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30 Giugno 2010 ARCHEOLOGIA
Ignazio Burgio CataniaCultura.com
ANTICHI ROMANI IN AMERICA
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Nel 1933 a Calixtlahuaca, una località a 72 chilometri da Città del Messico, durante gli scavi presso una piramide di epoca precedente l'arrivo degli spagnoli di Cortèz (1519), venne rinvenuta la testa di una statuetta in terracotta in stile inequivocabilmente romano, datata dagli archeologi - in primo luogo dal suo scopritore Josè Garcia Payon - al II sec. d. C. Nel 1995, Romeo Hristov del Dipartimento di antropologia dell'Università Metodista Meridionale di Dallas e Santiago Genoves, dell'Istituto di Investigaciones Antropologicas di Città del Messico, sottoposero il reperto all'analisi tramite la termoluminescenza presso l'Istituto di Fisica Nucleare del Max Plank institute di Heidelberg in Germania. Il test confermò la reale antichità della testina, ed i risultati vennero pubblicati sulla rivista "New Scientist" del febbraio 2000. Questo è uno dei tanti ritrovamenti "anomali" che vengono riportati anche da Elio Cadelo (giornalista della Rai ed esperto divulgatore culturale e scientifico) nel suo volume Quando i Romani andavano in America (Palombi Editori, p. 217) a sostegno della convincente possibilità che i popoli antichi - non solo i Romani, ma prima di loro anche Fenici, Cartaginesi e Mauritani, per non parlare di Cinesi e Giapponesi dal versante Pacifico - abbiano raggiunto i due continenti americani. Il medesimo autore non manca inoltre di citare anche altri sorprendenti reperti saltati fuori da un secolo e mezzo a questa parte, come la nave romana ritrovata a Galveston Island in Texas nel 1886, e recentemente ristudiata dal prof. Valentine Belfiglio, che nel 1993 ha anche ritrovato sempre nei paraggi una moneta romana d'argento con l'effigie dell'imperatore Traiano (98 - 117 d. C.). E poi ancora, i numerosi esempi di ananas (frutto americano) raffigurati su mosaici, affreschi e statue di terracotta a Roma (mosaici delle Grotte Celoni ora al Palazzo Massimo alle Terme), Pompei (Casa dell'Efebo) e Ginevra (Museo dell'Arte e della Storia), e le numerose monete romane ritrovate un po' ovunque in America (ma anche in altre remote parti del mondo, come in Australia ed in Nuova Zelanda): tutti elementi questi che alcuni illuminati rappresentati del mondo accademico ufficiale - sparuti pionieri di una nuova visione della storia - stanno cominciando a rivalutare, contrariamente alla maggioranza dei loro colleghi tradizionalisti che liquidano questi reperti "fuori posto" come falsi, scherzi fra accademici o tutt'al più accidentali smarrimenti di moderni collezionisti distratti (un po' troppi, commenta ironicamente lo stesso Cadelo).

Giudizi come questi in realtà trovano la loro fonte soprattutto in una convinzione più o meno generalmente diffusa come un luogo comune, ovvero che nell'antichità coloro che andavano per mare disponevano solo di navi piccole e fragili, di strumenti e conoscenze poco sofisticate per orientarsi in mare aperto, nonchè di rotte rigorosamente sotto costa, limitate esclusivamente al "Mare Nostrum", e senza che nessuno osasse infrangere il "tabù" delle Colonne d'Ercole, ultimo avamposto di un mondo creduto piatto e circondato dall'abisso.

Proprio per demolire sistematicamente questi luoghi comuni, il medesimo Elio Cadelo impiega diversi capitoli per illustrare, con una notevole mole di informazioni, qual era la realtà della navigazione nel mondo antico. Intorno al 600 a. C. i Fenici nell'arco di tre anni circumnavigarono l'Africa su mandato del Faraone Neco II, ma nei secoli successivi i mercanti Greci e Romani attraversavano regolarmente l'Oceano Indiano, sospinti dalla regolarità dei Monsoni, per raggiungere i ricchi empori orientali: l'India, lo Sri Lanka, l'Indonesia, ma anche la Cina e forse - a giudicare dalle monete "perse" dai collezionisti distratti! - anche Australia e Nuova Zelanda. Non mancano ovviamente le testimonianze di numerose fonti dell'epoca, come quella di Tacito che tessendo l'elogio del suo genero Agricola, ne ricorda la circumnavigazione della Britannia intorno all'80 d. C.

