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8 Dicembre 2004 MISTERO
Rosario Vieni
Il Disco di Festo. Un calendario vecchio di 4000 anni?
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 Objekt A.1

Quattro millenni addietro Creta era un'isola felice. Ricca e felice.
Durante la fase detta dell'Età del Bronzo, nel cuore del Mediterraneo orientale al di qua delle Colonne d'Ercole, al centro di tutte le rotte commerciali, essa era il punto di riferimento culturale per tutti i popoli del Grande Mare e per chiunque si trovasse a solcare quelle acque o sostasse, anche per poco, in quella terra beata.
Il suo potere s'allargava in cerchi concentrici in ogni direzione sul grande mare, lambendo le sponde dell'Anatolia, dell'Egitto, delle terre occidentali fino alle Colonne d'Ercole e alla Sicilia; dominava sulle isole dell'Egeo e su parte del continente che si sarebbe chiamato greco, di certo su quello che sarà poi il Peloponneso.
Mitico monarca di quell'età era Minosse... anche se, a dire il vero, pare che quella di Creta fosse una civiltà dove vigeva il matriarcato; dove quindi c'era una regina e non un re a governare; dove la maggiore divinità era femminile e non maschile.
Minosse, comunque, fonda 100 grandi città, fra le quali le più famose sono Cnosso, Festo, Cidonia.
Omero, nel II libro dell'Iliade, allude a tali cento grandi città quando canta:

"Il gran mastro di lancia Idomenèo
guida i Cretesi che di Cnosso usciro,
di Litto, di Mileto e della forte
Gortina e dalla candida Licasto
e di Festo e di Rizio, inclite tutte
popolose contrade, ed altri molti
dell'alma Creta abitator, di Creta
che di cento città porta ghirlanda."

E ad avere rapporti con Creta non furono solo le genti dell'area egeo-anatolica, ma anche quella egizio-palestinese, e in generale di tutto il bacino del Mediterraneo centro-orientale.
Ma peccheremmo per difetto se pensassimo che la sua influenza commerciale e culturale fosse limitata in quel contesto geo-culturale; di certo gli abili navigatori minoici solcarono altri mari e, per via indiretta, ci hanno lasciato tracce visibili anche altrove.
Sul quadrante che delimitava nettamente la parte orientale di quello che noi chiamiamo mar Mediterraneo dalla sua parte occidentale, si ergeva imponente e maestosa l'isola dove il dio Efesto aveva posto la sua officina.
Qui venne Minosse.
Secondo una certa tradizione la morte di Minosse viene attribuita alle figlie di Cocalo, re di Camico; terra che a quel tempo (stando ad Erodoto) era abitata dagli Agrigentini. E' difatti Erodoto che ci tramanda (VII, 169-170) tale notizia, che verrà poi sviluppata più ampiamente da Apollodoro (Epit., 1, 13-15) e da Diodoro Siculo (IV, 78-79).
E ci venne inseguendo il mitico architetto Dedalo, il quale, fuggendo dalla città di Cnosso assieme al figlio Icaro (ma questi non completerà il viaggio in quanto precipita, mentre volava, in mare), avrebbe cercato e trovato rifugio per l'appunto presso il re Cocalo, nella terra che taluni erroneamente definiscono ancora col nome di Trinacria.
Il corpus, difatti, dei segni testimoniati nelle isole Eolie scoperti da Bernabò Brea più di 50 anni fa e il grande santuario-officina scoperto da G. Castellana a Monte Grande nei pressi di Agrigento consacrato alla lavorazione e al commercio dello zolfo con Creta e con le zone dell'Egeo, tutto questo testimonia senza ombra di dubbio i rapporti che Creta aveva intrecciato con le zone più estreme del suo impero thalassocratico.
Ma l'influenza di Creta si spinse anche più a nord.
Nell'attuale Toscana forse, dove sulle pendici dell'Amiata, in Pian della Carola, furono tempo addietro rinvenute delle cretule assimilabili per forma (non nei materiali) a quelle minoiche.
Sicuramente, però, nella lontana (dalle rotte consuete) Germania dove, presso Monaco di Baviera, durante una campagna di scavo, fra il 1999 e il 2000, sono state trovate due placchette risalenti al XIV secolo a.C..
La prima, denominata "Objekt A", è una piccola placca di ambra a mo' di triangolo rovesciato che reca incisioni su ambedue le facce.
Essa misura mm 32,1 per 30,5 per 10,8.
Sul lato A è incisa l'immagine alquanto stilizzata di un volto che rammenta istintivamente una delle maschere d'oro di Micene che si trova conservata presso il Museo Archeologico Nazionale di Atene.

