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16 Febbraio 2005 MISTERO
Vincenzo Poma
Il profumo della verità
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Il manoscritto proibito, opera di un fantomatico monaco di nome Favera, era in condizioni davvero pietose; per la sua ovvia usura secolare sembrava doversi sgretolare da un momento all'altro tra le mie mani, vi erano inoltre molte frasi abrase e addirittura intere pagine illeggibili poiché definitivamente deturpate da uno strano liquido nero indelebile, talché con paziente cura dovetti inventarmi una sorta di fantastico ponte intellettuale per connettere quanto più razionalmente possibile le varie parti della straordinaria cronaca medievale. Ma fu un lavoro quanto mai proficuo e dilettevole, sia dal punto di vista linguistico perché mi consentì di affinare ancor più la mia conoscenza del latino (il testo in questione era scritto appunto in questa lingua e quindi dovetti tradurlo e adattarlo all'italiano), sia soprattutto per il mio avanzamento filosofico-spirituale in tutte quelle questioni delicate che attengono al mistero della vita e delle sue tante atroci sofferenze.
Raccontare come venni in possesso di simile dirompente documento storico non è un'impresa da poco. Tutto cominciò allorquando, studiando a fondo un breve periodo di storia medievale, fui come illuminato da un'idea che via via si cristallizzò nella mia mente fino a diventare talmente pervasiva e ossessiva da costringermi a inseguirla fin nei suoi più reconditi recessi.
Trattasi di un lasso di tempo alquanto esiguo sebbene di notevole cruciale rilevanza storico-filosofica per le sorti dell'umanità, in pratica il ventennio medievale che va dal 1190 al 1210, con particolare riguardo alle battaglie condotte dalla Chiesa di allora per affermare il suo dominio sui regnanti del tempo e in special modo contro l'eresia catara, che proprio nel periodo in esame raggiungeva la sua massima espansione dottrinale, culturale, sociale e perfino politica, tanto da costringere il grande e controverso pontefice di allora, Innocenzo III, a bandire contro di essa una vera e propria guerra di sterminio, conosciuta ufficialmente come la crociata albigese, dal nome di una città non lontana da Tolosa, Albi, ritenuta a quel tempo il massimo del concentrato cataro, imperante tra l'altro non solo colà sebbene in tutta quella vasta regione della Francia autonoma del Sud e precisamente in quei territori che dall'Aquitania e passando per la Linguadoca si estendono fino alla Provenza.
L'esito di tale spedizione militare, come testimoniano le fonti storiche, fu alquanto catastrofico per il buon nome della cristianità, poiché, se da un lato le orde inferocite dei crociati riuscirono apparentemente a debellare gran parte dell'eresia, dall'altro bisogna fortemente denunciare che simile apparente successo (apparente perché nonostante tutto l'anima immortale del catarismo vive ancora quanto meno nella coscienza degli studiosi) fu raggiunto a prezzo di un immane versamento di sangue innocente. La carneficina di Beziers, consumatasi verso la fine del Luglio 1209, nella quale molte migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini furono passati al filo della spada, grida ancora oggi vendetta e giustizia dinanzi alla ragione umana.
Perché la Chiesa di Innocenzo III aveva dato l'avvio a questa sanguinosa e mostruosa caccia contro i catari? Quali profondi, oscuri e ineffabili significati si nascondevano dietro una così disumana e crudele persecuzione? Era davvero, l'eresia catara, tanto mortalmente pericolosa da giustificare un così atroce massacro di vite umane?
Come ben si può capire, si tratta di quesiti talmente ineludibili che uno storico degno di questo nome ritengo non possa impunemene tralasciare o peggio sottovalutare senza perdere di conseguenza la propria onestà e dignità di ricercatore imparziale.
Esaminando poi attentamente tutto ciò che si verificò realmente in quell'oscuro ventennio, mi sono imbattuto in almeno tre o quattro avvenimenti che mi propongo di rimarcare.
Nel 1190, l'anno fatidico dal quale muovono le mie indagini, un oscuro vescovo cataro di Concorezzo in Lombardia, un certo Nazario, porta in Italia dalla Bulgaria il cosiddetto secretum; di là, a quanto dicono i documenti che ho consultato, il testo passa nelle terre infestate dall'eresia della Francia meridionale, luoghi nei quali il catarismo stava ormai demolendo pezzo per pezzo tutte le credenziali morali e dogmatiche della Chiesa; si tratterebbe dell'apocrifo attribuito a Giovanni Evangelista: "Interrogatio Iohannis apostoli et evangelistae in cena secreta regni coelorum de ordinatione mundi istius et de Principe et de Adam"; il testo, forse originariamente redatto in greco e tradotto in lingua slava, sarebbe stato in seguito misteriosamente latinizzato e trasferito nell'archivio inquisitoriale di Carcassona, una delle molte altre località investite in pieno dalle armate crociate; sembra inverosimile, ma ho scoperto che subito dopo il passaggio in Europa di questo documento all'apparenza innocuo la storia di quel periodo subisce un'accelerazione portentosa, quasi che nel suo contenuto vi fossero rintracciabili in filigrana i segni inequivocabili di una terribile minaccia da sdradicare subito ad ogni costo; un altro particolare non meno inquietante di questa vicenda è che il testo del Nazario passa nelle terre interessate dall'eresia a quanto mi è dato di sapere pochi mesi prima dell'anno tragico e luttuoso del 1209, l'anno della crociata distruttiva contro i catari; la Chiesa voleva forse appropriarsi di tale documento?; e se sì perché?
