

Il manoscritto proibito, opera di un fantomatico monaco di nome
Favera, era in condizioni davvero pietose; per la sua ovvia usura
secolare sembrava doversi sgretolare da un momento all'altro tra
le mie mani, vi erano inoltre molte frasi abrase e addirittura intere
pagine illeggibili poiché definitivamente deturpate da uno
strano liquido nero indelebile, talché con paziente cura
dovetti inventarmi una sorta di fantastico ponte intellettuale per
connettere quanto più razionalmente possibile le varie parti
della straordinaria cronaca medievale. Ma fu un lavoro quanto mai
proficuo e dilettevole, sia dal punto di vista linguistico perché
mi consentì di affinare ancor più la mia conoscenza
del latino (il testo in questione era scritto appunto in questa
lingua e quindi dovetti tradurlo e adattarlo all'italiano), sia
soprattutto per il mio avanzamento filosofico-spirituale in tutte
quelle questioni delicate che attengono al mistero della vita e
delle sue tante atroci sofferenze.
Raccontare come venni in possesso di simile dirompente documento
storico non è un'impresa da poco. Tutto cominciò allorquando,
studiando a fondo un breve periodo di storia medievale, fui come
illuminato da un'idea che via via si cristallizzò nella mia
mente fino a diventare talmente pervasiva e ossessiva da costringermi
a inseguirla fin nei suoi più reconditi recessi.
Trattasi di un lasso di tempo alquanto esiguo sebbene di notevole
cruciale rilevanza storico-filosofica per le sorti dell'umanità,
in pratica il ventennio medievale che va dal 1190 al 1210, con particolare
riguardo alle battaglie condotte dalla Chiesa di allora per affermare
il suo dominio sui regnanti del tempo e in special modo contro l'eresia
catara, che proprio nel periodo in esame raggiungeva la sua massima
espansione dottrinale, culturale, sociale e perfino politica, tanto
da costringere il grande e controverso pontefice di allora, Innocenzo
III, a bandire contro di essa una vera e propria guerra di sterminio,
conosciuta ufficialmente come la crociata albigese, dal nome di
una città non lontana da Tolosa, Albi, ritenuta a quel tempo
il massimo del concentrato cataro, imperante tra l'altro non solo
colà sebbene in tutta quella vasta regione della Francia
autonoma del Sud e precisamente in quei territori che dall'Aquitania
e passando per la Linguadoca si estendono fino alla Provenza.
L'esito di tale spedizione militare, come testimoniano le fonti
storiche, fu alquanto catastrofico per il buon nome della cristianità,
poiché, se da un lato le orde inferocite dei crociati riuscirono
apparentemente a debellare gran parte dell'eresia, dall'altro bisogna
fortemente denunciare che simile apparente successo (apparente perché
nonostante tutto l'anima immortale del catarismo vive ancora quanto
meno nella coscienza degli studiosi) fu raggiunto a prezzo di un
immane versamento di sangue innocente. La carneficina di Beziers,
consumatasi verso la fine del Luglio 1209, nella quale molte migliaia
di uomini, donne, vecchi e bambini furono passati al filo della
spada, grida ancora oggi vendetta e giustizia dinanzi alla ragione
umana.
Perché la Chiesa di Innocenzo III aveva dato l'avvio a questa
sanguinosa e mostruosa caccia contro i catari? Quali profondi, oscuri
e ineffabili significati si nascondevano dietro una così
disumana e crudele persecuzione? Era davvero, l'eresia catara, tanto
mortalmente pericolosa da giustificare un così atroce massacro
di vite umane?
Come ben si può capire, si tratta di quesiti talmente ineludibili
che uno storico degno di questo nome ritengo non possa impunemene
tralasciare o peggio sottovalutare senza perdere di conseguenza
la propria onestà e dignità di ricercatore imparziale.
Esaminando poi attentamente tutto ciò che si verificò
realmente in quell'oscuro ventennio, mi sono imbattuto in almeno
tre o quattro avvenimenti che mi propongo di rimarcare.
Nel 1190, l'anno fatidico dal quale muovono le mie indagini, un
oscuro vescovo cataro di Concorezzo in Lombardia, un certo Nazario,
porta in Italia dalla Bulgaria il cosiddetto secretum; di là,
a quanto dicono i documenti che ho consultato, il testo passa nelle
terre infestate dall'eresia della Francia meridionale, luoghi nei
quali il catarismo stava ormai demolendo pezzo per pezzo tutte le
credenziali morali e dogmatiche della Chiesa; si tratterebbe dell'apocrifo
attribuito a Giovanni Evangelista: "Interrogatio Iohannis apostoli
et evangelistae in cena secreta regni coelorum de ordinatione mundi
istius et de Principe et de Adam"; il testo, forse originariamente
redatto in greco e tradotto in lingua slava, sarebbe stato in seguito
misteriosamente latinizzato e trasferito nell'archivio inquisitoriale
di Carcassona, una delle molte altre località investite in
pieno dalle armate crociate; sembra inverosimile, ma ho scoperto
che subito dopo il passaggio in Europa di questo documento all'apparenza
innocuo la storia di quel periodo subisce un'accelerazione portentosa,
quasi che nel suo contenuto vi fossero rintracciabili in filigrana
i segni inequivocabili di una terribile minaccia da sdradicare subito
ad ogni costo; un altro particolare non meno inquietante di questa
vicenda è che il testo del Nazario passa nelle terre interessate
dall'eresia a quanto mi è dato di sapere pochi mesi prima
dell'anno tragico e luttuoso del 1209, l'anno della crociata distruttiva
contro i catari; la Chiesa voleva forse appropriarsi di tale documento?;
e se sì perché?
Un altro evento che mi ha costantemente turbato nel corso delle
mie indagini riguarda il barbaro assassinio del legato pontificio
Pietro di Castelnau, a quanto dicono le fonti verificatosi nella
Provenza in una data ancora controversa, comunque sicuramente da
collocare tra il 10 Gennaio e i primi di Febbraio del 1208; già
questa sola insicurezza sul giorno esatto dell'omicidio è
una spia molto chiara del fatto che i grovigli attorno all'atto
criminale in osservazione sono quanto mai corposi e bisognevoli
di ulteriori approfondimenti; inoltre non appare allo stato credibile
l'ipotesi che dietro la mano dell'assassino dell'alto dignitario
papale ci fossero nientemeno che i catari, tanto più che
questi dovevano pur sapere che l'eventuale sanguinosa dipartita
del legato pontificio avrebbe di sicuro offerto a Innocenzo III
la scusa per incendiare i territori infestati dall'eresia; si era
trattato di un complotto orchestrato dall'alto per scatenare contro
i catari la falce della morte crociata?; su questa vicenda, comunque,
i pareri degli storici sono alquanto discordanti: alcuni affermano
che l'ucciso si era fatto troppo audace e temerario nel combattere
i focosi ribelli eretici, altri che si era fidato troppo del Conte
di Tolosa Raimondo VI (al quale alcuni, se non altro quale istigatore
occulto, imputano direttamente l'omicidio, anche per la strana coincidenza
che prima dell'imboscata il legato aveva sostenuto dinanzi al nobile
un burrascoso faccia a faccia sulle azioni da intraprendere per
irretire con ancor maggiore durezza la proliferazione sempre più
massiccia della cultura catara), altri ancora che era entrato addirittura
in forte polemica con Innocenzo III riguardo i metodi da usare per
combattere proficuamente l'eterodossia (non a caso esistono testimonianze
scritte che rivelano come ad un certo punto della sua missione il
Castelnau avesse perso d'incanto ogni speranza di poter abbattere
in tempi brevi un così agguerrito gruppo di eretici, chiedendo
addirittura di essere dimesso dal gravoso incarico); ad ogni modo
(forse sto per scrivere una semplice illazione basata unicamente
sulla mia fantasia) personalmente ritengo in buona fede che Pietro
di Castelnau sia stato trucidato perchè ormai a conoscenza
di reperti scritturali segretissimi appartenenti ai catari (del
resto la storia ci tramanda che durante l'assedio all'ultima roccaforte
catara di Montsegur alcuni eretici erano riusciti a fuggire portando
con sé testi proibiti dei quali non si seppe più rintracciarne
l'esistenza e l'ubicazione), libri che, se divulgati, avrebbero
per sempre sotterrata e annientata la Chiesa fin nelle sue fondamenta;
qualcuno aveva voluto chiudergli la bocca affinché non diffondesse
quanto forse (?) appreso?; e se fossero stati proprio i catari a
fargli visionare i misteriosi scritti per dimostrargli la veridicità
e inconfutabilità dei propri convincimenti dottrinali e lui
ne fosse rimasto talmente scosso da fargli commettere l'ingenuità
di partecipare il suo cruccio in ambienti molto altolocati della
gerarchia ecclesiastica, la quale pertanto avrebbe optato per la
sua morte al fine di togliere di mezzo un testimone scomodo di così
alto grado?