 Objekt A.2

Sul lato B c'è incisa una serie di 3 segni che senza ombra di dubbio sono assimilabili a quelli dei sistemi lineari dell'area egea.
Quello centrale ci richiama ad un segno della Lineare A e della Lineare B (quello che Ventris legge come ka, e che noi invece leggiamo tha). Altrettanto non si può affermare per gli altri due, anche se si può qui azzardare una ipotesi: potrebbero essere i prototipi per quelli che poi saranno 02 e 07 (o 27) nella Lineare A.
Ma è solo una prima ipotesi.
La seconda piccola placca, sempre d'ambra e di forma ovale, è ancora più interessante.

Essa misura mm 31 per 23,9 per 21.
I segni incisi sono ben quattro, e sono qui facilmente identificabili. Almeno i primi tre, che sono immediatamente riconducibili al sistema della Lineare B (03, 48, 37). Meno chiaro e definibile invece il quarto.
Creta si crogiolava al sole del mare, quando all'improvviso qualcosa accadde a NE.
Il vecchio Egeo capì che era giunto il momento di agire.
Per anni, per decenni aveva pregato gli dei del nord perché finalmente intervenissero, e per anni aveva sperato che le sofferenze del suo popolo cessassero.

Chiamò il figlio Teseo e gli parlò a lungo.
Il rumore della risacca era desiderabile come il corpo di una donna.
Un mare di ossidiana percosse la terra e ne fece vibrare le più recondite viscere.
Da lì in avanti altri signori avrebbero dominato su Creta... ma questa è un'altra storia.

 Objekt B


Il Disco di Festòs
Eretto sull'orlo di una ripida collina con una superba vista sulla pianura di Messarà ad est, e sul massiccio dell'Ida a nord, il palazzo di Festo godeva di una invidiabile posizione.
Secondo, per dimensioni, solo a quello di Cnosso, era, rispetto a questo, avvantaggiato per la sua posizione incantevole e per l'aria e il clima.
Nel luglio del 1908 l'archeologo italiano Luigi Pernier rinvenne, a livello del primo palazzo, una tavoletta circolare di terracotta, del diametro di circa 16.2 cm., recante sulle due facciate dei segni pittografici incisi a spirale, da destra verso sinistra.
I segni apparivano incisi non a mano, ma con punzoni simili a quelli usati per la stampa a caratteri mobili.
L'esame stratigrafico del reperto lo datava intorno al 1700 a.C.; e in effetti il disco era stato trovato entro la cerchia delle mura del primo palazzo che si trovava ad un livello inferiore rispetto alla cinta muraria del secondo palazzo.
Convenzionalmente abbiamo definito A e B le due facce.

 Palazzo di Festo

La prima osservazione va fatta sull'oggetto e sulla sua forma. Ci richiama immediatamente altri reperti, presenti presso altre culture e che identificano una particolare cifra semiologica.
Nel Museo Archeologico di Firenze si conserva una tavoletta etrusca in piombo (proveniente da Magliano) sulla quale v'è, incisa, una iscrizione probabilmente di carattere votivo.
La forma circolare che la significa vuole presumibilmente esprimere l'idea della sacrale globalità della preghiera che viene così resa dalla figura geometrica più perfetta e che richiama, in maniera fortemente simbolica, l'idea del cielo e dei corpi che in esso si muovono e il cerchio magico che - come luogo di culto - è presente in molte facies culturali già in epoca tardo-neolitica (come memoria ancestrale del cerchio degli individui che si stringeva attorno al fuoco "sacro").
La specificità di tale testo sta nella scrittura che, ovviamente, si dipana libera attraverso le spire della tavoletta bronzea come libera solo può essere la parola ed ogni forma di comunicazione anche rituale.
Il Disco di Festo, già sotto questo profilo, presenta una sua singolarità.

Le varie "sezioni" del "testo" sono nettamente distinte e separate le une dalle altre; ma non in maniera tale da mantenere, pure visivamente, l'unitarietà del testo, ma con un sistema di barrette verticali che, unite alla linea della spirale, finiscono con l'incasellare ogni unità semantica in uno spazio fortemente delimitato che poco concede al libero dipanarsi della parola.
Una analisi, poi, dei segni ci dice anche altro. Essi (123 sul lato A, e 119 sul lato B) non appaiono assimilabili ad alcuna forma nota di scrittura, ed inoltre è discutibile la loro cifra linguistica.
Vediamo di capirne il perché.
Chi ha sostenuto la tesi che trattasi di scrittura ha dovuto affermare, a cominciare da Ventris e Chadwick nel loro Documents in Mycenaean Greek, che trattasi verosimilmente di una scrittura di tipo egeo, e comunque sillabica.
D'altra parte finora nessuno ha messo in dubbio che si tratti di una forma di scrittura, ma nonostante ciò nessuno è riuscito a "decifrare" l'oscuro messaggio che ci viene da un tempo tanto remoto né, peraltro, a riconoscere il registro di una tale forma di comunicazione.
Non sappiamo che valenza abbiano i segni, se acrofonica o d'altro tipo, né sappiamo se trattasi di lingua affine al ceppo ie.; ma un'analisi linguistica può anche prescindere da codesti elementi.

