventano gambe;
l'abito, pelo, ed è lupo..." (5).
Nel "Satiricon" di Petronio, Nicerote racconta che una
volta chiese ad un forte soldato di accompagnarlo a casa di una
amica; così al primo canto del gallo, sotto i raggi di una
luna chiara, si misero in cammino e giunsero in un cimitero. Quì
il soldato si avvicinò ad una lapide per un bisogno, quindi
si spogliò, ed ecco che diventò un lupo e poi sparì
nella vicina selva. Nicerote, terrorizzato, malgrado la paura, riesce
a giungere dalla sua amica che gli dice: "Se solo fossi arrivato
un po' prima, almeno ci avresti dato una mano: un lupo è
entrato nel recinto e ci ha massacrato tutte le pecore come un macellaio.
Comunque, anche se è riuscito a scappare, non ha da stare
allegro, perché un nostro servo gli ha trapassato il collo
con la lancia".(6) Una volta rientrato a casa, Nicerote
trova il soldato a letto con un medico al suo capezzale che gli
cura il collo ferito: "Allora mi rendo conto che è un
lupo mannaro e da quel giorno non ho più mangiato con lui
manco un tozzo di pane, nemmeno a costo della vita". (ibid.)
Per quanto riguarda le date, i Romani dedicavano il mese di febbraio
alla purificazione ed alla lustrazione (februus = purificante);
il 14 marzo cacciavano dalla città un vecchio coperto di
pelli, Mamurio Veturio, il vecchio marzo, che simboleggiava l'anno
vecchio, per aprire le porte alla Primavera; il 21 aprile, in onore
della dea Pale, compivano rituali ed offerte in senso di espiazione
e propiziazione, pregavano, accendevano fuochi su cui i pastori
saltavano sfidandosi; ritenevano nefasto sposarsi nel mese di maggio,
perchè, come dice Plutarco, esso era dedicato alla cerimonia
di purificazione più importante dell'anno, quella degli Argei,
bianchi fantocci che venivano gettati nel Tevere, probabilmente
quali sostituti dei vecchi della comunità o dei prigionieri
di guerra sacrificati in origine; consideravano non fausto il periodo
9-15 giugno, dedicato alle Vestalia, feste in onore della dea Vesta,
durante le quali si spazzavano e si ripulivano i templi; il 23 agosto
sacrificavano dei piccoli pesci a Vulcano, dio del fuoco, probabilmente
per scongiurare, con degli animali che vivevano nell'acqua, il pericolo
d'incendi che nei giorni più caldi dell'anno avrebbero potuto
distruggere granai e raccolti; il 13 settembre, nel Tempio Capitolino,
presso la cella di Minerva, piantavano un chiodo allo scopo di impedire,
bloccandolo, che un evento rovinoso - carestia, inondazioni, epidemie
- potesse colpire la comunità (in seguito i chiodi infissi
nel tempio divennero un sistema di computo del tempo); in ottobre
purificavano le armi, al termine delle campagne di guerra.
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Mano votiva in bronzo (da: Il Gioiello nei secoli, Milano 1969, p. 156) |
Consideravano infausti il secondo giorno del mese, le none (quinto
o settimo), le idi (tredicesimo o quindicesimo); ritenevano favorevoli
i numeri dispari, specialmente il tre ed i suoi multipli, al contrario
di quelli pari.
Anche la nostra diffidenza nei confronti dei numero 17 passa dall'antica
Roma.