Ad ogni modo, a non tenere conto della dichiarazione di assoluta
innocenza di Raimondo VI (che nonostante tutto venne presto scomunicato
perché accusato di essere in un certo qual modo in combutta
con i pericolosi eretici), credo in tutta franchezza che con questa
vicenda delittuosa i catari c'entrino ben poco; d'altronde, seguendo
fino alle estreme conseguenze questo mio ragionamento come detto
un pò fantasioso ma non per questo da scartare a priori,
io sono e resto dell'opinione che i catari, contrariamente a quanto
si possa credere interpretando gli avvenimenti in maniera solo superficiale,
avessero semmai tutto da guadagnare nel pubblicizzare i propri documenti
da altri ritenuti "segreti", se non altro per cercare
di attirare attorno alla propria causa il maggior numero possibile
di simpatizzanti e credenti, specie nell'ambito feudale e della
nascente borghesia del tempo oltreché degli ambienti clericali
più progressisti e meno succubi della curia papale.
Ma i misteri non si esauriscono purtroppo a questi primi lati oscuri
della materia che stiamo scandagliando. Vi è infatti un altro
avvenimento non meno inquietante che merita di diritto la nostra
attenzione e cioè la morte improvvisa per mano omicida del
legittimo pretendente al trono imperiale germanico, Filippo di Svevia,
trucidato quasi senza un perché e comunque per motivi futilissimi
dal Conte di Baviera Ottone di Wittelsbach, verificatasi nel Giugno
dello stesso anno 1208; ebbene, mi perdoni lo storico poco avvezzo
alle fantasie galoppanti di un intellettuale "libero"
quale io mi reputo, ma credo a questo punto che i due eventi criminali
sui quali mi sto dilungando siano inestricabilmente legati da un
unico filo conduttore, appunto dal testo misterioso trasportato
in Europa dal vescovo cataro di Concorezzo, un documento magari
purgato da riferimenti segreti colossali a ben altro testo ben più
sconquassante, come del resto farebbe supporre il particolare già
menzionato della frettolosa traduzione in latino operata sull'originale
greco o slavo; risulta ormai peraltro pacifico che tra lo Svevo
e Innocenzo III non corresse buon sangue e difatti fra di loro si
sviluppò incomprensibilmente nel tempo una lunga guerra sotterranea
fatta di velate minacce e oscuri intrighi, anche a causa dell'atteggiamento
del pontefice il quale, nonostante Filippo fosse l'unico erede legittimo
al trono imperiale rimasto vacante dopo la morte del fratello Enrico
VI, si era inauditamente schierato contro tutte le ragioni di questo
mondo per Ottone IV, circostanza che l'interessato aveva sempre
bollata come indebita intromissione nei suoi sacrosanti diritti
di successione; i loro focosi attriti (sui quali la storia è
ancora ben lungi dall'aver fatto piena luce) sfociarono poi clamorosamente
nel fallimento disastroso della IV Crociata deviata forse di proposito
in quei territori bulgari del Bogomilismo, eresia, quest'ultima,
dalla quale è ormai accertato presero le mosse i catari per
sviluppare le loro dottrine, col risultato di vandalismi e saccheggi,
specie a Costantinopoli, dalla quale città, a sentire alcuni
studiosi degni della massima attendibilità, furono prelevati
immensi tesori insieme a pergamene e papiri antichissimi non meglio
specificati, documenti che ovviamente, al loro impatto con un'Europa
impestata fino al midollo dalla ribellione ereticale, apportarono
dal punto di vista religioso-dottrinale altri rivolgimenti e sommosse;
cosa pensare inoltre della sospetta visita fatta da Alessio al cognato
Filippo ben prima della crociata del 1204 per ottenere da questi
aiuto militare contro lo zio che lo aveva ingiustamente spodestato
dal trono bizantino?; quale allettante contropartita avrebbe offerto
allo Svevo per sollecitarne l'appoggio?; perché questa deviazione
improvvisa e fuori da ogni logica verso Costantinopoli nonostante
e contro le direttive di Innocenzo III che per questa insubordinazione
arrivò sinanche a scomunicare i capi stessi della crociata
da lui nominati?; non lo sapremo mai; del resto, quasi ad evocare
l'abisso diabolico di una verità da spegnere ad ogni costo,
il registro principale nel quale sono riportati i più rimarchevoli
avvenimenti del pontificato di Innocenzo III termina improvvisamente
nel 1208, sempre quell'anno, un anno terribile intorno al quale
ruotano i più spaventosi enigmi religiosi e filosofici dell'umanità.
Al di là di quanto fino ad ora riportato, esistono inoltre
altre coincidenze non meno sinistre e interessanti che attengono
questa volta alle oscure e controverse origini del cristianesimo.
Per prima cosa non sono mai riuscito a capacitarmi della misteriosa
circostanza della quasi totale assenza di scritti del principale
discepolo di Gesù, Pietro, una delle più colossali
assurdità storico-filologiche sulla quale ancora oggi gli
specialisti non sanno dare una spiegazione plausibile. Perché,
altra palese contraddizione, esistono poche lettere dei discepoli
di Gesù, mentre di Paolo (che forse non lo conobbe personalmente)
se ne sono conservate un così gran numero? E che dire del
discepolo prediletto del Cristo, quel Giovanni Evangelista autore
del quarto Vangelo, l'unico degno, secondo le credenze catare, di
essere preso in considerazione perché pregno della narrazione
dello scontro violentissimo tra Gesù e il Diavolo? E perché
proprio Giovanni, che ha fondato il suo Vangelo sul predetto scontro
tra la Luce e il Principio delle Tenebre, non fa in esso alcuna
menzione delle cosiddette tentazioni demoniache a cui fu sottoposto
il Nazareno e delle quali parlano invece Matteo, Luca e succintamente
Marco (sul cui Vangelo alcuni studiosi avanzano addirittura la tesi
che sia stato dimezzato)? è razionalmente sostenibile l'ipotesi
(avanzata da illustri filologi ed ermeneuti) che il Vangelo di Giovanni
sia stato purgato in quelle parti più scopertamente gnostiche
e manichee?