Intanto solo un paio di "parole" su entrambi i lati del disco, finiscono con il medesimo segno, e tale caratteristica ci dice tanto sulle caratteristiche morfologiche della lingua: se si tratta di lingua non è indubbiamente del tipo flessivo!
Ma questo appare quanto meno strano, almeno in quell'area geo-linguistica che va dai Balcani ai limiti delle regioni microasiatiche. Ed allora? Ma anche altri elementi ci fanno dubitare che si tratti di un linguaggio. Dovrebbe essere di tipo sillabico? Ma diverse sezioni presentano una serie di 6 o addirittura 7 segni, il che indicherebbe la presenza di parole eccessivamente lunghe. E poi, l'analisi interna dei segni per ogni sezione ci dice anche altro: appare strano, ad es., che il segno del "guerriero con elmo" appaia soltanto all'inizio di ogni sequenza in entrambi i lati del disco; che esistano serie di due segni ripetuti ma mai all'inizio della sequenza; che esistano varianti di "posizione" di taluni segni, posti ruotati talvolta di 45° o di altri che sono stati sfasati senza, per ciò, indicare (o la indicano? ed allora tale funzione appare assai strana in una fase arcaica del linguaggio!) una atipica loro specificità... . Insomma, la singolarità della cifra semantica delle varie sequenze del Disco di Festo ci impedisce di credere che si tratti di linguaggio.
Lo ripetiamo, basta riflettere su quanto sopra abbiamo detto: il fatto pertanto che ogni "parola", ogni sequenza, presenti un impianto strutturale e morfologico sempre diverso, nel quale si individuano ben 33 "suffissi" diversi (23 A / 10 B), in un "testo" tutto sommato cosi breve, tutto ciò rafforza in noi l'idea, quella primitiva intuizione, che non si tratta di scrittura.
Qual è stata tale primitiva intuizione?

 Disk A e B

Quella secondo cui il Disco di Festo altro non è che un "normalissimo" CALENDARIO-DIARIO ad uso e consumo, forse, dei giovani (o della gente in genere) di quel tempo; per cui altro dev'essere il codice di lettura del reperto per poterne valutare esattamente lo spessore.
Quello che mi colpisce, che mi ha colpito nella primavera del 90 (dopo la "mia" lettura dei testi in Lineare B), è il numero delle sezioni in cui è divisa ogni faccia del disco: 31 sul lato A, e 30 sul lato B. E' una singolarità troppo evidente per essere trascurata, né può trattarsi di semplice coincidenza.
Sopra abbiamo detto della forma del reperto, in relazione alla tav. di Magliano e al suo carattere votivo; qui, invece, la circolarità dell'oggetto è in relazione al circolo solare ed al suo moto durante l'anno e appare configurare l'immagine del cielo e quindi il computo del tempo in relazione agli eventi astrali o stagionali. Questo si legge, si intuisce, immediatamente al primo approccio; quindi, analizzando il "testo", altro inizia a prendere forma: la consapevolezza che il cerchio voglia esprimere, rappresentare in maniera immediata e simbolica, conoscenze geo-matematiche che attengono alla figura.
Si tratta, fra l'altro, di un oggetto didattico, come tanti altri in uso in antichità; come le anforette etrusche che recano graffito l'alfabeto, quelle di Graviscae, di Formello, di Viterbo, e di Cerveteri.
All'inizio erroneamente pensai che il mese potesse essere suddiviso per "settimane". Considerando che potevano essere, ad es., di 31 gg. i mesi estivi e di 30 quelli invernali, mi chiesi se c'era un numero distintivo di quella cultura per il quale il mese potesse essere suddiviso.
Ponendo, difatti, il 5, le serie che si formano sono:

19, 20, 19, 23, 19, 19, 3

20, 19, 19, 19, 19, 21.

Il 19, come insieme di attività da compiere per "settimana", ritorna con una certa frequenza.
Ma una suddivisione del mese in periodi, per quell'età, non è assolutamente ipotizzabile per motivi che qui non starò a dire; se mai, la frequenza del 19 sta a dimostrare qualcosa, di cui diremo fra poco, in relazione alla regolarità dinamica in serie di sequenze.
In ogni caso il "gioco" dei numeri, una sorta frattalica di cabala, mi spinse nella direzione giusta, facendomi comprendere qualcosa della cultura di quelle genti che non avrei immaginato.
Difatti v'è un'altra analisi che appare ancor più sconvolgente.
Se assumiamo come "diagonale" del disco il raggio, la sezione, che individua il cerchio presso il punto d'inizio del "testo", ci accorgiamo che per ogni "spira" v'è (per ambo i lati) una sola serie che appare, multipla del 3.

