
L'urlo di dolore si spezza in gola, soffocato dal fumo acre e della polvere incandescente che rende l'aria irrespirabile. Una smorfia di disperazione attraversa il viso mentre gli occhi, fissi e terrorizzati, cercano una via di scampo che non c'è. È la morte che arriva inesorabile, per tutti. È la fine di Pompei e di tutti i centri dell'area vesuviana, duemila anni fa. Lava, cenere e lapilli sigillarono uomini e case, vita e ingegno, quotidianità e aspettative. Ma quello che all'epoca fu una tragedia di immani proporzioni per noi oggi rappresenta una risorsa scientifica: così l'archeologia da più di due secoli e mezzo ha fatto delle città sepolte dal Vesuvio un'inesauribile fonte di scoperte, sorprese, emozioni. Non solo tesori (celeberrimi quelli di Pompei, Ercolano, Stabia e Boscorale), ma anche tracce, ricordi, suggestioni della vita di due millenni fa: così, dopo aver studiato gli edifici, gli affreschi, i mobili, i gioielli, le suppellettili, i corpi (scheletri o calchi) dei suoi abitanti, ora si cerca di entrare nei dettagli della quotidianità degli antichi residenti nell'area vesuviana. E la mostra "Storie da un'eruzione: Pompei, Ercolano, Oplontis", ora approdata a Trieste, porta alla conoscenza del grande pubblico tanti spaccati di vita, nobili e gente comune, artigiani e pescatori, gente che aveva superato le paure e i problemi del terremoto di più di un decennio prima e che con l'entusiasmo tipico della ricostruzione mostrava una gran voglia di vivere.
«Nelle antiche città del Vesuvio», spiega Pier Giovanni Guzzo, soprintendente archeologo di Pompei, «i corpi ritrovati, ancorché in fuga, lontani dalle proprie case, non più intenti alle rispettive quotidiane incombenze, aiutano a riportare l'antichità a una dimensione umana. Anche i meravigliosi monumenti di Atene e Roma furono costruiti e frequentati da uomini e donne comuni: ma di essi non c'è più traccia materiale, essi parlano solamente attraverso la realizzazione della loro silenziosa fatica. Non così a Pompei, a Ercolano, a Oplontis: questi campi di antiche rovine, non dissimili da tutti quanti gli altri, si distinguono tra tutti perché la loro improvvisa distruzione ha conservato la materialità dei loro autentici abitanti. Di coloro che costruirono le città, che le abitarono, che ne usufruirono finché il vulcano concesse a loro vita, gioia, lavoro. E se le fantasie dei letterati hanno fatto rivivere antichi Greci, antichi Romani, antichi Egiziani, antichi Cartaginesi, qui sotto il Vesuvio non occorre essere un Verri o un Flaubert: chiunque abbia in sé ancora un'emozione può far rivivere le immote forme che riproducono i corpi di quegli sventurati asfissiati dall'eruzione».
In mostra proprio alcune delle "storie" vissute, fino al momento della loro atroce morte, da antichi pompeiani, ercolanesi, oplontini i cui corpi sono stati ritrovati negli scavi: «Con questa esposizione», continua Guzzo, «abbiamo voluto materializzare attraverso i protagonisti, anche se ormai immoti da duemila anni, quegli affreschi, quelle decorazioni, quegli utensili, quelle monete, quei gioielli che formano il comune immaginario pompeiano: ma che, troppo superficialmente, è stato separato da coloro che li hanno prodotti e li hanno usati».
La mostra offre la straordinaria opportunità di ammirare le pareti del triclinio A, parte dei ritrovamenti delle recenti campagne di scavo condotte nel suburbio di Pompei, in località Moregine, che hanno come tema il ciclo delle Muse e di Apollo. E poi, assoluta novità, le pregevoli pitture di II stile rinvenute in anni recenti nella villa 6 di Terzigno, alla periferia dell'antica Pompei: lo straordinario ciclo pittorico, che richiama alla memoria quello della villa dei Misteri, ornava il quartiere residenziale di una fattoria agricola. «I calchi umani, gli affreschi, le sculture, i preziosi monili accanto agli oggetti di uso comune e a una eccezionale cassaforte in bronzo e in ferro», conclude Guzzo, «consentono di cogliere anche gli aspetti individuali, spesso toccanti nella loro immediata umanità, al'interno di un dramma collettivo».






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