Un altro evento che mi ha costantemente turbato nel corso delle mie indagini riguarda il barbaro assassinio del legato pontificio Pietro di Castelnau, a quanto dicono le fonti verificatosi nella Provenza in una data ancora controversa, comunque sicuramente da collocare tra il 10 Gennaio e i primi di Febbraio del 1208; già questa sola insicurezza sul giorno esatto dell'omicidio è una spia molto chiara del fatto che i grovigli attorno all'atto criminale in osservazione sono quanto mai corposi e bisognevoli di ulteriori approfondimenti; inoltre non appare allo stato credibile l'ipotesi che dietro la mano dell'assassino dell'alto dignitario papale ci fossero nientemeno che i catari, tanto più che questi dovevano pur sapere che l'eventuale sanguinosa dipartita del legato pontificio avrebbe di sicuro offerto a Innocenzo III la scusa per incendiare i territori infestati dall'eresia; si era trattato di un complotto orchestrato dall'alto per scatenare contro i catari la falce della morte crociata?; su questa vicenda, comunque, i pareri degli storici sono alquanto discordanti: alcuni affermano che l'ucciso si era fatto troppo audace e temerario nel combattere i focosi ribelli eretici, altri che si era fidato troppo del Conte di Tolosa Raimondo VI (al quale alcuni, se non altro quale istigatore occulto, imputano direttamente l'omicidio, anche per la strana coincidenza che prima dell'imboscata il legato aveva sostenuto dinanzi al nobile un burrascoso faccia a faccia sulle azioni da intraprendere per irretire con ancor maggiore durezza la proliferazione sempre più massiccia della cultura catara), altri ancora che era entrato addirittura in forte polemica con Innocenzo III riguardo i metodi da usare per combattere proficuamente l'eterodossia (non a caso esistono testimonianze scritte che rivelano come ad un certo punto della sua missione il Castelnau avesse perso d'incanto ogni speranza di poter abbattere in tempi brevi un così agguerrito gruppo di eretici, chiedendo addirittura di essere dimesso dal gravoso incarico); ad ogni modo (forse sto per scrivere una semplice illazione basata unicamente sulla mia fantasia) personalmente ritengo in buona fede che Pietro di Castelnau sia stato trucidato perchè ormai a conoscenza di reperti scritturali segretissimi appartenenti ai catari (del resto la storia ci tramanda che durante l'assedio all'ultima roccaforte catara di Montsegur alcuni eretici erano riusciti a fuggire portando con sé testi proibiti dei quali non si seppe più rintracciarne l'esistenza e l'ubicazione), libri che, se divulgati, avrebbero per sempre sotterrata e annientata la Chiesa fin nelle sue fondamenta; qualcuno aveva voluto chiudergli la bocca affinché non diffondesse quanto forse (?) appreso?; e se fossero stati proprio i catari a fargli visionare i misteriosi scritti per dimostrargli la veridicità e inconfutabilità dei propri convincimenti dottrinali e lui ne fosse rimasto talmente scosso da fargli commettere l'ingenuità di partecipare il suo cruccio in ambienti molto altolocati della gerarchia ecclesiastica, la quale pertanto avrebbe optato per la sua morte al fine di togliere di mezzo un testimone scomodo di così alto grado?
Ad ogni modo, a non tenere conto della dichiarazione di assoluta innocenza di Raimondo VI (che nonostante tutto venne presto scomunicato perché accusato di essere in un certo qual modo in combutta con i pericolosi eretici), credo in tutta franchezza che con questa vicenda delittuosa i catari c'entrino ben poco; d'altronde, seguendo fino alle estreme conseguenze questo mio ragionamento come detto un pò fantasioso ma non per questo da scartare a priori, io sono e resto dell'opinione che i catari, contrariamente a quanto si possa credere interpretando gli avvenimenti in maniera solo superficiale, avessero semmai tutto da guadagnare nel pubblicizzare i propri documenti da altri ritenuti "segreti", se non altro per cercare di attirare attorno alla propria causa il maggior numero possibile di simpatizzanti e credenti, specie nell'ambito feudale e della nascente borghesia del tempo oltreché degli ambienti clericali più progressisti e meno succubi della curia papale.
Ma i misteri non si esauriscono purtroppo a questi primi lati oscuri della materia che stiamo scandagliando. Vi è infatti un altro avvenimento non meno inquietante che merita di diritto la nostra attenzione e cioè la morte improvvisa per mano omicida del legittimo pretendente al trono imperiale germanico, Filippo di Svevia, trucidato quasi senza un perché e comunque per motivi futilissimi dal Conte di Baviera Ottone di Wittelsbach, verificatasi nel Giugno dello stesso anno 1208; ebbene, mi perdoni lo storico poco avvezzo alle fantasie galoppanti di un intellettuale "libero" quale io mi reputo, ma credo a questo punto che i due eventi criminali sui quali mi sto dilungando siano inestricabilmente legati da un unico filo conduttore, appunto dal testo misterioso trasportato in Europa dal vescovo cataro di Concorezzo, un documento magari purgato da riferimenti segreti colossali a ben altro testo ben più sconquassante, come del resto farebbe supporre il particolare già menzionato della frettolosa traduzione in latino operata sull'originale greco o slavo; risulta ormai peraltro pacifico che tra lo Svevo e Innocenzo III non corresse buon sangue e difatti fra di loro si sviluppò incomprensibilmente nel tempo una lunga guerra sotterranea fatta di velate minacce e oscuri intrighi, anche a causa dell'atteggiamento del pontefice il quale, nonostante Filippo fosse l'unico erede legittimo al trono imperiale rimasto vacante dopo la morte del fratello Enrico VI, si era inauditamente schierato contro tutte le ragioni di questo mondo per Ottone IV, circostanza che l'interessato aveva sempre bollata come indebita intromissione nei suoi sacrosanti diritti di successione; i loro focosi attriti (sui quali la storia è ancora ben lungi dall'aver fatto piena luce) sfociarono poi clamorosamente nel fallimento disastroso della IV Crociata deviata forse di proposito in quei territori bulgari del Bogomilismo, eresia, quest'ultima, dalla quale è ormai accertato presero le mosse i catari per sviluppare le loro dottrine, col risultato di vandalismi e saccheggi, specie a Costantinopoli, dalla quale città, a sentire alcuni studiosi degni della massima attendibilità, furono prelevati immensi tesori insieme a pergamene e papiri antichissimi non meglio specificati, documenti che ovviamente, al loro impatto con un'Europa impestata fino al midollo dalla ribellione ereticale, apportarono dal punto di vista religioso-dottrinale altri rivolgimenti e sommosse; cosa pensare inoltre della sospetta visita fatta da Alessio al cognato Filippo ben prima della crociata del 1204 per ottenere da questi aiuto militare contro lo zio che lo aveva ingiustamente spodestato dal trono bizantino?; quale allettante contropartita avrebbe offerto allo Svevo per sollecitarne l'appoggio?; perché questa deviazione improvvisa e fuori da ogni logica verso Costantinopoli nonostante e contro le direttive di Innocenzo III che per questa insubordinazione arrivò sinanche a scomunicare i capi stessi della crociata da lui nominati?; non lo sapremo mai; del resto, quasi ad evocare l'abisso diabolico di una verità da spegnere ad ogni costo, il registro principale nel quale sono riportati i più rimarchevoli avvenimenti del pontificato di Innocenzo III termina improvvisamente nel 1208, sempre quell'anno, un anno terribile intorno al quale ruotano i più spaventosi enigmi religiosi e filosofici dell'umanità.
Al di là di quanto fino ad ora riportato, esistono inoltre altre coincidenze non meno sinistre e interessanti che attengono questa volta alle oscure e controverse origini del cristianesimo. Per prima cosa non sono mai riuscito a capacitarmi della misteriosa circostanza della quasi totale assenza di scritti del principale discepolo di Gesù, Pietro, una delle più colossali assurdità storico-filologiche sulla quale ancora oggi gli specialisti non sanno dare una spiegazione plausibile. Perché, altra palese contraddizione, esistono poche lettere dei discepoli di Gesù, mentre di Paolo (che forse non lo conobbe personalmente) se ne sono conservate un così gran numero? E che dire del discepolo prediletto del Cristo, quel Giovanni Evangelista autore del quarto Vangelo, l'unico degno, secondo le credenze catare, di essere preso in considerazione perché pregno della narrazione dello scontro violentissimo tra Gesù e il Diavolo? E perché proprio Giovanni, che ha fondato il suo Vangelo sul predetto scontro tra la Luce e il Principio delle Tenebre, non fa in esso alcuna menzione delle cosiddette tentazioni demoniache a cui fu sottoposto il Nazareno e delle quali parlano invece Matteo, Luca e succintamente Marco (sul cui Vangelo alcuni studiosi avanzano addirittura la tesi che sia stato dimezzato)? è razionalmente sostenibile l'ipotesi (avanzata da illustri filologi ed ermeneuti) che il Vangelo di Giovanni sia stato purgato in quelle parti più scopertamente gnostiche e manichee?