Né il Mar Rosso né tanto meno le Colonne d'Ercole costituivano dunque un tabù, e le flotte militari e civili romane le varcavano regolarmente, avendo ereditato dalla sconfitta Cartagine le rotte in direzione delle coste africane occidentali e delle Isole Fortunate: le Canarie, le Azzorre, Madeira. «Le Isole Fortunate distano da queste 250 miglia e sono situate di fronte alla parte sinistra della Mauritania, in direzione Ovest Nord-Ovest. Una di esse si chiama Invalli per la sua superficie convessa; essa misura 300 miglia di circonferenza; un'altra Pianosa prende il nome dalla sua conformazione...» afferma Plinio nella sua Storia Naturale, aggiungendo subito dopo che anche Giuba, re della Mauritania, si prese la briga di esplorarle riportando da una di esse, Canaria, due esemplari di quei caratteristici cani di grossa taglia che diedero il nome all'isola e all'intero arcipelago.

Come si può intuire le navi che affrontavano le acque oceaniche possedevano stazza e caratteristiche di tutto rispetto. Se si conosce ancora ben poco infatti delle antiche navi da guerra romane, al contrario quelle adibite a scopo mercantile hanno lasciato molte più tracce nelle testimonianze scritte degli antichi oltre che sul fondo del mare. La nave greca rinvenuta al largo di Marsiglia nel 1954 e risalente al III sec. a. C. era lunga 33 metri e cosa sorprendente per gli archeologi che la studiarono, risultò rivestita di piombo a scopo di protezione dai parassiti marini: sarebbe stata perfettamente in grado, in altre parole, di affrontare una traversata oceanica. Ma vascelli con una stazza tra le 300 e le 500 tonnellate erano piuttosto normali all'epoca. Se poi erano adibite al trasporto di carichi pesanti come il marmo (navi lapidarie) esse potevano raggiungere anche tonnellaggi maggiori: «...Luciano ci ha lasciato la descrizione di una nave romana lunga 54 metri, larga 14 e con un dislocamento di 1.000 tonnellate nella quale l'albero di maestra si trovava al centro dello scafo, portava una vela quadrata, raddoppiata da una seconda vela superiore e la poppa e la prua erano rialzate...», riporta Elio Cadelo a p. 20 del suo volume. Con un tal genere di imbarcazioni, o ancora più grandi, certamente vennero trasportati dall'Egitto a Roma i colossali obelischi che ancora oggi possiamo osservare nella capitale. Inoltre dall'esame delle due navi di Caligola recuperate dai fondali del Lago di Nemi nel 1930 - e finite in cenere durante la guerra - si è appurata l'esistenza di tutta una serie di sofisticate attrezzature (pompe idrauliche, valvole, ruote dentate, piattaforme girevoli su cuscinetti a sfera, ecc.) in dotazione ai vascelli romani, come confermato anche dai risultati dell'archeologia subacquea. Non solo con le sue legioni ma anche con le sue navi da guerra sempre più potenti e veloci - liburne, triremi, quinqueremi e via dicendo - Roma riuscì a conquistare sia il Mediterraneo che l'Europa Occidentale fino alla Britannia, e fino alla grande invasione dei Germani, cioè fino al V sec. a. C., navi militari ed ausiliarie, di ogni dimensione assicuravano la sicurezza, la difesa ed i necessari rifornimenti sui mari e sui fiumi di confine. Le grandi navi commerciali poi, come già si è detto, si avventuravano regolarmente nell'Atlantico, nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano per giungere senza alcun dubbio sino in Estremo Oriente (cfr. Domenico Carro, Le navi di Roma.)