Questa controversia sulle tentazioni di Gesù è in
effetti uno, se non addirittura il principale mistero della sua
vita terrena. Ci fu davvero un incontro a quattr'occhi tra Gesù
e il Diavolo? I Vangeli sinottici, come detto, ce lo confermano
in pieno. Ma su cosa si sono basati per descriverlo? Su un riassunto
orale del Messia? Oppure, cosa assai più inquietante, su
un documento scritto di pugno dallo stesso Cristo in persona? è
mai possibile che il Figlio di Dio non abbia lasciato proprio nulla
di sua mano per evitare che la sua religione venisse annacquata
o peggio spudoratamente mutilata dai suoi poco cristiani indegni
successori?
Insomma, tanto mi accanii in quei meandri oscuri della storia e
della riflessione filosofica che ero quasi sul punto di cedere dinanzi
al sempre più vistoso indebolimento delle mie forze psico-fisiche.
Ma ripetendo ogni secondo a me stesso che sarebbe stata solo vigliaccheria
intellettuale abbandonare a quel punto i miei sinceri conati di
giungere a respirare un pò di quel gradevole Profumo di Verità
che già sentivo aleggiare in quegli studi cruciali, mi rituffai
a capofitto nell'impresa, deciso ad ogni costo (contrariamente al
parere di un mio vecchio amico psicologo che mi consigliò
vivamente di prendermi un periodo di vacanze) a conseguire un qualsiasi
seppur minimo successo che squarciasse quanto meno una parte del
velo di cotanti sinistri arcani; e fu così che, roso fin
nel più profondo di me stesso dall'ansia e dal presentimento
che in quella crociata cosiddetta "albigese" si celasse
il più grande mostruoso segreto della storia umana, dopo
diversi fallimentari abboccamenti con i responsabili degli archivi
vaticani (le gerarchie della curia romana mi respinsero subito non
appena sentirono nominare quell'eresia sepolta dai secoli), nella
mia qualità di studioso di cristosofia esoterica e di professore
emerito di storia medievale presso l'Università di Milano
chiesi ed ottenni dalle autorità clericali del capoluogo
lombardo (che da tempo si erano fatti garanti della mia dirittura
morale e dottrinale) di poter liberamente indagare su quella tenebrosa
vicenda. Ricordo comunque che prima che mi venisse concesso una
sorta di salvacondotto culturale per poter liberamente accedere
in tutte le biblioteche e in tutti gli archivi documentali che avessi
ritenuto opportuno visitare la Chiesa di Roma fece diversi passi
molto ostili nei miei confronti, intimando praticamente ai miei
mallevadori clericali milanesi di riconsiderare attentamente il
permesso accordatomi, ma alla fine fu costretta alla desistenza
previa comunque la loro promessa, messa a verbale e ritenuta vincolante
per la loro stessa onorabilità, che qualsiasi studio avessi
voluto pubblicare su quelle delicatissime tematiche sarebbe stato
prima passato al vaglio delle autorità vaticane, alle quali
si assicurava la prerogativa di promuoverlo o di bocciarlo senza
appello.
E così ebbe inizio il mio calvario. Rovistai e passai al
setaccio decine e centinaia di biblioteche di mezza Europa, visitai
come un ossesso conventi e monasteri in qualche caso persino diroccati
e abbandonati all'usura del tempo, ma tutto sembrava vano, non una
sola frase, un solo riferimento che mi facesse presagire l'uscita
dal tunnel nel quale mi ero cacciato.
Ebbi un lungo periodo di scoramento, cominciai a maledire il giorno
in cui mi ero fisso in testa di indagare su argomenti così
maledettamente ostici ed in effetti stavo quasi per allentare la
presa allorché un giorno si presentò nel mio studio,
invaso da montagne di volumi sul catarismo, un mio collega universitario
(al quale avevo imprudentemente ma anche fortunatamente partecipato
il tenore delle mie forsennate ricerche) con in mano un vetusto
codice aristotelico che si disse sicuro avrebbe colpito la mia immaginazione.
Affermò che gli era stato prestato in visione da un suo conoscente
collezionista di reperti medievali e che quindi entro massimo quindici
giorni avrebbe dovuto restituirglielo. Si trattava di un documento
apparentemente di quasi nessuna importanza in quanto riportava una
delle opere meglio conosciute dello stagirita, un trattato filosofico
su argomenti metafisici che io stesso avevo avuto modo di visionare
e studiare in ben altro pregiato codice.
Ma non era sul reperto in sé stesso e sul suo contenuto che
intendeva attirare la mia attenzione, bensì su una breve
microscopica annotazione in latino che compariva sul margine inferiore
di una delle tante pagine del volume, forse un fugace dilemma, oppure
una traccia lasciata di proposito da un monaco o da un lettore clandestini
particolarmente solerti mentre lo copiavano, miniavano o leggevano
pensando a tutt'altro genere di cose. Il mio collega aprì
dinanzi a me il codice e, alla pagina 33, mi fece osservare una
minutissima scrittura corsiva che era destinata ad incendiare per
sempre la mia curiosità: "Monacus Favera nomine, clarus
litteratus, suum scriptum de catharorum excidio, a secreto papyro
suscitato".
Non appena lessi quella postilla fu come se tutta l'acqua del mare
(come narra una leggenda agostiniana) entrasse nella mia piccola
testa di studioso, saltai letteralmente sulla sedia e abbracciai
calorosamente il mio collega, ringraziandolo di cuore per il suo
inaspettato e miracoloso interessamento. Ad un tratto mi parve di
essere ad un passo dalla Verità. Era adesso assolutamente
vitale scoprire chi era davvero questo monaco e se esistevano notizie
storiche a suo riguardo. Ma prima era necessario accertarmi dell'autenticità
di quella nota per fugare ogni dubbio sulla sua possibile utilizzazione.
Poteva infatti trattarsi di una sorta di depistaggio o peggio ancora
di uno scherzo di cattivo gusto. Ma un mio amico scienziato al quale
chiesi di esaminare la postilla in questione (uno dei massimi esperti
italiani di tecniche chimico-fisiche per la datazione esatta di
scritture antiche) affermò senza ombra di dubbio che sia
l'inchiostro usato nel testo per copiarlo e miniarlo e sia soprattutto
la breve annotazione risalivano più o meno al 1400, un periodo
storico apparentemente incongruo visto che il catarismo ufficiale
scompare quasi del tutto intorno al 1350, ma non per questo del
tutto incomprensibile, poiché era possibile, anzi certo,
che questo Favera avesse redatto il suo quasi testamento magari
negli anni dieci o venti del tredicesimo secolo per poi ovviamente
nasconderlo come per affidarlo ai posteri. Pubblicare in vita uno
scritto di tal genere, naturalmente, lo avrebbe esposto come minimo
al carcere perpetuo, in caso di abiura, e al rogo in caso di ammissione
della paternità dello stesso.
