Gli autori dello studio sono scettici sulle interpretazioni date ai fossili e sostengono la necessità di considerare più sfumature nell'approccio alla loro classificazione.
È da riscrivere la storia filogenetica della nostra specie? Forse, almeno per quanto riguarda quella che è stata definita dagli antropologi nell'ultimo decennio. È quanto sostengono sulla rivista Nature Bernard Wood, direttore del Center for the Advanced Study of Hominid Paleobiology della George Washington University e Terry Harrison, direttore del Center for the Study of Human Origins della New York University.
Lo studio "The evolutionary context of the first hominins", riconsidera le relazioni evolutive tra i fossili denominati Orrorin, Sahelanthropus e Ardipithecus, che sono stati datati a diversi milioni di anni fa e che rappresenterebbero i più antichi antenati dell'uomo.
Gli autori in sostanza sono scettici sulle interpretazioni date ai fossili e sostengono la necessità di considerare più sfumature nell'approccio alla classificazione dei fossili. È troppo semplicistico, secondo gli autori, supporre che tutti i fossili siano antenati di creature attualmente presenti sulla Terra e sottolineano anche come gli scienziati che hanno trovato e descritto i fossili non abbiano tenuto conto di eventuali omoplasie - ovvero di caratteristiche comuni a specie non imparentate - frutto di convergenze evolutive.
Per esempio, se si accetta l'ipotesi che Ardipithecus sia un antenato dell'uomo, occorre assumere che l'omoplasia non sia presente nella nostra linea filogenetica, ma sia comune in quelle più vicine a essa.
La comunità scientifica ha stabilito da lungo tempo che la linea di discendenza umana ha cominciato a divergere da quella dello scimpanzé da sei a otto milioni di anni fa. È infatti agevole distinguere tra fossili di scimpanzé moderni ed esseri umani moderni.
Tuttavia, è più difficile differenziare tra le due specie se si esaminano i fossili più vicini al loro comune antenato, come nel caso di Orrorin, Sahelanthropus e Ardipithecus.
Nel loro studio, Wood and Harrison sottolineano come l'affidarsi in modo acritico a poche somiglianze tra fossili di scimmie antropomorfe ed esseri umani possa portare a conclusioni scorrette sulle possibili relazioni evolutive. Ramapithecus, una specie di scimmia fossile trovata nel Sud Est Asiatico, negli anni Sessanta e Settanta fu erroneamente ritenuto uno dei primi antenati dell'uomo, ma successivamente si è appurato che si trattava di uno stretto parente dell'orangutan.
Allo stesso modo, Oreopithecus bambolii, un fossile di scimmia trovato in Italia, mostra somiglianze con i primi antenati umani, tra cui alcune caratteristiche dello scheletro che suggeriscono che avesse già sviluppato un adattamento all'andatura bipede. Tuttavia, osservano ancora gli autori, si sa abbastanza della sua anatomia per mostrare che si tratta di una scimmia fossile e solo lontanamente imparentata con gli esseri umani, che ha acquisito molte caratteristiche "umane" in parallelo.
Wood e Harrison sottolineano come i piccoli canini di Ardipithecus e di Sahelanthropus siano forse le prove più convincenti a supporto dell'ipotesi che si tratti dei primi antenati dell'uomo. Tuttavia, la riduzione dei canini non è esclusiva della nostra linea evolutiva, ma è un processo che si è verificato in modo indipendente in molte linee di scimmie fossili (Oreopithecus, Ouranopithecus e Gigantopithecus) presumibilmente per effetto di un simile cambiamento nell'alimentazione.
"Non stiamo affermando che questi fossili non possano essere di antenati dell'uomo", hanno spiegato i ricercatori. "Semplicemente riteniamo che tale conclusione debba essere adeguatamente dimostrata, dal momento che esisitono numerose interpretazioni alternative".
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