Per gli antichi le stelle erano dei preziosi punti di riferimento notturni per determinare latitudine, longitudine e rotta. Durante il giorno poi, l'ombra del sole proiettata su diversi tipi di gnomone, come il "polos" dei Babilonesi o lo "skafos" di Berosso, consentiva di determinare con ottima approssimazione il punto nave in latitudine. Ma tutto ciò presupponeva una concezione di un mondo sferico, suddiviso in gradi, meridiani e paralleli. L'idea che gli antichi avessero la convinzione di una Terra piatta non trova alcun riscontro nella cultura dell'epoca: Eratostene di Cirene anzi fu il primo a calcolare con un trascurabile margine d'errore la circonferenza terrestre seguito poi da Posidonio. I loro risultati servirono da base a Marino di Tiro e Tolomeo per la composizione delle loro mappe geografiche, le quali anche se rappresentate in piano si rifacevano ovviamente ad una dimensione sferica. Da qui - come ben sottolineato ancora da Elio Cadelo - agli antichi venne in mente esattamente la medesima idea che avrebbe poi avuto Colombo, ossia raggiungere l'Oriente navigando verso occidente, attraversando l'Atlantico: «D'altro canto Tolomeo cita Posidonio e scrive: "Quindi diceva Posidonio chi partisse dall'estremo occidente del nostro mondo, e navigasse con l'Euro, per ponente, con un pari percorso arriverebbe nelle Indie"...» (Elio Cadelo, p. 212), convinzione condivisa ad esempio anche da Strabone, Aristotele e diversi altri scrittori dell'antichità. Qualche altro autore poi come Plutarco nel suo scritto Il volto della Luna «aggiunge che a cinque giornate di navigazione dalla Britannia verso Occidente ci sono alcune isole e dietro di loro un continente...» (Elio Cadelo, cit. p. 198). Ma il grande storico di Agira, Diodoro Siculo, è molto più dettagliato:

«Poichè abbiamo discorso delle isole che stanno al di qua delle Colonne d'Eracle, passeremo ora in rassegna quelle che sono nell'Oceano... Infatti, di fronte alla Libia (Africa) sta un'isola di notevole grandezza, e posta com'è in mezzo all'Oceano è lontana dalla Libia molti giorni di navigazione, ed è situata a occidente. La sua è una terra che dà frutti, in buona parte montuosa, ma in non piccola parte pianeggiante e di bellezza straordinaria. Poichè vi scorrono fiumi navigabili, da essi è irrigata, e presenta molti parchi piantati con alberi di ogni varietà, ricchi di giardini attraversati da corsi d'acqua dolce. La zona montuosa presenta foreste fitte e grandi alberi da frutto di vario genere, e valli che invitano al soggiorno sui monti, e molte sorgenti. In generale, quest'isola è ben fornita di acque dolci correnti.

"Ora, nei tempi antichi quest'isola non fu scoperta per la sua grande distanza dall'intero mondo abitato, ma lo fu più tardi per le seguenti ragioni. I Fenici, che da tempi antichi facevano continuamente viaggi per mare a scopo di commercio, fondarono molte colonie in Libia e non poche nelle parti occidentali dell'Europa. Poichè le loro iniziative procedevano secondo le aspettative, ammassarono grandi ricchezze e tentarono di navigare oltre le Colonne d'Eracle, nel mare cui gli uomini danno nome Oceano.

"E dapprima, proprio sullo stretto presso le Colonne, fondarono una città sulla costa europea, e poichè essa occupava una penisola, la chiamarono Gadira (Cadice).

"Vi costruirono molte opere adatte a quei luoghi, e anche un sontuoso tempio di Eracle, e introdussero sacrifici magnifici condotti secondo i costumi dei Fenici. Si dà il caso che questo santuario sia stato tenuto in assai onore, sia allora che in tempi recenti fino alla nostra generazione. Anche molti Romani fecero voti a questo dio, e li adempirono dopo aver portato a termine le proprie gesta con successo.

