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17 Febbraio 2003 ARCHEOLOGIA
Stefano Galli Il Nuovo
La lezione della mummia del Similaun
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MILANO - Nei dintorni della metà del mese di settembre di dodici anni fa, una coppia di anziani coniugi di Norimberga in vacanza in Alto Adige, Erika e Helmut Simon, nel corso di un'escursione sulle Alpi Venoste scorge una strana sagoma che affiora dai ghiacci nei pressi del Tinsenjoch, a oltre tremila e duecento metri di altitudine. Si tratta del cadavere di un uomo che emerge bocconi dalla cintola in su dall'acqua di fusione. Scattata una fotografia, i due scendono rapidamente al rifugio e avvertono il gestore che – dopo aver avvisato sia i carabinieri italiani, sia la gendarmeria austriaca - si reca subito sul luogo del ritrovamento e, vicino al cadavere, oltre ai resti di corteccia di betulla arrotolati, già notati dai Simon, trova altri oggetti: pezzetti di legno e di corda, ciuffi di peli, di capelli e di paglia, brandelli di pelliccia.

In quel momento avveniva una delle più grandi scoperte archeologiche della storia dell'umanità, quella di Oetzi, la mummia congelata delle Ötztaler Alpen. Inizialmente si pensa che il cadavere sia quello di un uomo scomparso nella zona del Similaun qualche decina di anni prima, all'inizio della Seconda guerra mondiale, il professore di musica di origine veronese Carlo Capsoni. Anzi, a causa dei segni delle ferite e delle bruciature della schiena, viene addirittura aperta un'inchiesta giudiziaria.

Proprio in quei giorni, l'alpinista sudtirolese Reinhold Messner, il "re dei quattromila", e Hans Kammerlander, fedele compagno di tante imprese, sono impegnati in un'escursione lungo il confine italo-austriaco per difendere i valori della pace, della tolleranza e dell'ambientalismo. Incuriositi per le serrate discussioni udite al rifugio del Similaun, raggiungono il Tinsenjoch due giorni dopo il ritrovamento dei Simon e osservano attentamente il cadavere, il suo abbigliamento (i calzoni e le scarpe) e gli oggetti rinvenuti sul luogo (un intreccio di paglia, un arco, una gerla, due recipienti di betulla e un'ascia). Messner è il primo che, in una dichiarazione a un giornalista, si avvicina - anche se con molta approssimazione - alla verità, poiché stima che il ritrovamento possa riguardare un uomo di almeno cinquecento, se non tremila anni or sono.

Le operazioni di recupero del cadavere si svolgono nella giornata di lunedì 23 settembre 1991 sotto la guida del professor Rainer Henn dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Innsbruck che l'indomani convoca il professor Konrad Spindler, ordinario di preistoria e protostoria dello stesso ateneo. Dopo l'iniziale perplessità, Spindler - lo ha ricostruito con molto slancio scientifico e anche passionale in un libro, L'uomo dei ghiacci (Milano 1998) - attribuisce alla salma un'anzianità di "almeno" quattromila anni e la colloca nella prima età del Bronzo. Spindler è il primo a rilevare l'importanza del ritrovamento della mummia perfettamente integra e con tutto il suo equipaggiamento. Successive indagini effettuate con il radiocarbonio hanno consentito di dilatare in eccesso l'anzianità dell'uomo dei ghiacci, collocandola tra il 3350 e il 3100 a.C.: visse, dunque, circa 5300 anni or sono.

Si svolgeranno poi operazioni di indagine e meticolosi lavori di ricostruzione dell'intero equipaggiamento rinvenuto nei pressi del cadavere, sulle alture del Tinsenjoch, in quei giorni e nella spedizione archeologica dell'anno seguente, nell'estate del 1992: la faretra con le frecce (molte ancora grezze, in fase di lavorazione), l'arco della lunghezza di 182 centimetri, l'ascia (l'unica al mondo che presenta ancora la lama), un pugnale con fodero, un ritoccatore per rifinire gli oggetti in selce, una sorta di "trapano" di selce, una rete per la caccia della selvaggina, la gerla e due contenitori di corteccia di betulla, uno dei quali è rivestito di foglie di acero ed è annerito, segno che veniva impiegato per conservare le braci del fuoco e tenerle accese.

Anche le ricerche sul corpo proseguiranno. Oetzi era alto circa un metro e sessanta e pesava una cinquantina di chili, aveva il 38 di piede, era senza denti del giudizio e aveva i due incisivi superiori lievemente separati; il suo corpo era coperto da numerosi tatuaggi - oltre cinquanta - sparsi in tutto il corpo (schiena, polpaccio, tallone, malleolo, ginocchio: evidentemente con funzione terapeutica). Quando è morto, Oetzi, che aveva appena mangiato una purea di farro, carne e verdure, era molto stressato - come si evince dall'esame di un'unghia - e aveva circa 45 anni. Ed è morto colpito alla schiena dall'alto verso il basso, perché all'interno della scapola sinistra si trova conficcata la punta di una freccia.

Probabilmente stava scappando ed è stato colpito alle spalle alla luce della visibile ferita molto profonda, che evidentemente gli ha causato un forte dolore e un'emorragia, con la paralisi del braccio sinistro. Oetzi non morì sul colpo: soffrì a lungo per il dolore e si tolse la freccia dalla schiena, ma la sua punta di selce rimase conficcata nella scapola, e poi spirò. Forse era un pastore che stava portando il gregge di pecore e capre ai pascoli alpini - mansioni di solito affidate agli esponenti più potenti di una comunità - e fu vittima di un agguato: abigeato?

