"Dall'inizio della rivolta si è fermato tutto, e la situazione è ancora bloccata". Lucia Mori, ricercatrice dell'Università La Sapienza, è appena tornata da una campagna in Egitto e anche lì per il rotto della cuffia è riuscita, insieme ai suoi studenti, a evitare i tumulti che stanno infiammando il Paese del Nilo. Ma è la situazione in Libia quella che desta maggiori preoccupazioni per quanto riguarda la conservazione del grande patrimonio archeologico, in gran parte ancora da scoprire e studiare nel deserto. E si sa che le guerre alimentano la predazione e la vendita illegale dei reperti archeologici, come purtroppo insegnano l'Iraq e l'Afghanistan. A febbraio, da quando cioè è iniziata la rivoluzione che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi, sono arrivate scarne notizie - e talvolta contrastanti - sui siti archeologici libici. Parlavano quasi solo delle città romane sulla costa mediterranea: Sabrata e Leptis Magna in Tripolitania e Cirene in Cirenaica non dovrebbero (si spera) aver subito danni dai combattimenti. Ma poco o nulla si sa della situazione nel Sahara, dove nel Fezzan, nel Messak e nell'Acacus ci sono straordinari siti di pitture rupestri risalenti all'VIII millennio a. C., inseriti dall'Unesco nella lista del patrimonio culturale dell'umanità, e che in particolare gli archeologi italiani studiano da decenni. La Libia meridionale è proprio la zona in cui lavora sul terreno la dottoressa Mori.
SATELLITI - Ferme per ovvie ragioni le ricerche sul campo, gli studiosi non sono rimasti con le mani in mano ma hanno utilizzato le nuove tecniche satellitari che consentono di identificare dall'alto siti interessanti dal punto di vista archeologico, tecniche che funzionano particolarmente bene nel deserto. Come nel 2010 un gruppo di ricercatori italiani aveva identificato tramite Google Earth un cratere meteoritico sconosciuto nel bel mezzo del deserto egiziano, all'inizio di novembre gli archeologi inglesi dell'Università di Leicester hanno annunciato la scoperta - tramite le foto aree e i rilevamenti da satelliti - di oltre cento strutture riconducibili a oasi e villaggi fortificati databili tra il I e il VI secolo della nostra era appartenenti alla popolazione dei Garamanti.
GARAMANTI - "I Garamanti erano un popolo che viveva ai margini dell'impero romano", spiega a Corriere.it Lucia Mori. "Sono citati dagli autori latini e commerciavano con le città romane della costa vendendo oro, avorio, schiavi e animali feroci per le arene, che si procuravano nei territori a sud del Sahara. Erano quindi il collegamento tra il mondo romano e l'Africa nera. Attraversavano il deserto e avevano aperto vie carovaniere lungo le quali avevano realizzato le fortificazioni trovate dai colleghi inglesi che servivano sia come punti di appoggio ma anche per dissuadere eventuali predoni". La civiltà dei Garamanti si svolge dal 1000 a. C. al 400 d. C, e raggiunge l'apica tra il I secolo avanti Cristo e il II secolo d. C. La loro capitale era Germa (Garama per i romani), circa mille chilometri a sud di Tripoli, avevano un linguaggio scritto di probabile derivazione dalla costa. La cultura dei Garamanti, che hanno un legame con gli attuali berberi, arriva sino all'epoca della conquista islamica. Poi in pratica scompaiono e sono gli italiani a riportare alla luce i reperti prima durante il periodo coloniale e poi con le attuali missioni in collaborazione con gli inglesi.
RICERCA - "Il progetto di ricerca inglese ha ottenuto un buon finanziamento dall'European Research Council. La missione italiana aveva da decenni la concessione di scavo nella zona dell'Acacus e del Messak, dove ci sono pitture rupestri antecedenti, studiate a suo tempo da Fabrizio Mori. È una zona importantissima per comprendere la fase preistorica e protostorica - perché gli studi preistorici sono stati di enorme importanza. Nel 1997 Mario Liverani è diventato direttore della missione - ora sotto la guida di Savino di Lernia - e ha deciso di indagare anche il periodo garamantico. Casualmente, nello stesso anno è ripartita la ricerca anche nella zona di Germa da parte dei colleghi inglesi". Nell'Acacus si rinvengono pitture e incisioni straordinarie di giraffe, elefanti, buoi dalle lunghe corna semilunate, rinoceronti, esseri mitologici e magici, che mostrano come l'attuale deserto 8-10 mila anni fa fosse una savana popolata da animali che ora vivono migliaia di chilometri più a sud. C'era l'acqua e si potevano coltivare cereali, come attestano le macine e i mortai in pietra del neolitico che si rinvengono tra le sabbie dell'erg Takarkori. Oltre alle pitture nelle grotte del deserto, sono molte anche le iscrizioni che rischiano di deteriorarsi. "Negli ultimi quindici anni l'Acacus e il Messak sono stati aperti al turismo", spiega Lucia Mori. "La pressione turistica è forte in considerazione della fragilità del territorio desertico ed è praticamente impossibile difendere i siti archeologici da possibili predazioni di reperti preziosi ai fini della ricerca o le pitture e le iscrizioni dal deterioramento. Per queste ultime è stato avviata una classificazione in modo che almeno non vadano perdute prima di essere studiate".
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