Questa controversia sulle tentazioni di Gesù è in effetti uno, se non addirittura il principale mistero della sua vita terrena. Ci fu davvero un incontro a quattr'occhi tra Gesù e il Diavolo? I Vangeli sinottici, come detto, ce lo confermano in pieno. Ma su cosa si sono basati per descriverlo? Su un riassunto orale del Messia? Oppure, cosa assai più inquietante, su un documento scritto di pugno dallo stesso Cristo in persona? è mai possibile che il Figlio di Dio non abbia lasciato proprio nulla di sua mano per evitare che la sua religione venisse annacquata o peggio spudoratamente mutilata dai suoi poco cristiani indegni successori?
Insomma, tanto mi accanii in quei meandri oscuri della storia e della riflessione filosofica che ero quasi sul punto di cedere dinanzi al sempre più vistoso indebolimento delle mie forze psico-fisiche. Ma ripetendo ogni secondo a me stesso che sarebbe stata solo vigliaccheria intellettuale abbandonare a quel punto i miei sinceri conati di giungere a respirare un pò di quel gradevole Profumo di Verità che già sentivo aleggiare in quegli studi cruciali, mi rituffai a capofitto nell'impresa, deciso ad ogni costo (contrariamente al parere di un mio vecchio amico psicologo che mi consigliò vivamente di prendermi un periodo di vacanze) a conseguire un qualsiasi seppur minimo successo che squarciasse quanto meno una parte del velo di cotanti sinistri arcani; e fu così che, roso fin nel più profondo di me stesso dall'ansia e dal presentimento che in quella crociata cosiddetta "albigese" si celasse il più grande mostruoso segreto della storia umana, dopo diversi fallimentari abboccamenti con i responsabili degli archivi vaticani (le gerarchie della curia romana mi respinsero subito non appena sentirono nominare quell'eresia sepolta dai secoli), nella mia qualità di studioso di cristosofia esoterica e di professore emerito di storia medievale presso l'Università di Milano chiesi ed ottenni dalle autorità clericali del capoluogo lombardo (che da tempo si erano fatti garanti della mia dirittura morale e dottrinale) di poter liberamente indagare su quella tenebrosa vicenda. Ricordo comunque che prima che mi venisse concesso una sorta di salvacondotto culturale per poter liberamente accedere in tutte le biblioteche e in tutti gli archivi documentali che avessi ritenuto opportuno visitare la Chiesa di Roma fece diversi passi molto ostili nei miei confronti, intimando praticamente ai miei mallevadori clericali milanesi di riconsiderare attentamente il permesso accordatomi, ma alla fine fu costretta alla desistenza previa comunque la loro promessa, messa a verbale e ritenuta vincolante per la loro stessa onorabilità, che qualsiasi studio avessi voluto pubblicare su quelle delicatissime tematiche sarebbe stato prima passato al vaglio delle autorità vaticane, alle quali si assicurava la prerogativa di promuoverlo o di bocciarlo senza appello.
E così ebbe inizio il mio calvario. Rovistai e passai al setaccio decine e centinaia di biblioteche di mezza Europa, visitai come un ossesso conventi e monasteri in qualche caso persino diroccati e abbandonati all'usura del tempo, ma tutto sembrava vano, non una sola frase, un solo riferimento che mi facesse presagire l'uscita dal tunnel nel quale mi ero cacciato.
Ebbi un lungo periodo di scoramento, cominciai a maledire il giorno in cui mi ero fisso in testa di indagare su argomenti così maledettamente ostici ed in effetti stavo quasi per allentare la presa allorché un giorno si presentò nel mio studio, invaso da montagne di volumi sul catarismo, un mio collega universitario (al quale avevo imprudentemente ma anche fortunatamente partecipato il tenore delle mie forsennate ricerche) con in mano un vetusto codice aristotelico che si disse sicuro avrebbe colpito la mia immaginazione. Affermò che gli era stato prestato in visione da un suo conoscente collezionista di reperti medievali e che quindi entro massimo quindici giorni avrebbe dovuto restituirglielo. Si trattava di un documento apparentemente di quasi nessuna importanza in quanto riportava una delle opere meglio conosciute dello stagirita, un trattato filosofico su argomenti metafisici che io stesso avevo avuto modo di visionare e studiare in ben altro pregiato codice.
Ma non era sul reperto in sé stesso e sul suo contenuto che intendeva attirare la mia attenzione, bensì su una breve microscopica annotazione in latino che compariva sul margine inferiore di una delle tante pagine del volume, forse un fugace dilemma, oppure una traccia lasciata di proposito da un monaco o da un lettore clandestini particolarmente solerti mentre lo copiavano, miniavano o leggevano pensando a tutt'altro genere di cose. Il mio collega aprì dinanzi a me il codice e, alla pagina 33, mi fece osservare una minutissima scrittura corsiva che era destinata ad incendiare per sempre la mia curiosità: "Monacus Favera nomine, clarus litteratus, suum scriptum de catharorum excidio, a secreto papyro suscitato".
Non appena lessi quella postilla fu come se tutta l'acqua del mare (come narra una leggenda agostiniana) entrasse nella mia piccola testa di studioso, saltai letteralmente sulla sedia e abbracciai calorosamente il mio collega, ringraziandolo di cuore per il suo inaspettato e miracoloso interessamento. Ad un tratto mi parve di essere ad un passo dalla Verità. Era adesso assolutamente vitale scoprire chi era davvero questo monaco e se esistevano notizie storiche a suo riguardo. Ma prima era necessario accertarmi dell'autenticità di quella nota per fugare ogni dubbio sulla sua possibile utilizzazione. Poteva infatti trattarsi di una sorta di depistaggio o peggio ancora di uno scherzo di cattivo gusto. Ma un mio amico scienziato al quale chiesi di esaminare la postilla in questione (uno dei massimi esperti italiani di tecniche chimico-fisiche per la datazione esatta di scritture antiche) affermò senza ombra di dubbio che sia l'inchiostro usato nel testo per copiarlo e miniarlo e sia soprattutto la breve annotazione risalivano più o meno al 1400, un periodo storico apparentemente incongruo visto che il catarismo ufficiale scompare quasi del tutto intorno al 1350, ma non per questo del tutto incomprensibile, poiché era possibile, anzi certo, che questo Favera avesse redatto il suo quasi testamento magari negli anni dieci o venti del tredicesimo secolo per poi ovviamente nasconderlo come per affidarlo ai posteri. Pubblicare in vita uno scritto di tal genere, naturalmente, lo avrebbe esposto come minimo al carcere perpetuo, in caso di abiura, e al rogo in caso di ammissione della paternità dello stesso.
