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14 Giugno 2011 ARCHEOLOGIA
Elena Meli Corriere della Sera
C'era il medico di bordo sulle navi di duemila anni fa
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Fra il 140 e il 120 avanti Cristo, Roma era in piena espansione in tutto il Mediterraneo. Poco tempo prima si era conclusa la terza guerra punica: sotto il comando del console Scipione Emiliano era stata distrutta Cartagine, nello stesso periodo la Grecia era diventata una provincia romana a tutti gli effetti. Erano gli anni dei due fratelli Gracchi, Tiberio e Gaio; la ricchezza pioveva su Roma, fulcro del mondo. Proprio in quel periodo un veliero, solcando il mar Tirreno di ritorno da un viaggio nel Mediterraneo, incappò in una tempesta e naufragò nel Golfo di Baratti, nei pressi di Piombino. Non è dato sapere che cosa successe all'equipaggio e ai passeggeri, ma di certo a bordo c'era un medico, con la sua "cassetta del pronto soccorso": lo hanno dimostrato gli studi di archeologi e biologi, duemila anni dopo il naufragio.

Il relitto del Pozzino (dal nome della baia dove affondò il veliero) è rimasto a 18 metri di profondità fino al 1974, quando fu individuato sotto un intrico di posidonia e iniziarono le missioni subacquee per riportarne a galla i tesori e svelarne i misteri. La nave, lunga 15 metri e larga 3, trasportava anfore, brocche, coppe di vetro, ceramiche, lucerne, tutte provenienti da Paesi del Mediterraneo orientale e dell'Asia Minore. Subito si capì che a bordo doveva esserci un medico, perché fra le altre cose vennero rinvenuti uno specillo (strumento lungo e sottile usato per esplorare le ferite), una ventosa in bronzo per i salassi, una brocchetta con filtro, un mortaio. Poi, nel 1989, la sorpresa: in una cassetta di legno c'erano 136 cilindretti in legno, rivestiti di stagno, contenevano una discreta quantità di dischetti. Perfettamente conservati grazie alla sigillatura ed esposti al Museo Archeologico del Territorio di Populonia a Piombino, hanno iniziato a svelare i loro segreti 20 anni dopo il ritrovamento.

Si tratta di pastiglie a base di erbe, antesignane delle attuali pillole: lo hanno accertato Robert Fleischer e Alain Touwaide dello Smithsonian Conservation Biology Institute di Washington (Usa), in collaborazione con il Laboratorio di Analisi della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, analizzandone con tecniche di biologia molecolare il contenuto. Luigi Campanella, direttore del Polo Museale della Sapienza di Roma, dove sono stati presentati gli ultimi risultati delle ricerche sul relitto del Pozzino, spiega: "In quelle pastiglie di circa un centimetro di diametro c'erano estratti di piante. I ricercatori hanno analizzato il Dna e identificato diverse specie vegetali utilizzate per curare infiammazioni, disturbi ai reni, tosse. Il medico, in pratica, aveva con sé l'armamentario per intervenire su piccoli, comuni malanni".

Le piante sono state riconosciute confrontando i tratti di Dna rilevati nelle pastiglie con le sequenze genetiche nel database dei National Institutes of Health statunitensi: in ogni "pillola" pare ci fossero una decina di erbe diverse, fra cui cipolla, carota, noce, cavolo, sedano, prezzemolo, ravanello, biancospino, achillea, ibisco. Tutte erbe abbondantemente presenti nei testi medici dell'antichità; probabilmente il medico di bordo le metteva assieme aiutandosi con il mortaio e gli altri strumenti che aveva con sé sulla nave. Gli storici ritengono probabile che le pillole venissero disciolte in acqua o vino, per essere poi bevute o applicate sulla pelle. Capire quali fossero le erbe contenute nelle pastiglie ha richiesto anni di lavoro ed è stata un'impresa non da poco. Come è possibile riuscire a fare indagini tanto accurate su reperti così antichi? "Senza dubbio è cruciale la qualità del materiale rinvenuto - spiega Gino Fornaciari, direttore della Divisione di Paleopatologia, Storia della Medicina e Bioetica dell'Università di Pisa -. Le tecniche attuali però ci aiutano molto, perché sono estremamente precise. La biologia molecolare, con l'analisi delle proteine e del Dna, è applicabile ai reperti di migliaia di anni fa come a campioni "freschi", senza differenza".

"La scienza offre grandi opportunità all'archeologia, oggi - aggiunge Campanella -. Grazie alle certezze delle analisi biologiche possiamo corroborare le nostre teorie o proporne di nuove, svelando misteri del passato". È proprio questa la parte affascinante del lavoro di questa sorta di "polizia scientifica" dell'antichità: con i metodi di oggi si può scoprire come vivevano i nostri antenati e magari trarne qualche insegnamento. Infatti, lo scopo neanche troppo nascosto degli scienziati che lavorano sulle pillole del relitto del Pozzino, fra le medicine più antiche arrivate fino a noi, è trovare qualche "mix" millenario che possa essere riscoperto dalla medicina attuale per la cura di qualche malattia. Gli "investigatori del passato" lavorano anche sui resti umani riesumati dagli archeologi: "Oltre a cercare di capire come gli antichi si curavano, può esserci utile anche comprendere come e di che cosa si ammalavano - spiega Fornaciari -. La paleopatologia, che studia le malattie del passato, aiuta a capire come si viveva nelle diverse epoche storiche, perché le patologie non sono mai eventi casuali ma sono prodotti dell'ambiente. E può servire ai medici di oggi: così come può essere interessante scovare rimedi in voga nell'antichità e provare a riproporli aggiornati, è altrettanto importante sapere come si sono evolute nei secoli malattie che ci affliggono ancora oggi. Tracciare la loro storia significa conoscerle meglio e magari trovare nuovi mezzi per combatterle con più efficacia.