Siccome dunque il codice aristotelico era stato redatto verso la
fine del quattordicesimo secolo in un convento di Tolosa ed appariva
essere stato prelevato nel 1943 dagli archivi dell'arcivescovado
della stessa città francese (tutti particolari che si evincevano
dalla lettura di altre maldestre note corsive poste sul frontespizio
insieme a due timbri di diverso stampo ancora leggibili che testimoniavano
dell'anno del suo trafugamento verosimilmente in seguito al trambusto
provocato dalla guerra mondiale in corso e la sua appartenenza ai
beni librari della stessa sede diocesana), conclusi che era proprio
lì che dovevo concentrare le mie indagini (in effetti lo
avevo già fatto con scarsissimi risultati) poiché
era a questo punto ipotizzabile che gli archivi stessi da cui proveniva
il testo contenessero ben più interessanti riferimenti alle
tematiche da me così cocciutamente inseguite; del resto Tolosa
era stata il centro del potere politico del Conte Raimondo VI, come
si sa un uomo non molto lontano dalle idee catare, una circostanza
ormai quasi pacifica che in ogni caso non gli avrebbe impedito di
intrattenere nonostante tutto buoni rapporti con le autorità
clericali della sua città. Non era dunque fuorviante immaginare
che, date le sue eretiche frequentazioni e la sua altolocata posizione,
il Conte avesse coperto con la sua autorità determinate persone
imbevute di catarismo magari con la copertura "cattolica"
delle predette autorità ecclesiastiche tolosane.
Riflettendo quindi su tutte queste coincidenze temporali e spaziali
e ancor più persuaso della pista da seguire a seguito di
una comunicazione anonima nella quale, con voce artificialmente
alterata, un oscuro telefonista si disse pronto ad aiutarmi nel
caso mi fossi degnato di sfruculiare meglio negli archivi arcivescovili
di Tolosa (una telefonata che mi spaventò non poco ma che
non fu in grado di bloccare a quel punto cruciale le mie ricerche),
decisi allora di rompere ogni indugio e di ritornare laddove come
detto ero già stato senza successo. M'imbarcai quindi sul
primo aereo diretto a Tolosa e qui giunto alloggiai senza dare nell'occhio
in un lussuoso albergo del centro. Ricordo ancora con un certo senso
di angoscia quanto mi accadde la notte dopo l'arrivo in quell'hotel,
allorché fui svegliato da diversi colpi alla porta della
mia stanza, come se qualcuno avesse avuto l'intenzione di conferire
col sottoscritto, un fatto quanto mai inquietante che mi lanciò
per sempre nel regno dell'ignoto e che dimostrava, quand'anche ce
ne fosse stato bisogno, che qualcosa di veramente losco si stava
profilando all'orizzonte. Ma io non mi feci abbattere da tale pur
spaventosa circostanza, anzi, sommandola alla telefonata anonima
di cui ho accennato, conclusi che se pur esisteva un giustificato
motivo per temere qualche brutta sorpresa, era altresì ancor
più necessario moltiplicare i miei sforzi e il mio coraggio,
a non tenere conto del fatto che in quell'intromissione telefonica
si parlava apertamente di aiuto e non di disturbo alle mie indagini.
L'indomani mattina, quindi, munito come sempre del salvacondotto
delle autorità religiose milanesi, mi premurai a recarmi
di buon'ora nel palazzo dell'arcivescovo di Tolosa. Questi, un uomo
alto e massiccio che incuteva timore per la sua stazza e che mi
conosceva bene per avermi già permesso almeno altre cinque
volte di consultare l'archivio sotterraneo della sua sede diocesana,
si mostrò dapprima assai sbalordito nel vedermi ricomparire,
mi fece un sacco di domande sui risultati fino ad allora apparentemente
conseguiti dalle mie ricerche eresiologiche e alla fine, questa
volta a malincuore e visibilmente contrariato dalla mia testarda
insistenza nell'inseguimento ossessivo di quelle tematiche "sul
filo del sacrilego", mi diede alquanto titubante l'ennesimo
assenso, stavolta però decidendo a sorpresa di farmi accompagnare
da un alto prelato di sua fiducia, come se la mia reiterata volontà
di consultazione dell'archivio bibliotecario cominciasse a suonargli
un pò strana e foriera di risvolti poco desiderabili.
Seguito quindi come un'ombra da colui che forse aveva ricevuto l'ordine
tassativo di marcarmi questa volta strettamente, giungemmo infine
nell'ampio salone dell'archivio odorante pesantemente di stantio
e umidume e come sempre mi disposi in maniera tranquilla (ma con
una lieve fitta al cuore sintomatica di un senso inconscio di panico)
a consultare gli antichi reperti medievali di mia competenza negli
scaffali appositi. Subito, rispetto alle visite precedenti, ebbi
l'impressione che qualcosa fosse stato di proposito manomesso, alcuni
codici in pergamena e vari testi papiracei non li trovai più
al posto di prima, bensì molto più distanti e in qualche
caso mischiati a volumi più moderni posti su altri scaffali,
un particolare che non ebbi il coraggio di palesare al prelato per
non metterlo in imbarazzo, ma che nel mio intimo provocò
non poco fastidio, come se qualcuno, prevedendo le mie mosse, avesse
a ragion veduta cambiato di posto i testi per allontanarli dai miei
occhi e dalla mia curiosità. Ero quasi bloccato dinanzi ad
uno scaffale nel quale ero sicuro di avere precedentemente intravisto
un'opera di un qualche interesse per le mie specifiche indagini
storiche quando, spostando inavvertitamente gli occhi verso l'interno
più in ombra dell'ampio locale, inquadrai la figura di uno
strano personaggio muoversi furtivamente verso l'entrata di quello
che aveva tutta l'aria di essere una specie di bugigattolo annesso
all'archivio, all'esistenza del quale non avevo mai fatto caso.
Sicuramente (lo arguii dal fatto che il prelato si comportava come
se in quello stanzone ci fossimo solo noi due) si trattava di un
intruso in incognito, non si sa come entrato né perché
nell'archivio.