Siccome dunque il codice aristotelico era stato redatto verso la fine del quattordicesimo secolo in un convento di Tolosa ed appariva essere stato prelevato nel 1943 dagli archivi dell'arcivescovado della stessa città francese (tutti particolari che si evincevano dalla lettura di altre maldestre note corsive poste sul frontespizio insieme a due timbri di diverso stampo ancora leggibili che testimoniavano dell'anno del suo trafugamento verosimilmente in seguito al trambusto provocato dalla guerra mondiale in corso e la sua appartenenza ai beni librari della stessa sede diocesana), conclusi che era proprio lì che dovevo concentrare le mie indagini (in effetti lo avevo già fatto con scarsissimi risultati) poiché era a questo punto ipotizzabile che gli archivi stessi da cui proveniva il testo contenessero ben più interessanti riferimenti alle tematiche da me così cocciutamente inseguite; del resto Tolosa era stata il centro del potere politico del Conte Raimondo VI, come si sa un uomo non molto lontano dalle idee catare, una circostanza ormai quasi pacifica che in ogni caso non gli avrebbe impedito di intrattenere nonostante tutto buoni rapporti con le autorità clericali della sua città. Non era dunque fuorviante immaginare che, date le sue eretiche frequentazioni e la sua altolocata posizione, il Conte avesse coperto con la sua autorità determinate persone imbevute di catarismo magari con la copertura "cattolica" delle predette autorità ecclesiastiche tolosane.
Riflettendo quindi su tutte queste coincidenze temporali e spaziali e ancor più persuaso della pista da seguire a seguito di una comunicazione anonima nella quale, con voce artificialmente alterata, un oscuro telefonista si disse pronto ad aiutarmi nel caso mi fossi degnato di sfruculiare meglio negli archivi arcivescovili di Tolosa (una telefonata che mi spaventò non poco ma che non fu in grado di bloccare a quel punto cruciale le mie ricerche), decisi allora di rompere ogni indugio e di ritornare laddove come detto ero già stato senza successo. M'imbarcai quindi sul primo aereo diretto a Tolosa e qui giunto alloggiai senza dare nell'occhio in un lussuoso albergo del centro. Ricordo ancora con un certo senso di angoscia quanto mi accadde la notte dopo l'arrivo in quell'hotel, allorché fui svegliato da diversi colpi alla porta della mia stanza, come se qualcuno avesse avuto l'intenzione di conferire col sottoscritto, un fatto quanto mai inquietante che mi lanciò per sempre nel regno dell'ignoto e che dimostrava, quand'anche ce ne fosse stato bisogno, che qualcosa di veramente losco si stava profilando all'orizzonte. Ma io non mi feci abbattere da tale pur spaventosa circostanza, anzi, sommandola alla telefonata anonima di cui ho accennato, conclusi che se pur esisteva un giustificato motivo per temere qualche brutta sorpresa, era altresì ancor più necessario moltiplicare i miei sforzi e il mio coraggio, a non tenere conto del fatto che in quell'intromissione telefonica si parlava apertamente di aiuto e non di disturbo alle mie indagini.
L'indomani mattina, quindi, munito come sempre del salvacondotto delle autorità religiose milanesi, mi premurai a recarmi di buon'ora nel palazzo dell'arcivescovo di Tolosa. Questi, un uomo alto e massiccio che incuteva timore per la sua stazza e che mi conosceva bene per avermi già permesso almeno altre cinque volte di consultare l'archivio sotterraneo della sua sede diocesana, si mostrò dapprima assai sbalordito nel vedermi ricomparire, mi fece un sacco di domande sui risultati fino ad allora apparentemente conseguiti dalle mie ricerche eresiologiche e alla fine, questa volta a malincuore e visibilmente contrariato dalla mia testarda insistenza nell'inseguimento ossessivo di quelle tematiche "sul filo del sacrilego", mi diede alquanto titubante l'ennesimo assenso, stavolta però decidendo a sorpresa di farmi accompagnare da un alto prelato di sua fiducia, come se la mia reiterata volontà di consultazione dell'archivio bibliotecario cominciasse a suonargli un pò strana e foriera di risvolti poco desiderabili.
Seguito quindi come un'ombra da colui che forse aveva ricevuto l'ordine tassativo di marcarmi questa volta strettamente, giungemmo infine nell'ampio salone dell'archivio odorante pesantemente di stantio e umidume e come sempre mi disposi in maniera tranquilla (ma con una lieve fitta al cuore sintomatica di un senso inconscio di panico) a consultare gli antichi reperti medievali di mia competenza negli scaffali appositi. Subito, rispetto alle visite precedenti, ebbi l'impressione che qualcosa fosse stato di proposito manomesso, alcuni codici in pergamena e vari testi papiracei non li trovai più al posto di prima, bensì molto più distanti e in qualche caso mischiati a volumi più moderni posti su altri scaffali, un particolare che non ebbi il coraggio di palesare al prelato per non metterlo in imbarazzo, ma che nel mio intimo provocò non poco fastidio, come se qualcuno, prevedendo le mie mosse, avesse a ragion veduta cambiato di posto i testi per allontanarli dai miei occhi e dalla mia curiosità. Ero quasi bloccato dinanzi ad uno scaffale nel quale ero sicuro di avere precedentemente intravisto un'opera di un qualche interesse per le mie specifiche indagini storiche quando, spostando inavvertitamente gli occhi verso l'interno più in ombra dell'ampio locale, inquadrai la figura di uno strano personaggio muoversi furtivamente verso l'entrata di quello che aveva tutta l'aria di essere una specie di bugigattolo annesso all'archivio, all'esistenza del quale non avevo mai fatto caso. Sicuramente (lo arguii dal fatto che il prelato si comportava come se in quello stanzone ci fossimo solo noi due) si trattava di un intruso in incognito, non si sa come entrato né perché nell'archivio.
