Hanno sostituito il verde vessillo della Jamahiriya con il tricolore nero, rosso e verde dei tempi di Idris Al Senussi
Oltre gli entusiasmi, sempre contagiosi e talvolta infantili, che hanno accompagnato le rivolte nel Nord Africa, si fa strada una certezza. Che le transizioni non saranno facili, come Tunisia ed Egitto stanno dimostrando. E che in Libia sarà ancora più arduo e pericoloso. Perché se al Cairo e a Tunisi un "dopo", magari accidentato, è ormai visibile, a Tripoli non è così. Guidare e governare il Paese, sfibrato da decenni di spietata dittatura, da odi tribali, ambiguità, vendette, sarà davvero un'impresa titanica. Però dovrebbero far riflettere due dettagli. Il primo legato alla disarmata intifada diplomatica, con decine di ambasciatori e consiglieri che abbandonano il Colonnello, si schierano con i rivoltosi, e sostituiscono il verde vessillo della Jamahiriya voluto da Gheddafi con la bandiera tricolore (nero, rosso e verde) della Libia monarchica e indipendente dei tempi di re Idris. Il secondo dettaglio è che il vessillo tricolore del regno è quello scelto dai ribelli armati: sventola a Bengasi, in gran parte del Paese, e con esso si coprono pietosamente i cadaveri dei "martiri della rivoluzione".
Gli Usa studiano il piano d'uscita
Voglia di monarchia, allora? È vero che il ricordo del saggio e tollerante re Idris Al Senussi, è sempre vivo, soprattutto fra gli anziani, che in silenzio lo hanno rimpianto per oltre 40 anni: da quando il sovrano fu costretto all'esilio in seguito al golpe incruento deciso dalle Forze armate e portato a compimento da un gruppetto di giovani ufficiali, guidati da Gheddafi. Tuttavia, la scelta di riproporre la bandiera monarchica non è una manifestazione di sterile nostalgia, ma la volontà di pretendere un autorevole quadro istituzionale alla fine della rivoluzione. La verità è che la Libia sembra un pianeta sconosciuto. Ricco, da corteggiare, da blandire. Ma rimasto una galassia misteriosa, con la sua ragnatela di tribù: alcune pacifiche, altre sensibili alle suggestioni dell'estremismo, altre ancora assai radicali, e infine alcune lungimiranti e moderate come quella dei Senussi, che possono vantare un grande eroe nazionale: quell'Omar al Mukhtar, che guidò la resistenza contro i colonialisti italiani dello spietato maresciallo Graziani.
Il rischio è che, dopo 42 anni di intossicazione dittatoriale, i mai sopiti odi tribali possano prepotentemente risorgere. Dando corpo al fantasma di una frantumazione territoriale (di tipo somalo) che danneggerebbe non soltanto la Libia ma tutti i clienti del suo grande patrimonio energetico, a cominciare dall'Italia.
I consigli rivoluzionari, nati con la rivolta, possono gestire la prima fase, però dopo è necessario un punto di riferimento istituzionale. Non l'esercito, troppo legato alle bizze del dittatore, e oggi disgregato; non gli intellettuali, appena riaffiorati dalle catacombe del pensiero, quindi non ancora pronti a ruoli decisivi; non i giovani, entusiasti ma inesperti e disorganizzati. La soluzione potrebbe essere appunto un re, una figura al di sopra delle parti.
In questi giorni si è presentato con qualche intervista il principe Idris al Senussi, che vive tra Roma e New York, erede designato da suo nonno. Pronto a tornare nel suo Paese (fu costretto all'esilio quando aveva 14 anni) e ad assumere un ruolo, che potrebbe essere quello di sovrano, se verrà restaurata la monarchia, oppure quello di leader politico, come successe in Bulgaria con l'ex re Simeone. Tuttavia anche un cugino più giovane di Idris, che vive a Londra, potrebbe vantare titoli dinastici. Ma, almeno in questo caso, non vi sarebbero problemi di appartenenza perché entrambi sono Al Senussi. Provengono cioè dalla tribù che in Libia è la più rispettata.
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