Al momento della morte, Oetzi era completamente vestito. Lo studio e la ricostruzione del suo abbigliamento - che costituisce un'autentica rarità - ci hanno rivelato che ai piedi portava delle rudimentali calzature costituite da una rete e da un'imbottitura di erba secca, con una tomaia in pelle di cervo e la suola in pelle di orso. Le gambe erano coperte da strisce di pelle di capra e con la medesima tecnica era stato realizzato il suo perizoma. Il busto era coperto con una sopraveste sempre di segmenti di pelle di capra dal colore diverso e cuciti insieme con fili realizzati lavorando i tendini degli animali. La sopraveste era stretta in vita da una cintura che davanti si allargava a forma di marsupio, dove erano contenuti alcuni utensili: l'acciarino, una lama di selce, una lesina realizzata in osso di animale, un perforatore. Oetzi portava infine una mantella costituita da un ampio graticcio d'erba.

Subito dopo il ritrovamento, viene sollevata la questione del confine per determinare con esattezza se il luogo dove è stata rinvenuta la salma sia in territorio italiano o austriaco e dunque attribuirne la proprietà. Alla fine si giunge a stabilire che Oetzi si trovava a circa un centinaio di metri dalla linea del confine italo-austriaco tracciato in occasione del trattato di Sain Germain successivo alla Prima guerra mondiale, ma in territorio italiano. Dal punto di vista politico, la gestione della vicenda da parte del presidente della provincia di Bolzano, l'esponente della Volkspartei Luis Durnwalder, per il quale Oetzi rappresenta il concreto mito delle origini dell'identità sudtirolese poiché è quasi certo (in base alle analisi del legno con il quale costruì i suoi utensili e del cibo ingerito per l'ultima cena) che fosse un antico abitatore del villaggio di Katharinaberg in Val Senales, è molto accorta.

Durnwalder stringe presto degli accordi in base ai quali le ricerche, già da tempo incominciate, proseguiranno a Innsbruck. Conclusa l'attività degli studiosi, Oetzi tornerà a Bolzano in un museo creato per lui e, sempre in collaborazione con gli scienziati austriaci, sarà varato il progetto di ricerca "L'uomo dei ghiacci". E così avviene: il 16 gennaio 1998 Oetzi torna a casa e trova alloggio nel Museo Archeologico dell'Alto Adige. In occasione del cinquantesimo del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, tra le tante manifestazioni, domenica 16 febbraio si è inaugurata la mostra L'alba dell'uomo, con l'esposizione della mummia che per oltre cinquemila anni ha riposato sotto i ghiacci del Similiaun.

Andiamo a vederlo, questo straordinario progenitore di tutti noi che è ormai divenuto, sin dal suo ritrovamento e dall'attribuzione dell'età, una vera star mediatica. Osservandolo, rapiti da un'emozione profonda, di quelle che ti rapiscono, non possiamo evitare di pensare che la nostra storia su questa terra ci congiunge a lui e che Oetzi - rattrappito e con il braccio sinistro slanciato verso destra - è più vecchio della simmetria che ci separa dall'anno zero; quando Cheope, il faraone dell'antico Egitto, fece edificare la celebre piramide che porta il suo nome, Oetzi riposava sotto i ghiacci eterni del Similaun già da seicento anni. Questo determina una percezione distorta del nostro tempo e della nostra quotidianità che per noi è tutto, ma se rapportata allo spazio temporale che ci separa da Oetzi non è che un frammento di infinitesimale grandezza.

Un uomo preistorico in "azione" così perfettamente conservato, con tutto il suo equipaggiamento che ci lascia intuire la sua vita e il suo rapporto con l'ambiente naturale, non era mai stato trovato né visto da nessun archeologo; le nostre esperienze archeologiche con la preistoria, sino al settembre del 1991, erano limitate alle necropoli e ai resti delle ossa sepolte. E tuttavia, per quanto stridente possa apparire il contrasto tra l'uomo dei ghiacci, il suo abbigliamento e la sua vita, con la metropoli e la nostra cultura postindustriale e postmoderna, c'è una sorta di sovrapposizione tra noi e la mummia del Similaun, che altri non è che "l'uomo della pietra e della fionda".

Oetzi - ce lo hanno dimostrato le ricerche scientifiche - era tutt'uno con la natura e il suo ambiente alpino nel quale era completamente immerso ed era davvero indifferenziato poiché da esso, e solo da esso, ricavava le risorse per vivere, per alimentarsi, per vestirsi, per costruire la sua capanna nel suo villaggio.

Allo stesso modo noi, uomini artificiali siamo indifferenziati dalla tecnologia che scandisce e domina la nostra vita di ogni giorno, siamo tutt'uno con il telefonino, con il computer e con la rete, con i nostri alimenti e con il nostro abbigliamento, nel tentativo di raggiungere, attraverso la lotta con gli episodi che caratterizzano la nostra esistenza quotidiana, un'armonia superiore, anzitutto con noi stessi. Proprio come Oetzi che - simmetria degli antipodi - è il nostro specchio, nel quale ci riverberiamo e, quindi, ci identifichiamo perché ci racconta da dove veniamo e anche chi siamo.