Quel che accadde subito dopo, però, fugò ogni dubbio sulle sue intenzioni. Successe tutto in pochi secondi: prima che il prelato potesse rendersi conto degli eventi che a sua e mia insaputa si stavano materializzando, udimmo entrambi nitidamente un tonfo attutito provenire dalla cameretta annessa all'archivio, per cui ci precipitammo insieme nervosi verso la provenienza dell'imprevisto rumore, ma l'intruso, prevedendo il tutto, attese che io entrassi per primo nel ripostiglio, dopodiché, facendo uso di una tecnica di bloccaggio come fosse un esperto di arti marziali, con un braccio alla cintola e l'altro su una spalla con una mano a chiudergli la bocca immobilizzò il mio accompagnatore come una statua, aspettando nel contempo che io dessi un'occhiata al fascio di documenti pergamenacei che da quel che cominciavo a capire aveva fatto volutamente cadere a terra per attirare su di loro la mia attenzione. Ebbi quindi modo di afferrare il malloppo, di svolgerlo su di un piccolo tavolo e quindi di leggere una sorta di carteggio medievale a quanto pare intercorso tra alti dignitari dell'ordine dei predicatori appena fondato e vari abati e priori del periodo, proprio di quel lasso di tempo che più mi tormentava per le sue quanto meno equivoche implicazioni storico-religiose. Le date si presentavano infatti quanto mai allettanti per la loro strabiliante coincidenza con i fatti da me tanto accanitamente approfonditi: Giugno 1208, Agosto 1208, Ottobre 1208, Novembre 1208, Gennaio 1209, Aprile 1209, Maggio 1209, Luglio 1209... Quasi senza alcuna fatica i miei occhi caddero sul nome che cercavo: Favera. Lessi traducendo mentalmente dal latino: "è assolutamente vitale fermare quest'uomo, è l'unico che a quanto sembra è riuscito a far perdere le sue tracce dopo la sua rocambolesca fuga dall'Abbazia di Fonts de Bratin e dopo specialmente aver quanto meno visionato il pericolosissimo 'secretum' aramaico, trafugato criminosamente da questa sede monastica; gli altri, come sapete, li abbiamo bloccati in tempo e seppure a conoscenza del terribile documento li abbiamo neutralizzati, qualcuno mandandolo al rogo, qualcun'altro costringendolo all'abiura e al carcere perpetuo. Raimondo VI, come sapete, destinatario a quanto sembra del documento illegalmente prelevato, ce lo ha restituito e dopo intense e prolungate interrogazioni abbiamo appurato che non è riuscito a farsi fare dal criminale eretico la tanto agognata traduzione dall'aramaico. Se non riuscissimo ad arrestarlo in tempo sarebbe la fine. Tutti questi massacri di catari non saranno serviti a nulla e l'eresia, magari, rialzerà un giorno di nuovo la testa, apportando altri lutti e tragedie forse peggiori dei precedenti. Il suo nome lo conoscete: Favera. Agite. Ne va della vita di tutti."
Come sentisse che avevo terminato quella lettura proveniente dal buio passato, l'oscuro personaggio a questo punto lasciò la presa del prelato e se la diede letteralmente a gambe, scomparendo in un baleno come un fantasma, dopodiché, di nuovo libero, il malcapitato chierico mi si avvicinò furioso strappandomi letteralmente di mano il documento appena letto, rimproverandomi di averlo visionato e quasi intimandomi di dimenticarlo al più presto pena la mia stessa incolumità fisica. Aggiunse che questa era l'ultima volta che venivo ammesso alla consultazione dell'archivio e che d'ora innanzi era meglio che non mi facessi più vedere in giro. Non sapeva se denunciare il fatto al cardinale di Tolosa in persona, ma se avessi giurato di non far parola ad alcuno di quanto appena scoperto ci avrebbe pensato sopra per non aggravare la mia già delicatissima posizione. Io giurai, al ché l'altro si premurò di consigliarmi di tornare "al più presto possibile" nella mia città natale "per restarci per sempre".
Quale non fu la mia meraviglia quando, ritornato nell'albergo come dopo un incubo ad occhi aperti, vi trovai nella mia stanza, comodamente seduto su una poltrona, proprio la persona che aveva così 'gentilmente' maltrattato l'alto dignitario clericale! Era un uomo di bassa statura un pò corpulento, portava occhiali scuri più ampi del normale che parevano incollati al viso, dando la strana impressione di esserne una vera e propria protesi inamovibile. Mi guardò un pò curioso sorridendo del mio ovvio sbalordimento e all'improvviso, come mosso da una molla a tempo, si alzò dalla poltrona, si avvicinò al tavolo della stanza e lasciò cadere sul ripiano, dopo averlo tolto lentamente da una larga tasca interna del suo giaccone, un vetusto e rozzo tomo pergamenaceo dalla rilegatura e cucitura mezzo spappolate dal trascorrere dei secoli.
Mentre io lo guardavo attonito incapace di una qualunque reazione, chiedendomi mentalmente chi fosse in realtà quel personaggio e perché mai avesse deciso di intervenire nella mia vicenda personale senza esserne richiesto, l'altro incominciò freddamente a parlare con una voce cavernosa che pareva provenire dai più reconditi anfratti di una foresta: "Non dovete più far nulla. Ecco il vero reperto che cercavate. Dovrete solo tradurlo dal latino. è una capacità che non vi manca. Si tratta dell'unico documento esistente al mondo in grado di far piena luce sul mistero del catarismo. è stato manoscritto intorno al 1212 da un monaco il cui nome già conoscete: Favera." Io lo ascoltavo marmoreo come sotto un incantesimo. L'altro potè quindi proseguire indisturbato: "Come ben riconoscerete leggendo la cronaca riportata in questo raro e in un certo senso pericoloso volume, questo coraggioso monaco a cui tanto deve l'umanità ha quanto meno visionato il contenuto di un papiro fortemente temuto dalla Chiesa. Si tratta a quanto sembra dell'unica opera scritta di pugno da Nostro Signore Gesù Cristo in persona e da quel che si può arguire leggendo l'intestazione della traduzione latina operata da Favera sull'originale aramaico si può approssimativamente certificare che sia stata donata in segno di indefettibile intimità al suo amato discepolo Giovanni, affinché non la desse in mani profane. Dopo averla trafugata insieme ad altri monaci catari presenti in incognito in un'abbazia che si chiamava "Fonts de Bratin", l'ha portata dinanzi al Conte di Tolosa Raimondo VI, in un castello debitamente fortificato all'uopo. Del terribile papiro non si è saputo più nulla. Forse, come fa supporre Favera in questo scritto, è stato sequestrato a Raimondo VI e in seguito distrutto o forse è stato seppellito nel più profondo dei pozzi più profondi per non turbare i sonni di Innocenzo III e della sua depravata Chiesa. Forse verrà il giorno in cui lo potremo leggere integralmente e solo allora, credo, la Chiesa di Roma crollerà definitivamente portando nella sua tomba la sua ineguagliabile impostura. Se quel giorno verrà, ed io me lo auguro, sapremo finalmente chi era realmente Gesù e il Dio di Luce di cui era Figlio. Come sono giunto in possesso di questa pergamena è una questione che ci porterebbe troppo tempo ed io purtroppo ne ho assai poco, visto che sono tenacemente inseguito dai servizi segreti di mezza Europa che ovviamente ci penserebbero