Quel che accadde subito dopo, però, fugò ogni dubbio
sulle sue intenzioni. Successe tutto in pochi secondi: prima che
il prelato potesse rendersi conto degli eventi che a sua e mia insaputa
si stavano materializzando, udimmo entrambi nitidamente un tonfo
attutito provenire dalla cameretta annessa all'archivio, per cui
ci precipitammo insieme nervosi verso la provenienza dell'imprevisto
rumore, ma l'intruso, prevedendo il tutto, attese che io entrassi
per primo nel ripostiglio, dopodiché, facendo uso di una
tecnica di bloccaggio come fosse un esperto di arti marziali, con
un braccio alla cintola e l'altro su una spalla con una mano a chiudergli
la bocca immobilizzò il mio accompagnatore come una statua,
aspettando nel contempo che io dessi un'occhiata al fascio di documenti
pergamenacei che da quel che cominciavo a capire aveva fatto volutamente
cadere a terra per attirare su di loro la mia attenzione. Ebbi quindi
modo di afferrare il malloppo, di svolgerlo su di un piccolo tavolo
e quindi di leggere una sorta di carteggio medievale a quanto pare
intercorso tra alti dignitari dell'ordine dei predicatori appena
fondato e vari abati e priori del periodo, proprio di quel lasso
di tempo che più mi tormentava per le sue quanto meno equivoche
implicazioni storico-religiose. Le date si presentavano infatti
quanto mai allettanti per la loro strabiliante coincidenza con i
fatti da me tanto accanitamente approfonditi: Giugno 1208, Agosto
1208, Ottobre 1208, Novembre 1208, Gennaio 1209, Aprile 1209, Maggio
1209, Luglio 1209... Quasi senza alcuna fatica i miei occhi caddero
sul nome che cercavo: Favera. Lessi traducendo mentalmente dal latino:
"è assolutamente vitale fermare quest'uomo, è
l'unico che a quanto sembra è riuscito a far perdere le sue
tracce dopo la sua rocambolesca fuga dall'Abbazia di Fonts de Bratin
e dopo specialmente aver quanto meno visionato il pericolosissimo
'secretum' aramaico, trafugato criminosamente da questa sede monastica;
gli altri, come sapete, li abbiamo bloccati in tempo e seppure a
conoscenza del terribile documento li abbiamo neutralizzati, qualcuno
mandandolo al rogo, qualcun'altro costringendolo all'abiura e al
carcere perpetuo. Raimondo VI, come sapete, destinatario a quanto
sembra del documento illegalmente prelevato, ce lo ha restituito
e dopo intense e prolungate interrogazioni abbiamo appurato che
non è riuscito a farsi fare dal criminale eretico la tanto
agognata traduzione dall'aramaico. Se non riuscissimo ad arrestarlo
in tempo sarebbe la fine. Tutti questi massacri di catari non saranno
serviti a nulla e l'eresia, magari, rialzerà un giorno di
nuovo la testa, apportando altri lutti e tragedie forse peggiori
dei precedenti. Il suo nome lo conoscete: Favera. Agite. Ne va della
vita di tutti."
Come sentisse che avevo terminato quella lettura proveniente dal
buio passato, l'oscuro personaggio a questo punto lasciò
la presa del prelato e se la diede letteralmente a gambe, scomparendo
in un baleno come un fantasma, dopodiché, di nuovo libero,
il malcapitato chierico mi si avvicinò furioso strappandomi
letteralmente di mano il documento appena letto, rimproverandomi
di averlo visionato e quasi intimandomi di dimenticarlo al più
presto pena la mia stessa incolumità fisica. Aggiunse che
questa era l'ultima volta che venivo ammesso alla consultazione
dell'archivio e che d'ora innanzi era meglio che non mi facessi
più vedere in giro. Non sapeva se denunciare il fatto al
cardinale di Tolosa in persona, ma se avessi giurato di non far
parola ad alcuno di quanto appena scoperto ci avrebbe pensato sopra
per non aggravare la mia già delicatissima posizione. Io
giurai, al ché l'altro si premurò di consigliarmi
di tornare "al più presto possibile" nella mia
città natale "per restarci per sempre".
Quale non fu la mia meraviglia quando, ritornato nell'albergo come
dopo un incubo ad occhi aperti, vi trovai nella mia stanza, comodamente
seduto su una poltrona, proprio la persona che aveva così
'gentilmente' maltrattato l'alto dignitario clericale! Era un uomo
di bassa statura un pò corpulento, portava occhiali scuri
più ampi del normale che parevano incollati al viso, dando
la strana impressione di esserne una vera e propria protesi inamovibile.
Mi guardò un pò curioso sorridendo del mio ovvio sbalordimento
e all'improvviso, come mosso da una molla a tempo, si alzò
dalla poltrona, si avvicinò al tavolo della stanza e lasciò
cadere sul ripiano, dopo averlo tolto lentamente da una larga tasca
interna del suo giaccone, un vetusto e rozzo tomo pergamenaceo dalla
rilegatura e cucitura mezzo spappolate dal trascorrere dei secoli.
Mentre io lo guardavo attonito incapace di una qualunque reazione,
chiedendomi mentalmente chi fosse in realtà quel personaggio
e perché mai avesse deciso di intervenire nella mia vicenda
personale senza esserne richiesto, l'altro incominciò freddamente
a parlare con una voce cavernosa che pareva provenire dai più
reconditi anfratti di una foresta: "Non dovete più far
nulla. Ecco il vero reperto che cercavate. Dovrete solo tradurlo
dal latino. è una capacità che non vi manca. Si tratta
dell'unico documento esistente al mondo in grado di far piena luce
sul mistero del catarismo. è stato manoscritto intorno al
1212 da un monaco il cui nome già conoscete: Favera."
Io lo ascoltavo marmoreo come sotto un incantesimo. L'altro potè
quindi proseguire indisturbato: "Come ben riconoscerete leggendo
la cronaca riportata in questo raro e in un certo senso pericoloso
volume, questo coraggioso monaco a cui tanto deve l'umanità
ha quanto meno visionato il contenuto di un papiro fortemente temuto
dalla Chiesa. Si tratta a quanto sembra dell'unica opera scritta
di pugno da Nostro Signore Gesù Cristo in persona e da quel
che si può arguire leggendo l'intestazione della traduzione
latina operata da Favera sull'originale aramaico si può approssimativamente
certificare che sia stata donata in segno di indefettibile intimità
al suo amato discepolo Giovanni, affinché non la desse in
mani profane. Dopo averla trafugata insieme ad altri monaci catari
presenti in incognito in un'abbazia che si chiamava "Fonts
de Bratin", l'ha portata dinanzi al Conte di Tolosa Raimondo
VI, in un castello debitamente fortificato all'uopo. Del terribile
papiro non si è saputo più nulla. Forse, come fa supporre
Favera in questo scritto, è stato sequestrato a Raimondo
VI e in seguito distrutto o forse è stato seppellito nel
più profondo dei pozzi più profondi per non turbare
i sonni di Innocenzo III e della sua depravata Chiesa. Forse verrà
il giorno in cui lo potremo leggere integralmente e solo allora,
credo, la Chiesa di Roma crollerà definitivamente portando
nella sua tomba la sua ineguagliabile impostura. Se quel giorno
verrà, ed io me lo auguro, sapremo finalmente chi era realmente
Gesù e il Dio di Luce di cui era Figlio. Come sono giunto
in possesso di questa pergamena è una questione che ci porterebbe
troppo tempo ed io purtroppo ne ho assai poco, visto che sono tenacemente
inseguito dai servizi segreti di mezza Europa che ovviamente ci
penserebbero ben poco prima di farmi la pelle. Ad ogni modo qualcosa
debbo pur dirvela. Sappiate adunque, che lo crediate o meno, che
io sono un lontano discendente di una delle tanti ramificazioni
genealogiche dei congiunti dell'autore di questo volume segreto.