"I Fenici, dunque, mentre esploravano, per le ragioni sopra citate, la costa al di là delle Colonne, navigando lungo la Libia, furono portati fuori rotta dai venti, a grande distanza nell'Oceano. Dopo essere stati esposti alla tempesta per molti giorni, furono portati sull'isola che abbiamo citato, e una volta constatata la sua prosperità e la sua natura, ne resero nota l'esistenza a tutti gli uomini.

"E perciò i Tirreni, al tempo in cui erano padroni del mare, intrapresero il tentativo di mandarvi una colonia, ma i Cartaginesi lo impedirono, sia perchè per la fertilità dell'isola molti vi si volevano trasferire da Cartagine, sia per prepararsi un luogo in cui rifugiarsi contro gli imprevisti della sorte, nel caso che a Cartagine toccasse qualche disastro totale. Infatti, dal momento che erano padroni del mare, avrebbero potuto, pensavano, far vela con tutta la casa e la famiglia verso un'isola sconosciuta a chi li avesse sconfitti.» (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Libro V, 19-20).

Gli storici ritengono che Diodoro in questo passo si riferisca a qualcuna delle Isole Canarie o delle Azzorre, ma nessuna delle isolette dell'Atlantico corrisponde ai nostri giorni ad una tale descrizione. Vi è dunque il forte sospetto che lo storico siciliano si riferisca in realtà alle coste più occidentali del Sud-America, da lui e dai Fenici creduta un'isola. In effetti, sono diversi gli archeologi che avrebbero trovato iscrizioni e testimonianze fenicie in diverse parti del Brasile. Ladislao Netto sin dal 1899 ne avrebbe trovata una proprio sul monte che sovrasta Rio, il Pan di Zucchero: «Siamo figli della Terra di Canaan - dice l'iscrizione - . Su noi pesano la sventura e la maledizione. Abbiamo invocato invano i nostri dei: essi ci hanno abbandonati, e presto moriremo disperati. Oggi è il decimo anniversario del giorno infausto in cui siamo giunti su queste rive. Il caldo è atroce, l'acqua è fetida, l'aria piena di schifosi insetti. I nostri corpi sono coperti di piaghe. O dei, aiutateci! Tiro, Sidone, Baal». (Kolosimo, p. 304). Anche l'archeologo brasiliano Bernardo da Silva Ramos, il ricercatore austriaco, Ludwig Schwennhagen, ed il francese Apollinaire Frot avrebbero ritrovato, tradotto e classificato migliaia di iscrizioni in diverse parti della giungla Amazzonica nonché in zone montuose. Secondo le loro ricerche in alcuni luoghi dell'Amazzonia nei pressi di laghi e fiumi vi sarebbero anche resti di mura e cantieri navali. Viceversa negli scavi compiuti a Sidone, in Libano, nel 1860, archeologi francesi individuarono molti reperti di legno che potevano provenire soltanto dal Brasile, in quanto realizzati o con legno "quebracho" (o "Quebra Machado", il legno che spezza il machete), o un altro di colore rosso, chiamato in portoghese Paua Brasil.

Comalcalco Le cose tuttavia potrebbero essere anche più complesse, e qualcuno del Vecchio Mondo potrebbe essere giunto in America per altre vie. Le rovine dell'antica città di Comalcalco, nei pressi dell'attuale città di Villaermosa in Messico (stato di Tabasco), costituiscono tutt'altro che un banale mistero per archeologi e studiosi. La località infatti è l'unico insediamento di epoca Olmeca o Maya che abbia i suoi edifici costruiti con l'utilizzo di mattoni cotti, anziché in pietra come tutte le altre città coeve. Il mistero tuttavia si è infittito quando gli studiosi hanno scoperto sul retro di diversi mattoni dei marchi di fabbrica pressocchè identici a quelli presenti sugli antichi mattoni romani, visibili ancora oggi ad es. a Roma ed in molti altri siti archeologici. Anche le dimensioni dei mattoni sono uguali, mentre sempre a Comalcalco è stata anche scoperta quella che sembra un'antica statuetta romana in terracotta. E' stato fatto notare tuttavia che, anche se edificata in mattoni cotti, lo stile architettonico della città è tipicamente maya, ed anche gli archi non sono quelli caratteristici romani a tutto sesto bensì quelli tipici centro-americani a triangolo acuto.