ben poco prima di farmi la pelle. Ad ogni modo qualcosa debbo pur dirvela. Sappiate adunque, che lo crediate o meno, che io sono un lontano discendente di una delle tanti ramificazioni genealogiche dei congiunti dell'autore di questo volume segreto. Sono riuscito ad individuare le mie antiche origini assoldando una quindicina di anni addietro (mosso in ciò da un misterioso sogno credo di natura paranormale nel quale un monaco dalle fattezze molto simili alle mie mi invitava a portare alla luce un'opera da lui scritta attinente al problema del catarismo) il maggiore esperto antenatologo in circolazione qui in Francia, il quale, a ricerche terminate, mi rivelò contemporaneamente di avere scoperto che tra i miei antenati degli anni settanta del quattordicesimo secolo ve n'era uno che era morto sotto tortura in un carcere dell'Inquisizione qui vicino a Carcassona, verosimilmente perché accusato di essere uno degli ultimi catari esistenti in quel periodo, in quanto è risaputo che questa eterodossia scompare praticamente dalla Francia e dall'Europa intorno al 1350, anche se ovviamente qualcuno in clandestinità continuava a studiare e a praticare le dottrine e i rituali di questi presunti eretici. Essendo anch'io uno studioso appassionato nel campo eresiologico medievale (a questo punto da intendersi come una specie di inconscia reminiscenza delle mie remote radici genealogiche) ho voluto vederci chiaro in questa scoperta comunicatami che andava stranamente ad avvalorare il sogno poc'anzi riferito e così decisi di affiancare allo studioso antenatologo, ovviamente sborsando un'altra ben più ingente somma di denaro per convincerli a lavorare per me, una vera e propria squadra di archeologi, bibliofili, latinisti, storici e filologi, tutti cultori medievalisti, ordinando loro di scavare approfonditamente e nel massimo segreto nel periodo temporale in cui nacque e si sviluppò fino all'estinzione sanguinosa il catarismo, allo scopo magari di scoprire chi era davvero quel mio antenato incarcerato dall'Inquisizione, e perché mai lo avessero ucciso. Non credo sia a questo punto indispensabile svelarle tutti i retroscena e le peripezie affrontate da questi illustri studiosi, le dirò soltanto che dopo cinque anni di intense e accanite indagini nel periodo in esame, gli interessati vennero un giorno da me felici come una pasqua e mi donarono la pergamena che vi sta dinanzi. In verità non sono certo che si tratti dell'originale scritto di pugno dal monaco Favera, è logico infatti presumere che dell'opera siano state riprodotte diverse copie, sia per dare maggiore diffusione al testo e sia soprattutto per confondere l'Inquisizione impedendole di distruggere l'opera, evidentemente temuta e ricercata con tutte le forze. Ricordo che dopo poche settimane da quella clamorosa donazione alcuni esperti della squadra che avevo messo in piedi (gli altri sparirono dalla circolazione e non riuscii più a rintracciarli) furono trovati impiccati nelle proprie abitazioni, di sicuro assassinati o costretti al suicidio dagli stessi che ora mi danno la caccia, tanto da obbligarmi a cambiare di volta in volta residenza e identità per depistarli. Ma forse sto anticipando troppe cose della storia scritta in questo scrigno della sapienza medievale. Questo testo è vostro, ve lo siete meritato. Io non potrei tenerlo oltre, ne va della mia stessa vita. Ne farete l'uso che riterrete più opportuno. Non ho più niente da dirvi. Addio!" e così dicendo lo sconosciuto si allontanò con passo svelto verso la porta e sparì come un'ombra senza neppure voltarsi a darmi un segno di incoraggiamento; mi avrebbe fatto molto piacere, ora che tenevo con me una vera e propria bomba a orologeria.
Tornato subito in me stesso, mi mancò persino il coraggio di aprire la pergamena, l'avvolsi nervosamente in una tovaglia, la depositai nella valigetta da viaggio e la sera stessa ritornai in Italia, giurando a me stesso che mai più avrei messo piede fuori dal mio nido di Milano, anche se ovviamente con un malloppo del genere in mano nessuna città di questo mondo sarebbe stata in grado di garantirmi la sicurezza assoluta della mia esistenza.
Giunto ad ogni modo nel capoluogo lombardo, mi chiusi a chiave e per ben settantadue ore non mangiai né dormii fintantoché non ebbi completato la traduzione e la lettura devastante del manoscritto proibito, il cui frontespizio ricalcava la stessa annotazione presente nel codice aristotelico di cui abbiamo parlato alla pagina 33: "Monacus Favera nomine, meum scriptum de catharorum excidio, a papyro secreto suscitato." Lascio dunque a Favera il palcoscenico della narrazione e lo faccio volentieri. Da questo momento in poi ogni responsabilità di tutto quanto seguirà è demandata a Lui e a Lui soltanto.

Non so ancora quanto mi resti da vivere; poco però, ritengo, dato che ho deciso che non appena avrò terminato il resoconto della storia che mi accingo a scrivere mi sottoporrò volontariamente al rito cataro dell'Endura per morire degnamente e per evadere definitivamente da un'esistenza alla quale non oso più chiedere nulla, del resto sono precocemente invecchiato e stanco fino al midollo di questa vita crudele e diabolica. Non so se avrò le forze di portare a compimento la cronaca delle giornate cruciali che mio malgrado mi videro protagonista. Della lettura forzatamente fugace del papiro misterioso conservo fortunatamente ancora un vivido ricordo, grazie anche ai copiosi appunti che ho tutti raccolti qui davanti a me su questo tavolo fatiscente all'interno di una capanna di canne che mi sono costruita in fretta in questa fitta boscaglia molto distante da Tolosa per sfuggire alle ire della Santa Inquisizione che sono certo mi dà ancora la caccia. Questi appunti dunque mi consentono ora di redigere con una certa padronanza del tema tutto quanto mi capitò in quei terribili mesi del 1208 e del 1209, allorquando, con l'aiuto di alcuni monaci catari in incognito e con l'intervento diretto di alti personaggi politici del tempo (a cominciare dal Visconte Raimondo-Ruggero di Trencavel e dallo zio Raimondo VI di Tolosa), riuscii a mettere le mani sull'unica opera di Gesù Cristo che si conosca: "Meae doctrinae expositio ad amatum meum discipulum idoneum unum Iohannem qui penitus accipere posset eam, de tenebrosis mysteriis mundi creationis quam Diabolus fecit, a me ipso scripta Iesu Christo nazareno, Dei Lucis Filio, Pilato regente imperanteque romano Tiberio."
Purtroppo, come in un certo senso accennato, non ho avuto modo di studiare a fondo il contenuto del papiro per gli eventi precipitosi entro i quali dovetti svolgere quel compito delicatissimo, ma il ricordo terrificante di quella lettura seppur sommaria è di quelli che sono destinati a restare per sempre indelebili nella memoria. Ora so. So che la vita è un inferno e che siamo approdati in questo pianeta soltanto allo scopo di offrire in olocausto il nostro sangue ad una divinità talmente oscura e sanguinaria da far venire i brividi, per non dire di peggio. Il papiro cristico me lo ha confermato in maniera inequivocabile e spietata.