Dal punto di vista matematico il 17, numero primo (cioè divisibile
solo per 1 e per se stesso), segue immediatamente il 16, che si
può anche intendere come 2 elevato alla quarta potenza o
come il risultato di 4 x 4, ed è geometricamente rappresentabile
come un quadrato formato da sedici componenti, quattro per ogni
fila, sia orizzontale che verticale, 4 per ogni lato, 4 per ogni
diagonale: in tal caso, l'aggiunta di un elemento in più,
ovunque lo si voglia collocare, significa turbare, compromettere
la compattezza, la solidità, la regolarità del quadrato
e lo si può quindi intendere come un elemento di disturbo,
di squilibrio, di instabilità, pertanto negativo. I Pitagorici
lo chiamavano "ostacolo" ed era per loro, a detta di Plutarco,
il numero che avevano più in odio. In Egitto è nel
diciassettesimo giorno del mese di Athyr che muore il grande dio
Osiride; anche il biblico Diluvio Universale inizia il giorno 17
del secondo mese. A Roma, seguendo il sistema di scrittura dei numeri
allora in uso, il 17 si scriveva XVII, che anagrammato si può
leggere VIXI, cioè vissi, ho vissuto, al passato e non nel
tempo presente... (7)
Numerosissimi e di varia natura ed aspetto gli amuleti, capaci "di
preservare dalle malattie e dai malefici e di stornare i cattivi
influssi...La maggior parte degli amuleti in pietra e in metallo
veniva portato sotto forma di gioielli ed ornamenti da collo come
collane o pendenti isolati (Bulla,Ruota), oppure come braccialetti
ed anelli. Oltre alle Bulle erano molto diffuse le Lunule (pendagli
a forma
di crescente lunare) ed i Crepundia, medaglioni-sonagli (crepitacoli)
di varia forma, che si appendevano al collo dei bambini per tenere
lontani i demoni con il suono delle pietruzze in essi contenute"
(8).
Le pietre preziose hanno, ciascuna, una specifica valenza magica
e campo d'applicazione, come afferma anche Plinio, che dedica un
intero libro, il 37°, della sua Naturalis Historia alle pietre
preziose e semipreziose ed alle loro caratteristiche ed ai rispettivi
"poteri": l'agata sarebbe efficace contro i morsi di ragni
e scorpioni; l'ambra un valido rimedio contro gonfiori delle tonsille
e del collo; l'ametista, come lo smeraldo, preserverebbe dall'ebbrezza,
allontanerebbe le tempeste e contrasterebbe i veleni; e così
via.
Su pietre preziose o semipreziose venivano poi incise immagini di
divinità protettrici, come Venere, Mercurio, Eros, la Fortuna;
di oggetti benauguranti; di animali forti e combattivi come l'orso,
il leone, l'aquila.
Sono state poi ritrovate numerose gemme, note come "Gemme Gnostiche".
"Si tratta di pietre così definite in quanto nelle iscrizioni
che quasi sempre vi compaiono, si pensò di aver individuato
elementi di quella dottrina filosofico-religiosa nota come 'Gnosticismo'.
Le iscrizioni in lettere greche comprendono vocaboli, frasi o formule
di oscuro significato magico, insieme a segni cabalistici o addirittura
alchemici..." (9).
Le pietre più comunemente usate furono il diaspro di vari
colori e il calcedonio. Tra le parole che vi erano incise più
frequentemente Abraxas, Iaw e, fra le figure, il dio sole Helios,
Arpocrate, Anubi dalla testa di sciacallo, ed il serpente cosmico
Ouroboros, che si morde la coda a formare il cerchio che non ha
inizio nè fine, l'eternità.
Note:
(1) Paoli U., Vita Romana, Firenze 1962, p. 635.
(2) Livio, Ab Urbe Condita, I, 7.
(3) Paoli U., Vita Romana, Firenze 1962, p. 635.
(4) Ovidio, Fasti, V, vv. 429 - 444.
(5) Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 232 - 237.
(6) Petronio, Satiricon, LXII.
(7) Ai giorni nostri, quando il 17 si accompagna al venerdì
(una volta dedicato alla dea della bellezza e dell'amore Venere,
ma con il Cristianesimo divenuto un giorno triste e luttuoso, essendo
quello in cui è avvenuta la crocifissione di Gesù) assume una connotazione
particolarmente sfavorevole.
(8) G. Devoto - A Molayem, Archeogemmologia, Roma, 1990,
p. 237.
(9) ibid. pp. 237 - 238.
di Luana Monte
luana.monte@virgilio.it
www.luana-monte.it
di Michael A. Cremo, Richard L. Thompson2. Archeologia Misterica
di Luc Bürgin3. Archeologia dell'impossibile
di Volterri Roberto4. Archeologia eretica
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