Sono riuscito ad individuare le mie antiche origini assoldando una
quindicina di anni addietro (mosso in ciò da un misterioso
sogno credo di natura paranormale nel quale un monaco dalle fattezze
molto simili alle mie mi invitava a portare alla luce un'opera da
lui scritta attinente al problema del catarismo) il maggiore esperto
antenatologo in circolazione qui in Francia, il quale, a ricerche
terminate, mi rivelò contemporaneamente di avere scoperto
che tra i miei antenati degli anni settanta del quattordicesimo
secolo ve n'era uno che era morto sotto tortura in un carcere dell'Inquisizione
qui vicino a Carcassona, verosimilmente perché accusato di
essere uno degli ultimi catari esistenti in quel periodo, in quanto
è risaputo che questa eterodossia scompare praticamente dalla
Francia e dall'Europa intorno al 1350, anche se ovviamente qualcuno
in clandestinità continuava a studiare e a praticare le dottrine
e i rituali di questi presunti eretici. Essendo anch'io uno studioso
appassionato nel campo eresiologico medievale (a questo punto da
intendersi come una specie di inconscia reminiscenza delle mie remote
radici genealogiche) ho voluto vederci chiaro in questa scoperta
comunicatami che andava stranamente ad avvalorare il sogno poc'anzi
riferito e così decisi di affiancare allo studioso antenatologo,
ovviamente sborsando un'altra ben più ingente somma di denaro
per convincerli a lavorare per me, una vera e propria squadra di
archeologi, bibliofili, latinisti, storici e filologi, tutti cultori
medievalisti, ordinando loro di scavare approfonditamente e nel
massimo segreto nel periodo temporale in cui nacque e si sviluppò
fino all'estinzione sanguinosa il catarismo, allo scopo magari di
scoprire chi era davvero quel mio antenato incarcerato dall'Inquisizione,
e perché mai lo avessero ucciso. Non credo sia a questo punto
indispensabile svelarle tutti i retroscena e le peripezie affrontate
da questi illustri studiosi, le dirò soltanto che dopo cinque
anni di intense e accanite indagini nel periodo in esame, gli interessati
vennero un giorno da me felici come una pasqua e mi donarono la
pergamena che vi sta dinanzi. In verità non sono certo che
si tratti dell'originale scritto di pugno dal monaco Favera, è
logico infatti presumere che dell'opera siano state riprodotte diverse
copie, sia per dare maggiore diffusione al testo e sia soprattutto
per confondere l'Inquisizione impedendole di distruggere l'opera,
evidentemente temuta e ricercata con tutte le forze. Ricordo che
dopo poche settimane da quella clamorosa donazione alcuni esperti
della squadra che avevo messo in piedi (gli altri sparirono dalla
circolazione e non riuscii più a rintracciarli) furono trovati
impiccati nelle proprie abitazioni, di sicuro assassinati o costretti
al suicidio dagli stessi che ora mi danno la caccia, tanto da obbligarmi
a cambiare di volta in volta residenza e identità per depistarli.
Ma forse sto anticipando troppe cose della storia scritta in questo
scrigno della sapienza medievale. Questo testo è vostro,
ve lo siete meritato. Io non potrei tenerlo oltre, ne va della mia
stessa vita. Ne farete l'uso che riterrete più opportuno.
Non ho più niente da dirvi. Addio!" e così dicendo
lo sconosciuto si allontanò con passo svelto verso la porta
e sparì come un'ombra senza neppure voltarsi a darmi un segno
di incoraggiamento; mi avrebbe fatto molto piacere, ora che tenevo
con me una vera e propria bomba a orologeria.
Tornato subito in me stesso, mi mancò persino il coraggio
di aprire la pergamena, l'avvolsi nervosamente in una tovaglia,
la depositai nella valigetta da viaggio e la sera stessa ritornai
in Italia, giurando a me stesso che mai più avrei messo piede
fuori dal mio nido di Milano, anche se ovviamente con un malloppo
del genere in mano nessuna città di questo mondo sarebbe
stata in grado di garantirmi la sicurezza assoluta della mia esistenza.
Giunto ad ogni modo nel capoluogo lombardo, mi chiusi a chiave e
per ben settantadue ore non mangiai né dormii fintantoché
non ebbi completato la traduzione e la lettura devastante del manoscritto
proibito, il cui frontespizio ricalcava la stessa annotazione presente
nel codice aristotelico di cui abbiamo parlato alla pagina 33: "Monacus
Favera nomine, meum scriptum de catharorum excidio, a papyro secreto
suscitato." Lascio dunque a Favera il palcoscenico della narrazione
e lo faccio volentieri. Da questo momento in poi ogni responsabilità
di tutto quanto seguirà è demandata a Lui e a Lui
soltanto.
Non so ancora quanto mi resti da vivere; poco però, ritengo,
dato che ho deciso che non appena avrò terminato il resoconto
della storia che mi accingo a scrivere mi sottoporrò volontariamente
al rito cataro dell'Endura per morire degnamente e per evadere definitivamente
da un'esistenza alla quale non oso più chiedere nulla, del
resto sono precocemente invecchiato e stanco fino al midollo di
questa vita crudele e diabolica. Non so se avrò le forze
di portare a compimento la cronaca delle giornate cruciali che mio
malgrado mi videro protagonista. Della lettura forzatamente fugace
del papiro misterioso conservo fortunatamente ancora un vivido ricordo,
grazie anche ai copiosi appunti che ho tutti raccolti qui davanti
a me su questo tavolo fatiscente all'interno di una capanna di canne
che mi sono costruita in fretta in questa fitta boscaglia molto
distante da Tolosa per sfuggire alle ire della Santa Inquisizione
che sono certo mi dà ancora la caccia. Questi appunti dunque
mi consentono ora di redigere con una certa padronanza del tema
tutto quanto mi capitò in quei terribili mesi del 1208 e
del 1209, allorquando, con l'aiuto di alcuni monaci catari in incognito
e con l'intervento diretto di alti personaggi politici del tempo
(a cominciare dal Visconte Raimondo-Ruggero di Trencavel e dallo
zio Raimondo VI di Tolosa), riuscii a mettere le mani sull'unica
opera di Gesù Cristo che si conosca: "Meae doctrinae
expositio ad amatum meum discipulum idoneum unum Iohannem qui penitus
accipere posset eam, de tenebrosis mysteriis mundi creationis quam
Diabolus fecit, a me ipso scripta Iesu Christo nazareno, Dei Lucis
Filio, Pilato regente imperanteque romano Tiberio."
Purtroppo, come in un certo senso accennato, non ho avuto modo di
studiare a fondo il contenuto del papiro per gli eventi precipitosi
entro i quali dovetti svolgere quel compito delicatissimo, ma il
ricordo terrificante di quella lettura seppur sommaria è
di quelli che sono destinati a restare per sempre indelebili nella
memoria. Ora so. So che la vita è un inferno e che siamo
approdati in questo pianeta soltanto allo scopo di offrire in olocausto
il nostro sangue ad una divinità talmente oscura e sanguinaria
da far venire i brividi, per non dire di peggio. Il papiro cristico
me lo ha confermato in maniera inequivocabile e spietata.
Dopo averlo velocemente ma parzialmente tradotto dall'aramaico in
latino (sotto l'impellente richiesta del Conte di Tolosa in persona
che mi dette appena dieci giorni di tempo per la traduzione in quanto
i crociati erano sulle nostre tracce e si temeva seriamente per
la nostra vita), l'ho meditato a lume di candela per ben quarantott'ore
lunghissime all'interno di un castello fortificato messo a mia disposizione
dal potente nobile, venendo subito catapultato in una concezione
della vita e del cosmo quanto mai scardinante di ogni possibile
immaginabile pace spirituale. La Chiesa di Innocenzo III, certo,
non lo ammetterà mai, ma il titolo sopra riportato dell'opera
di Gesù (sulla cui autenticità e attendibilità,
ovviamente, mai vi potrà essere la certezza assoluta, ma
a questo punto ciò conta relativamente) suona quanto mai
lugubre per l'odierna cristianità affogata nella depravazione
più vergognosa e forse ormai incapace di alzare la testa
dal fango nel quale è precipitata di sua propria iniziativa.