Dopo averlo velocemente ma parzialmente tradotto dall'aramaico in latino (sotto l'impellente richiesta del Conte di Tolosa in persona che mi dette appena dieci giorni di tempo per la traduzione in quanto i crociati erano sulle nostre tracce e si temeva seriamente per la nostra vita), l'ho meditato a lume di candela per ben quarantott'ore lunghissime all'interno di un castello fortificato messo a mia disposizione dal potente nobile, venendo subito catapultato in una concezione della vita e del cosmo quanto mai scardinante di ogni possibile immaginabile pace spirituale. La Chiesa di Innocenzo III, certo, non lo ammetterà mai, ma il titolo sopra riportato dell'opera di Gesù (sulla cui autenticità e attendibilità, ovviamente, mai vi potrà essere la certezza assoluta, ma a questo punto ciò conta relativamente) suona quanto mai lugubre per l'odierna cristianità affogata nella depravazione più vergognosa e forse ormai incapace di alzare la testa dal fango nel quale è precipitata di sua propria iniziativa. Da tutto quanto precede e da quel che si dirà in seguito, si può ormai affermare senza tema di essere smentiti che la sanguinosa e obbrobriosa crociata contro la cosiddetta 'eresia' cataro-albigese, promossa a partire dal Marzo 1208 e materializzatasi nel Luglio 1209, è stata organizzata proprio allo scopo di trovare e distruggere il papiro di cui si tratta, un reperto storico-filosofico evidentemente ritenuto talmente distruttivo dalla Chiesa da poter mettere in serio pericolo la sua stessa esistenza e ragion d'essere. A quanto posso immaginare, Raimondo VI o chi per lui, avendo saputo da sicure fonti che prima di investire Beziers (non a caso dai crociati definita Covo del Diavolo) i crociati si sarebbero lanciati come furie contro l'abbazia di Fonts de Bratin per impossessarsi manu militari del papiro in oggetto, convinse il nipote Raimondo-Ruggero di Trencavel ad adoperarsi presso l'abate Cudecro affinché mi desse in custodia il prezioso documento prima che cadesse nelle mani degli attaccanti. L'abate, alla cui cura era stato a suo tempo affidato il testo affinché non lo mostrasse ad anima viva, si mostrò alquanto offeso da simile richiesta e per far capire quanto lo era minacciò i querelanti di denunciarli tutti alla nascente Inquisizione insieme al sottoscritto ed altri monaci sospetti d'eresia, ma quando le avanguardie assatanate dei crociati raggiunsero e irruppero nell'abbazia trucidando a sangue freddo lui e un gran numero di monaci, essendo stati informati precedentemente di una via segreta di fuga, io e i miei aiutanti, dopo aver trafugato il papiro nascosto in una segreta sotterranea della biblioteca, riuscimmo a scappare appena in tempo utilizzando un cunicolo che da sotto le fondamenta del monastero sfociava nella fitta boscaglia e lì giunti fummo presi in consegna dai soldati di Raimondo VI che ci offersero i loro migliori destrieri con i quali, protetti in cerchio da quei cavalieri pronti a tutto pur di difenderci, cominciammo a galoppare con una certa celerità, ma ogni tanto, voltandoci, potevamo osservare distintamente le lunghe lingue di fuoco che si levavano dall'abbazia, a quanto poi seppi in seguito distrutta e incenerita insieme ai suoi innocenti occupanti.
Dopo diverse traversie raggiungemmo infine il castello fortificato poco fa menzionato e qui, in quanto unico esperto della lingua aramaica, fui ricevuto in pompa magna dal Conte di Tolosa, che mi pregò seduta stante di accomodarmi in una stanza già predisposta per procedere immediatamente alla traduzione del papiro, un compito certo non facile, data l'estrema complessità della lingua parlata da Gesù, che necessitò di lunghissime ore di accanite concentrazioni linguistiche e intellettuali, allorché il fortino venne accerchiato da almeno mille crociati che evidentemente erano sulle nostre tracce perché presumibilmente imbeccate da spie meschine e prezzolate. Ricordo ancora come fosse ieri le urla concitate di un messaggero dei crociati che esigeva seduta stante da Raimondo VI la restituzione del papiro pena la distruzione del maniero e di tutti i suoi momentanei inquilini (proprio in quel frangente io mi trovavo in una stanza attigua al salone nel quale il messaggero stava urlando il suo ultimatum). Il bravo e intelligente Conte si difese come meglio poté, negando dapprima che il papiro si trovasse nel Castello di sua proprietà, ma quando nella discussione s'intromise una spia che dichiarò di avermi visto con altri monaci entrare nel maniero con qualcosa di grosso sotto le ascelle alla fine dovette cedere all'evidenza e ammettere la propria responsabilità, garantendo subito dopo al focoso inviato crociato che fra non molto avrebbe soddisfatto tutte le richieste dell'armata assediante, a cominciare proprio dalla restituzione dell'antichissimo documento cristico. Per quanto riguardava la mia persona, aggiunse però, nonostante fossi ricercato come uno dei più pericolosi fuorilegge catari, non poteva fare lo stesso, poiché aveva dato la sua parola d'onore che nessuno avrebbe osato togliermi un capello. L'emissario, nonostante quest'ultima negazione, parve un pò rabbonirsi e si disse d'accordo, ma intimava al Conte di sloggiarmi al più presto dal Castello esigendo nel contempo la facoltà per i crociati di braccarmi fino alla cattura vivo o morto. A questo punto per il nobile Raimondo VI fu giocoforza piegarsi, troppi erano gli armati per poter resistere più di due o tre giorni all'assedio, cosicché, fatto accomodare il messaggero in un'ala distante del Castello, gli disse che aveva bisogno di almeno due ore per poter ottemperare alle richieste ultimative. Poco dopo venne a trovarmi con le lacrime agli occhi, mi abbracciò come un fratello, volle che gli ripetessi oralmente alcuni passi capitali appena tradotti del papiro, dopodiché me lo tolse lentamente dalla mani, mi fece indossare abiti civili, mi affidò alla cura di un drappello delle sue migliori guardie armate e ci indicò l'unico passaggio attraverso cui sfuggire all'assedio dei crociati, dandomi in ultimo un salvacondotto per poter più speditamente allontanarmi da tutte le zone infestate dalle bande disordinate degli occupanti e con un bacio mi consigliò infine per il mio bene di non mettere più piede in "queste terre preda del Demonio."
Dopo che riuscii con molta fatica a raggiungere un territorio molto a nord di Tolosa praticamente lontanissimo dal campo di battaglia e dal raggio d'azione dei miei inseguitori, vissi per alcuni anni in clandestinità, vivendo d'elemosina e cercando in ogni maniera di depistare i miei segugi scatenati forse da Innocenzo III in persona in tutta la Francia e fors'anche al di fuori dei suoi confini, finché il destino non mi convinse che oramai non sembravano esserci più serie minacce alla mia incolumità fisica e pertanto decisi di fermarmi in questa capanna apparentemente sicura in mezzo ad una foresta che orientativamente dovrebbe trovarsi in una zona della Francia centro-settentrionale a non meno di trecento chilometri a sud di Parigi.
Da questa sorta di finestra sul mondo ho potuto essere informato da viandanti e sbandati di tutte le vicende susseguenti alla mia fuga, notizie agghiaccianti di eccidi e massacri indiscriminati di catari di ogni età e ceto che ancora non riesco a comprendere per la gratuita inusitata truculenza con la quale vennero eseguiti. Su tutti spicca la carneficina di Beziers. Come mi fu raccontato da un profugo di quella città (forse uno dei pochi scampati al macello), tra il 20 e la fine del Luglio 1209 (quindi dopo pochi giorni dalla mia forzata partenza dal Castello del Conte di Tolosa) l'intero concentramento urbano venne selvaggiamente investito dai crociati che bruciarono e devastarono ogni sua pur piccola porzione. Diverse migliaia di uomini, donne, vecchi e persino bambini furono scannati con inaudita ferocia e quelli che non si potè massacrare perché la stanchezza della mattanza si fece ad un certo punto sentire furono riuniti sul più grande catafalco che la storia ricordi e dati alle fiamme in una sola volta, con urla strazianti di dolore che si potevano udire a distanza di chilometri, uno scempio diabolico che continua ancora oggi e che mi porta a ritenere che il papiro fonte di tutte le rovine dei catari, sebbene forse sequestrato a Raimondo VI, sia tuttora in circolazione di nuovo sfuggito dalle mani dei crocesegnati.