Alcuni ricercatori dalle idee più aperte hanno ipotizzato che nel periodo della dinastia Satavahana (circa 200 a. C. - 200 d. C.) in India, che - come abbiamo visto - allacciò stretti rapporti commerciali col mondo romano, l'uso dei mattoni per le costruzioni venne reintrodotto nell' Hindu Kush dopo che era stato abbandonato in passato a favore della pietra. Dall'India si estese poi fino in Indocina, al seguito probabilmente dei Kushana, altri partner commerciali dei Romani. Questa minoranza di studiosi sostiene appunto che l'uso dei mattoni cotti sia giunto a Comalcalco tramite l'Oceano Pacifico, al seguito di mercanti del sud-est asiatico. A riprova di ciò mostrano alcuni motivi architettonici, simili a quelli indiani, presenti in alcuni mattoni della città maya, ed alcune urne funerarie, sempre a Comalcalco anch'esse in stile asiatico. Nonostante appaia curioso il fatto che anche i tipici marchi di fabbrica romani possano essersi conservati insieme ai mattoni nel loro viaggio fino ai Maya (non si capisce bene con quale funzione), i medesimi sostenitori dei contatti fra le due sponde del Pacifico portano altre prove, quali ad esempio resti di cavalli pre-colombiani che sarebbero stati dissepolti sempre in America. Nel Museo attiguo alle rovine di Comalcalco è inoltre possibile ammirare altri curiosi e misteriosi reperti come raffigurazioni di personaggi con cappello e barba.

Comalcalco in realtà è solo uno dei tanti luoghi misteriosi che fanno sospettare contatti tra Asia e America ben prima di Colombo. Sempre in Messico nei pressi della città di Poza Rica, le rovine della città di Tajin, antica capitale del popolo precolombiano dei Totonachi, comprendono una piramide che «...non solo nella parte inferiore della costruzione, ma anche nelle decorazioni e nelle nicchie è identica alle pagode della città morta birmana di Pagan...» secondo le parole dello studioso Pierre Honorè, che continua: «...Lo stile ornamentale di Tajin, specie per quanto concerne i vasi, mostra una tale somiglianza con il tardo stile Chu della Cina, da rendere quasi impossibile distinguere l'uno dall'altro...». (Kolosimo, p. 193) Anche le piramidi maya di Tikal sembrano identiche a quelle cambogiane di Angkor-Vat, così come di stile orientale sembrano statue, gioielli di giada, ornamenti e decorazioni rinvenuti in Ecuador ed in Perù. Per non parlare di curiose analogie scientifiche e culturali, come l'uso dello zero e del sistema decimale presso i Maya che fino all'inizio del Medioevo si ritrovava solo in un altro luogo al mondo, ovvero in India.

Per l'archeologia ufficiale sia i potenziali contatti con l'America di Fenici e Romani attraverso l'Atlantico, sia i viaggi transpacifici degli asiatici mancano ancora di prove decisive. Molti parlano di "miopia archeologica", altri di semplice prudenza. Ma in ogni caso gli scavi e gli studi proseguono.

Bibliografia.

Elio Cadelo, Quando i Romani andavano in America, Palombi Editore.

Domenico Carro, Le navi di Roma e Imperium maris, il dominio del mare di Roma antica, in: www.romaeterna.org

Peter Kolosimo, Terra senza tempo, Sugar Editore.

The mistery at comalcalco.

Giulio Magli, Misteri e scoperte dell'Archeoastronomia, Newton Compton Editore.

Hatcher Childress D., Le scoperte scientifiche delle antiche civiltà, Newton e Compton 2000.