Da tutto quanto precede e da quel che si dirà in seguito,
si può ormai affermare senza tema di essere smentiti che
la sanguinosa e obbrobriosa crociata contro la cosiddetta 'eresia'
cataro-albigese, promossa a partire dal Marzo 1208 e materializzatasi
nel Luglio 1209, è stata organizzata proprio allo scopo di
trovare e distruggere il papiro di cui si tratta, un reperto storico-filosofico
evidentemente ritenuto talmente distruttivo dalla Chiesa da poter
mettere in serio pericolo la sua stessa esistenza e ragion d'essere.
A quanto posso immaginare, Raimondo VI o chi per lui, avendo saputo
da sicure fonti che prima di investire Beziers (non a caso dai crociati
definita Covo del Diavolo) i crociati si sarebbero lanciati come
furie contro l'abbazia di Fonts de Bratin per impossessarsi manu
militari del papiro in oggetto, convinse il nipote Raimondo-Ruggero
di Trencavel ad adoperarsi presso l'abate Cudecro affinché
mi desse in custodia il prezioso documento prima che cadesse nelle
mani degli attaccanti. L'abate, alla cui cura era stato a suo tempo
affidato il testo affinché non lo mostrasse ad anima viva,
si mostrò alquanto offeso da simile richiesta e per far capire
quanto lo era minacciò i querelanti di denunciarli tutti
alla nascente Inquisizione insieme al sottoscritto ed altri monaci
sospetti d'eresia, ma quando le avanguardie assatanate dei crociati
raggiunsero e irruppero nell'abbazia trucidando a sangue freddo
lui e un gran numero di monaci, essendo stati informati precedentemente
di una via segreta di fuga, io e i miei aiutanti, dopo aver trafugato
il papiro nascosto in una segreta sotterranea della biblioteca,
riuscimmo a scappare appena in tempo utilizzando un cunicolo che
da sotto le fondamenta del monastero sfociava nella fitta boscaglia
e lì giunti fummo presi in consegna dai soldati di Raimondo
VI che ci offersero i loro migliori destrieri con i quali, protetti
in cerchio da quei cavalieri pronti a tutto pur di difenderci, cominciammo
a galoppare con una certa celerità, ma ogni tanto, voltandoci,
potevamo osservare distintamente le lunghe lingue di fuoco che si
levavano dall'abbazia, a quanto poi seppi in seguito distrutta e
incenerita insieme ai suoi innocenti occupanti.
Dopo diverse traversie raggiungemmo infine il castello fortificato
poco fa menzionato e qui, in quanto unico esperto della lingua aramaica,
fui ricevuto in pompa magna dal Conte di Tolosa, che mi pregò
seduta stante di accomodarmi in una stanza già predisposta
per procedere immediatamente alla traduzione del papiro, un compito
certo non facile, data l'estrema complessità della lingua
parlata da Gesù, che necessitò di lunghissime ore
di accanite concentrazioni linguistiche e intellettuali, allorché
il fortino venne accerchiato da almeno mille crociati che evidentemente
erano sulle nostre tracce perché presumibilmente imbeccate
da spie meschine e prezzolate. Ricordo ancora come fosse ieri le
urla concitate di un messaggero dei crociati che esigeva seduta
stante da Raimondo VI la restituzione del papiro pena la distruzione
del maniero e di tutti i suoi momentanei inquilini (proprio in quel
frangente io mi trovavo in una stanza attigua al salone nel quale
il messaggero stava urlando il suo ultimatum). Il bravo e intelligente
Conte si difese come meglio poté, negando dapprima che il
papiro si trovasse nel Castello di sua proprietà, ma quando
nella discussione s'intromise una spia che dichiarò di avermi
visto con altri monaci entrare nel maniero con qualcosa di grosso
sotto le ascelle alla fine dovette cedere all'evidenza e ammettere
la propria responsabilità, garantendo subito dopo al focoso
inviato crociato che fra non molto avrebbe soddisfatto tutte le
richieste dell'armata assediante, a cominciare proprio dalla restituzione
dell'antichissimo documento cristico. Per quanto riguardava la mia
persona, aggiunse però, nonostante fossi ricercato come uno
dei più pericolosi fuorilegge catari, non poteva fare lo
stesso, poiché aveva dato la sua parola d'onore che nessuno
avrebbe osato togliermi un capello. L'emissario, nonostante quest'ultima
negazione, parve un pò rabbonirsi e si disse d'accordo, ma
intimava al Conte di sloggiarmi al più presto dal Castello
esigendo nel contempo la facoltà per i crociati di braccarmi
fino alla cattura vivo o morto. A questo punto per il nobile Raimondo
VI fu giocoforza piegarsi, troppi erano gli armati per poter resistere
più di due o tre giorni all'assedio, cosicché, fatto
accomodare il messaggero in un'ala distante del Castello, gli disse
che aveva bisogno di almeno due ore per poter ottemperare alle richieste
ultimative. Poco dopo venne a trovarmi con le lacrime agli occhi,
mi abbracciò come un fratello, volle che gli ripetessi oralmente
alcuni passi capitali appena tradotti del papiro, dopodiché
me lo tolse lentamente dalla mani, mi fece indossare abiti civili,
mi affidò alla cura di un drappello delle sue migliori guardie
armate e ci indicò l'unico passaggio attraverso cui sfuggire
all'assedio dei crociati, dandomi in ultimo un salvacondotto per
poter più speditamente allontanarmi da tutte le zone infestate
dalle bande disordinate degli occupanti e con un bacio mi consigliò
infine per il mio bene di non mettere più piede in "queste
terre preda del Demonio."
Dopo che riuscii con molta fatica a raggiungere un territorio molto
a nord di Tolosa praticamente lontanissimo dal campo di battaglia
e dal raggio d'azione dei miei inseguitori, vissi per alcuni anni
in clandestinità, vivendo d'elemosina e cercando in ogni
maniera di depistare i miei segugi scatenati forse da Innocenzo
III in persona in tutta la Francia e fors'anche al di fuori dei
suoi confini, finché il destino non mi convinse che oramai
non sembravano esserci più serie minacce alla mia incolumità
fisica e pertanto decisi di fermarmi in questa capanna apparentemente
sicura in mezzo ad una foresta che orientativamente dovrebbe trovarsi
in una zona della Francia centro-settentrionale a non meno di trecento
chilometri a sud di Parigi.
Da questa sorta di finestra sul mondo ho potuto essere informato
da viandanti e sbandati di tutte le vicende susseguenti alla mia
fuga, notizie agghiaccianti di eccidi e massacri indiscriminati
di catari di ogni età e ceto che ancora non riesco a comprendere
per la gratuita inusitata truculenza con la quale vennero eseguiti.
Su tutti spicca la carneficina di Beziers. Come mi fu raccontato
da un profugo di quella città (forse uno dei pochi scampati
al macello), tra il 20 e la fine del Luglio 1209 (quindi dopo pochi
giorni dalla mia forzata partenza dal Castello del Conte di Tolosa)
l'intero concentramento urbano venne selvaggiamente investito dai
crociati che bruciarono e devastarono ogni sua pur piccola porzione.