Ovviamente questa storia, data la situazione disastrosa che sta vivendo la Francia meridionale, non potrà mai in questo periodo vedere la luce della divulgazione, siamo ancora nel 1212 e il catarismo, sebbene abbia subito colpi devastanti, appare ancora ben lungi dallo scomparire. Dopo averla collocata in una piccola cassetta di metallo, è mia intenzione quindi seppellirla ben in profondità nella terra battuta di questa capanna. Visto il clima che si respira, non mi servirò del servizio postale, ma io stesso farò una capatina di nascosto presso la casa di Parigi dove vive uno dei miei fratelli maggiori, con l'intenzione di donargli una mappa dettagliata dell'ubicazione esatta della capanna affinché, passati questi anni bui e almeno dopo un secolo che sarò morto, permetta ai suoi discendenti diretti di riportarla alla luce del sole per farla circolare segretamente se possibile proprio a Tolosa e dintorni, poiché è mio desiderio che con questa testimonianza possano in un certo senso essere vendicati quanti furono tolti dal mondo con tanta disumana crudeltà. Ritornerò quindi nella mia modesta dimora forestale, poiché è chiaro che con la mia sola presenza a Parigi potrei mettere a repentaglio l'incolumità fisica della famiglia del mio caro congiunto.
Ma passiamo adesso al nocciolo duro della narrazione.
La storia ebbe come teatro la nuovissima abbazia di Fonts de Bratin, distante appena quattro-cinque chilometri dal centro eretico di Beziers, costruita a tempo di record un quarantennio prima dalle autorità cattoliche con lo scopo precipuo di arginare il dilagante fenomeno del catarismo. Data ovviamente la sua pericolosa vicinanza con una città così minacciosamente eterodossa, non si poté evitare, come si vedrà in seguito, che essa venisse ben presto infiltrata e corrotta (sotto l'attenta regia del Visconte di Beziers e dello zio Raimondo VI) dalla idee catare, tant'è vero che persino il mio trasferimento in quel complesso monastico, come ebbe un giorno a confidarmi il mio priore di Carcassona, sarebbe stato caldeggiato presso l'abate Cudecro proprio da Raimondo-Ruggero di Trencavel, forse in ciò consigliato dall'avvenente moglie (probabilmente una simpatizzante catara in incognito), che lo avrebbe indirizzato a me a motivo del fatto che potevo tornare utile alla causa dei catari essendo io uno dei massimi esperti conoscitori della lingua aramaica, un particolare la cui decisiva rilevanza si comprenderà meglio nel corso della narrazione.
L'abbazia di Fonts de Bratin sorgeva in un luogo quanto mai solitario e umbratile, precisamente in un avvallamento di una lunga gola tra due montagne fittamente coperte di boschi che si estendevano a perdita d'occhio. Intorno al monastero, quasi in previsione di eventuali attacchi e ovviamente per la protezione del papiro segretissimo severamente custodito al suo interno, erano state costruite poderose mura di sbarramento e una decina di monaci su un totale di cinquanta facevano a turno la guardia all'esterno (armati di tutto punto) per impedire a chiunque di avvicinarsi senza motivazioni valide.
Ero entrato in quel misterioso avamposto religioso verso la fine dell'Agosto del 1208 (tra il Gennaio e il Giugno dello stesso anno erano stati barbaramente assassinati in circostanze e dinamiche quanto mai tenebrose il legato pontificio Pietro di Castelnau e l'erede al trono germanico Filippo di Svevia) su richiesta esplicita del mio priore del distaccato convento di Carcassona presso l'abate Cudecro, al quale chiedeva vivamente, essendo io uno dei più appassionati studiosi di problemi teologici della sua piccola comunità, di accogliermi nella nuova dimora monacale per permettermi di portare in porto la stesura di uno studio approfondito sull'eresia catara, ovviamente pregandolo all'uopo in via eccezionale di concedermi di poter usufruire dei tesori della biblioteca abbaziale, vanto di tutta la cristianità e una delle più vaste e complete in tutti i campi dello scibile umano. A tale scopo egli stesso si faceva garante della mia provata ortodossia dottrinale e rivelava al Cudecro che l'obiettivo fondamentale dell'opera che mi accingevo ad elaborare era quello di controbattere i capisaldi della teoria gnostico-diabolica dei pericolosi eretici.
Prima che venissi accolto a Fonts de Bratin dovetti aspettare ben quindici giorni, tempo nel quale si diffuse (con una coincidenza strabiliante forse pilotata dall'alto) la voce popolare non comunque corroborata da fatti conclamati secondo cui una delle cause che avrebbe convinto i sicari ad amazzare Pietro di Castelnau e Filippo di Svevia era da ricercarsi nei contenuti di strani libri presenti in una qualche insospettabile abbazia della Linguadoca, testi sui quali si vociferava che le due vittime erano in procinto di scoprirne la precisa ubicazione e persino l'occulto contenuto. Ovviamente qualcuno puntò il dito anche contro il cenobio di Fonts de Bratin, sempre secondo le stesse fonti illatorie teatro di foschi intrighi e addirittura, questo però secondo i cattolici, ricettacolo di libri particolarmente temibili per la Chiesa e per il suo buon nome, tutti particolari che accesero in me un desiderio quasi morboso di farne parte, sia per verificare di persona la validità di simili inquietanti dicerie e sia perché nella bozza che stavo preparando contro la dottrina catara mi sembrava adesso all'improvviso che vi fosse una certa incongruenza tra la supposta 'eresia' e la spietatezza con la quale veniva perseguita, un'incongruenza che era mio inalienabile dovere dirimere e comprendere poiché, se da un lato era nella mia fede cattolica combattere l'eterodossia, dall'altro la mia sensibilità di studioso meticoloso mi portava a nutrire non pochi dubbi sulla serietà dell'intera impalcatura antiereticale con la quale si presumeva di abbattere in tempi brevi gli audaci ribelli al potere religioso ortodosso.
Ad ogni modo, dopo alcune settimane di snervante attesa (a quanto pare l'abate si era consultato con i suoi immediati superiori ecclesiastici forse però preventivamente imbeccati e neutralizzati dai due più potenti personaggi politici del tempo), alla fine, nonostante i brutti tempi che correvano, Cudecro, seppure a malincuore, accettò la mia nomina, soltanto chiedeva che l'opera in questione venisse redatta e consegnata ai frati predicatori al più tardi entro un anno dal mio ingresso nell'abbazia e che contenesse ad ogni buon conto accuse taglienti e devastanti contro i terribili catari. A stesura terminata, poi, si stabiliva di comune accordo che avrei dovuto far ritorno al convento di origine.