Chi visita Pompei non può non restarne impressionato: i calchi delle vittime dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. sono l'espressione più umana e la prova tangibile di quell'antica tragedia. Finora si pensava che quei calchi raccontassero l'agonia per soffocamento dei pompeiani. Adesso invece sappiamo che la loro morte fu del tutto diversa: bruciati all'istante.
Uno studio dei ricercatori dell'Osservatorio Vesuviano-INGV Giuseppe Mastrolorenzo e Lucia Pappalardo, e dei biologi dell'Università di Napoli "Federico II" Pierpaolo Petrone e Fabio Guarino, basato su una ricerca interdisciplinare - indagini su depositi vulcanici, struttura della cenere e DNA delle vittime, associate a simulazioni numeriche al computer dell'eruzione - rivela per la prima volta gli effetti della nube vulcanica dell'eruzione del 79 d.C. sugli abitanti di Pompei e degli altri siti dell'area vesuviana.
La scoperta
"Contrariamente a quanto fino a oggi ritenuto dai ricercatori, riportato più volte dai mass-media e raccontato da sempre a milioni di turisti in visita ai calchi a Pompei, le vittime non subirono una lunga agonia per soffocamento ma persero la vita all'istante per l'esposizione ad alte temperature, dai 300 ai 600 °C", spiega Giuseppe Mastrolorenzo, uno degli autori della ricerca. "I nuovi risultati sugli effetti termici e meccanici dell'evento del 79 d.C., rivelano come il rischio connesso a una possibile futura eruzione del Vesuvio potrebbe essere di gran lunga superiore a quanto fino ad oggi ritenuto dai ricercatori e dalla Protezione Civile. Per questo è urgente una drastica modifica dell'attuale Piano di Emergenza". (Mastrolorenzo fu protagonista di un acceso dibattito in seguito alla pubblicazione del servizio sul rischio Vesuvio pubblicato su
National Geographic nel settembre 2007: vai all'articolo e vedi anche il seguito della polemica)
Una nuova ricerca
"Abbiamo iniziato studiando i livelli di cenere in vari punti dell'area vesuviana», continua Mastrolorenzo. «E dai profili tracciati abbiamo dedotto dei parametri: l'altezza e la velocità della nube provocata dal collasso della colonna piroclastica, che in questa eruzione raggiunse, come già sapevamo, i 30 chilometri d'altezza. Calcolando velocità e altezza abbiamo potuto definire lo spessore e la densità della nube, e il tempo impiegato a passare su Pompei: poco più di un minuto".
Lo studio delle vittime
"Ci siamo chiesti allora quali effetti avesse prodotto", continua il vulcanologo, "e siamo giunti alla conclusione che gli effetti meccanici erano stati piuttosto scarsi: si trattava di una nube poco densa. A quel punto abbiamo iniziato a studiare i resti delle vittime".
"I calchi dei corpi presentano quello che viene definito cadaveric spasm, una postura assunta solo quando la morte è istantanea. Abbiamo poi analizzato i resti ossei, e anche grazie all'analisi del DNA abbiamo rilevato prove di modifiche causate dall'alta temperatura", aggiunge Mastrolorenzo.
"Abbiamo condotto esperimenti in laboratorio su frammenti di ossa, esponendoli a temperature crescenti e osservando le modifiche che si producevano; questi frammenti sono poi stati confrontati con i resti delle vittime di Pompei, e abbiamo capito che quei corpi erano stati esposti a una temperatura di circa 300 °C. A Ercolano si arrivò anche a 600 °C".
"Inoltre", conclude il ricercatore, "neppure il tempo del passaggio della nube - tra 1 e 2 minuti - coincide con una morte per soffocamento, che richiede un tempo più lungo. Quindi, quelle che a lungo sono state ritenute posizioni che riflettevano una lunga agonia, sono invece la prova di una morte istantanea: l'evatissima temperatura".
La ricerca, intitolata Lethal Thermal Impact at periphery of Pyroclastic Surges: evidences
at Pompeii è pubblicata sulla rivista scientifica PlosOne.
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