Diverse migliaia di uomini, donne, vecchi e persino bambini furono
scannati con inaudita ferocia e quelli che non si potè massacrare
perché la stanchezza della mattanza si fece ad un certo punto
sentire furono riuniti sul più grande catafalco che la storia
ricordi e dati alle fiamme in una sola volta, con urla strazianti
di dolore che si potevano udire a distanza di chilometri, uno scempio
diabolico che continua ancora oggi e che mi porta a ritenere che
il papiro fonte di tutte le rovine dei catari, sebbene forse sequestrato
a Raimondo VI, sia tuttora in circolazione di nuovo sfuggito dalle
mani dei crocesegnati.
Ovviamente questa storia, data la situazione disastrosa che sta
vivendo la Francia meridionale, non potrà mai in questo periodo
vedere la luce della divulgazione, siamo ancora nel 1212 e il catarismo,
sebbene abbia subito colpi devastanti, appare ancora ben lungi dallo
scomparire. Dopo averla collocata in una piccola cassetta di metallo,
è mia intenzione quindi seppellirla ben in profondità
nella terra battuta di questa capanna. Visto il clima che si respira,
non mi servirò del servizio postale, ma io stesso farò
una capatina di nascosto presso la casa di Parigi dove vive uno
dei miei fratelli maggiori, con l'intenzione di donargli una mappa
dettagliata dell'ubicazione esatta della capanna affinché,
passati questi anni bui e almeno dopo un secolo che sarò
morto, permetta ai suoi discendenti diretti di riportarla alla luce
del sole per farla circolare segretamente se possibile proprio a
Tolosa e dintorni, poiché è mio desiderio che con
questa testimonianza possano in un certo senso essere vendicati
quanti furono tolti dal mondo con tanta disumana crudeltà.
Ritornerò quindi nella mia modesta dimora forestale, poiché
è chiaro che con la mia sola presenza a Parigi potrei mettere
a repentaglio l'incolumità fisica della famiglia del mio
caro congiunto.
Ma passiamo adesso al nocciolo duro della narrazione.
La storia ebbe come teatro la nuovissima abbazia di Fonts de Bratin,
distante appena quattro-cinque chilometri dal centro eretico di
Beziers, costruita a tempo di record un quarantennio prima dalle
autorità cattoliche con lo scopo precipuo di arginare il
dilagante fenomeno del catarismo. Data ovviamente la sua pericolosa
vicinanza con una città così minacciosamente eterodossa,
non si poté evitare, come si vedrà in seguito, che
essa venisse ben presto infiltrata e corrotta (sotto l'attenta regia
del Visconte di Beziers e dello zio Raimondo VI) dalla idee catare,
tant'è vero che persino il mio trasferimento in quel complesso
monastico, come ebbe un giorno a confidarmi il mio priore di Carcassona,
sarebbe stato caldeggiato presso l'abate Cudecro proprio da Raimondo-Ruggero
di Trencavel, forse in ciò consigliato dall'avvenente moglie
(probabilmente una simpatizzante catara in incognito), che lo avrebbe
indirizzato a me a motivo del fatto che potevo tornare utile alla
causa dei catari essendo io uno dei massimi esperti conoscitori
della lingua aramaica, un particolare la cui decisiva rilevanza
si comprenderà meglio nel corso della narrazione.
L'abbazia di Fonts de Bratin sorgeva in un luogo quanto mai solitario
e umbratile, precisamente in un avvallamento di una lunga gola tra
due montagne fittamente coperte di boschi che si estendevano a perdita
d'occhio. Intorno al monastero, quasi in previsione di eventuali
attacchi e ovviamente per la protezione del papiro segretissimo
severamente custodito al suo interno, erano state costruite poderose
mura di sbarramento e una decina di monaci su un totale di cinquanta
facevano a turno la guardia all'esterno (armati di tutto punto)
per impedire a chiunque di avvicinarsi senza motivazioni valide.
Ero entrato in quel misterioso avamposto religioso verso la fine
dell'Agosto del 1208 (tra il Gennaio e il Giugno dello stesso anno
erano stati barbaramente assassinati in circostanze e dinamiche
quanto mai tenebrose il legato pontificio Pietro di Castelnau e
l'erede al trono germanico Filippo di Svevia) su richiesta esplicita
del mio priore del distaccato convento di Carcassona presso l'abate
Cudecro, al quale chiedeva vivamente, essendo io uno dei più
appassionati studiosi di problemi teologici della sua piccola comunità,
di accogliermi nella nuova dimora monacale per permettermi di portare
in porto la stesura di uno studio approfondito sull'eresia catara,
ovviamente pregandolo all'uopo in via eccezionale di concedermi
di poter usufruire dei tesori della biblioteca abbaziale, vanto
di tutta la cristianità e una delle più vaste e complete
in tutti i campi dello scibile umano. A tale scopo egli stesso si
faceva garante della mia provata ortodossia dottrinale e rivelava
al Cudecro che l'obiettivo fondamentale dell'opera che mi accingevo
ad elaborare era quello di controbattere i capisaldi della teoria
gnostico-diabolica dei pericolosi eretici.
Prima che venissi accolto a Fonts de Bratin dovetti aspettare ben
quindici giorni, tempo nel quale si diffuse (con una coincidenza
strabiliante forse pilotata dall'alto) la voce popolare non comunque
corroborata da fatti conclamati secondo cui una delle cause che
avrebbe convinto i sicari ad amazzare Pietro di Castelnau e Filippo
di Svevia era da ricercarsi nei contenuti di strani libri presenti
in una qualche insospettabile abbazia della Linguadoca, testi sui
quali si vociferava che le due vittime erano in procinto di scoprirne
la precisa ubicazione e persino l'occulto contenuto. Ovviamente
qualcuno puntò il dito anche contro il cenobio di Fonts de
Bratin, sempre secondo le stesse fonti illatorie teatro di foschi
intrighi e addirittura, questo però secondo i cattolici,
ricettacolo di libri particolarmente temibili per la Chiesa e per
il suo buon nome, tutti particolari che accesero in me un desiderio
quasi morboso di farne parte, sia per verificare di persona la validità
di simili inquietanti dicerie e sia perché nella bozza che
stavo preparando contro la dottrina catara mi sembrava adesso all'improvviso
che vi fosse una certa incongruenza tra la supposta 'eresia' e la
spietatezza con la quale veniva perseguita, un'incongruenza che
era mio inalienabile dovere dirimere e comprendere poiché,
se da un lato era nella mia fede cattolica combattere l'eterodossia,
dall'altro la mia sensibilità di studioso meticoloso mi portava
a nutrire non pochi dubbi sulla serietà dell'intera impalcatura
antiereticale con la quale si presumeva di abbattere in tempi brevi
gli audaci ribelli al potere religioso ortodosso.
Ad ogni modo, dopo alcune settimane di snervante attesa (a quanto
pare l'abate si era consultato con i suoi immediati superiori ecclesiastici
forse però preventivamente imbeccati e neutralizzati dai
due più potenti personaggi politici del tempo), alla fine,
nonostante i brutti tempi che correvano, Cudecro, seppure a malincuore,
accettò la mia nomina, soltanto chiedeva che l'opera in questione
venisse redatta e consegnata ai frati predicatori al più
tardi entro un anno dal mio ingresso nell'abbazia e che contenesse
ad ogni buon conto accuse taglienti e devastanti contro i terribili
catari. A stesura terminata, poi, si stabiliva di comune accordo
che avrei dovuto far ritorno al convento di origine.




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