
Era alto quasi due metri, Giovanni Battista Belzoni, e molto prima di diventare la figura mitica dell'archeologo avventuriero, fu un viaggiatore trasportato dal sacro fuoco della scoperta e del desiderio di gloria. Una gloria imperitura che, alla fine, arrivò, nonostante sia tuttora, per lo più, sconosciuto alle masse.
Nato a Padova nel 1778 nella povertà di una famiglia modesta, era passato dalla bottega da barbiere del padre ai fasti di Roma, e agli studi di idraulica. Quei sistemi complessi di movimenti impartiti dalla pressione dell'acqua lo affascinarono al pari delle antiche rovine della città eterna. Era giovanissimo quando cominciò i suoi viaggi: a Londra, e poi in Spagna, a Malta, in Sicilia, in Portogallo, e visse di spettacoli circensi in cui faceva il forzuto, spettacoli in cui le conoscenze di idraulica lo aiutavano ad eseguire mastodontici numeri di fontane e giochi d'acqua.
Il suo sogno, però, era l'Egitto. E alla fine ci arrivò, dopo aver girovagato per l'Europa. Nel 1815 fu ricevuto da Mohammed Ali, il viceré dell'Egitto, che cercava nuove soluzioni di ingegneria idraulica. I progetti di Belzoni non ebbero il successo sperato ma fu l'inizio del matrimonio indissolubile tra il gigante italiano e il paese del Nilo. Il console britannico, Henry Salt, infatti, gli commissionò il trasporto in Inghilterra del monumentale busto di Ramesse II dal tempio funerario di Deir el-Bahari. Fu la prima di una lunga serie di grandi imprese.
In quel periodo, l'archeologia era agli albori e le innumerevoli vestigia e le meraviglie che oggi conosciamo della civiltà egizia erano ancora sommerse dalla sabbia, la lingua celata dai geroglifici non era ancora stata tradotta. La traduzione del geroglifico, e la conseguente nascita convenzionale dell'egittologia moderna, venne solo successivamente, con la spedizione di Napoleone e gli studi di Champollion sulla Stele di Rosetta. Ma tutto questo avvenne dopo la morte di Belzoni, nel 1823.
In quel tempo l'Egitto era una miniera d'oro. E Giovanni Belzoni ci si buttò a capofitto con tutto il cuore. Scavò e scoprì reperti e monumenti importantissimi, cambiò la storia dell'archeologia. Ebbe un grande coraggio, perché le spedizioni costavano molti soldi, infatti si indebitò pesantemente, e fu forte nel carattere, oltre che nel fisico: fu uno dei primi archeologi a rendersi conto di dove si trovasse, di chi era la gente che lo circondava, in quei luoghi. Intuì che poteva ricavare il massimo dai suoi collaboratori, se si fosse "integrato" nell'ambiente in cui si trovava: si fece crescere la barba, si vestì con abiti locali, imparò l'arabo e si fece rispettare dalle maestranze alle sue dipendenze, perché aveva capito, come nessun altro europeo aveva capito, che per entrare in contatto con il passato degli egiziani, doveva prima entrare in contatto con il loro presente.
Fu rispettoso dei reperti: laddove gli altri portavano via pezzi interi di monumenti da esporre nelle capitali europee, lui eseguiva calchi e descriveva nei suoi scritti con precisione ciò che aveva scoperto e catalogato. Non cedette mai all'illusione mistica di un Egitto soprannaturale, ma fu serio e meticoloso nel raccontare ciò che vedeva e nello studio di questa scienza pionieristica. E gli studi gli dettero ragione: della piramide di Chefren, una delle tre grandi piramidi della Piana di Giza, tutti dicevano che era impossibile da penetrare, poiché massiccia, priva di camere.
Belzoni, tuttavia, era convinto che una o più camere esistessero. Aveva studiato a fondo e con passione la grande piramide di Cheope, e la sua caparbietà nel confrontare i monumenti dischiuse la porta sui segreti nascosti al loro interno: alla fine infatti, nel marzo del 1818, trovò l'ingresso della piramide di Chefren e fu celebrato in Inghilterra e in tutta Europa. anche se non era il primo ad entrare nella piramide, tanto che le camere erano spoglie e depredate da tempo, decise di apporre la sua eterna, grande firma a caratteri cubitali, scritta con il nerofumo, che ancora oggi i visitatori possono leggere nel corridoio della piramide: "Scoperta da G. Belzoni, 2. mar. 1818".






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