12 , 9 , 6 , 3 , 1 (lato A)

12 , 9 , 6 , 3 (lato B).

Il che è ancora più straordinario, in quanto dimostra che a quel tempo il calcolo (sia pure in un sistema a base dieci) era già basato sul 3 e sui suoi multipli.
L'immagine esplosa delle due facce appena vista lo indica chiaramente.
Per cui anche l'anno doveva essere... anzi già era di dodici mesi. Difatti:

6 mesi di 31 gg. = 186 gg.

6 mesi di 30 gg. = 180 gg.

totale 366 gg.

Stupefacente!

Per quanto attiene ai segni, tutti e due i lati iniziano con la stessa immagine, quella del guerriero con l'elmo: segno che l'attività guerresca era primaria e fondamentale per la comunità.
Se osserviamo in che modo, con quale frequenza il segno si ripete (lo stesso potremmo fare per ogni altro segno, ma in questa fase sarebbe di nessuna utilità) ci accorgiamo che tale attività è praticata col seguente ritmo.
Se indichiamo con "X" tale attività e con "0" globalmente le altre, otteniamo tale sequenza:

X000 X00 X0 X0 X0 X0 XX0 XX0 XX00 X00 X00 (lato A).

Ovviamente non indichiamo con la "X" soltanto il segno in questione (non sarebbe utile), ma tutta la sequenza che s'apre con tale segno; cioè la giornata (ad es. la prima, la quinta, l'ottava, etc.) nella quale la prima attività da compiere è quella delle armi; con "0" ogni giornata che non s'apre con tale attività. Questo per stabilire il ritmo e il gravame dell'impegno profuso.
Se, invece, osserviamo l'altra faccia del disco, notiamo come l'impegno per le attività militari qui diminuisca. Da ciò si potrà pure dedurre l'alternarsi delle varie attività, e il riconoscerle, fra il periodo primavera-estate e quello autunno-inverno.
Osservando, poi, il ritmo delle sequenze si noterà anche una scalarità quasi metrica, che corrisponde alla necessità che le varie attività possano essere distribuite nel mese con sapienza e, diremmo oggi, progressione didattica.
Quali altre attività si riconoscono? Alcune appaiono chiaramente identificabili: quella dell'esercitarsi con l'arco, quella di saper andar per mare, di costruire elmi o corazze, di dedicarsi poi alla concia delle pelli, del saper usare raspa e trapano ed ascia; o di dedicarsi all'agricoltura, o addirittura di fare musica.
Altri segni sono meno facilmente identificabili, e dalla capacità che avremo di poterli riconoscere dipenderà la possibilità di poter tracciare un quadro delle abitudini e della cultura di tale popolo. Il quale fu anche pescatore, curò le attività ginniche, fu dedito alla pastorizia, introdusse la coltura del fico a e stabilì probabilmente rapporti particolari con l'altro sesso.
La figurina di donna deve pur avere un suo particolare significato, anche se ancora esso non ci appare chiaro. Così come non sono chiari altri segni, la cui valenza e cifra devono essere riconosciute.
Altri segni, poi, sembrano richiamarci ad alcuni elementi che troviamo nella scrittura lineare B, di cui il Disco di Festo deve essere coevo; ché, se la scrittura Lineare B è testimoniata in tavolette stilate intorno al XVI sec. a.C., essa è così bene e compiutamente strutturata che la sua formazione deve risalire per forza di cose a secoli precedenti, per cui il disco in questione, in questo caso, altro non fa che testimoniare la presenza di elementi pittografici che, nel linguaggio, assumono intanto la valenza di fonogrammi. Questi sono il cerchio puntato e, l'abbiamo già vista, l'ascia bipenne che nel miceneo appare nettamente stilizzata nel segno che anticipa il moderno fonema T.
Da oggi, voglio sperarlo, il Disco di Festo non sarà più un problema linguistico; rimarrà, soltanto, densa e di particolare spessore la sua cifra, matematica e culturale.
Questa la comunicazione che feci, nell'ottobre del 1991, al II Congresso Internazionale di Micenologia al quale partecipai quale rappresentante-delegato del Presidente del CNR.

Note sul ritrovamento del disco
Noi sappiamo che la scoperta dell'ubicazione di Festo fu dovuta allo spirito avventuroso di un militare inglese, il generale Spratt il quale, Strabone alla mano, rintracciò l'antica città cretese di cui parlarono anche altri autori classici quali Omero nell'Iliade (II, 648) e nell'Odissea (III, 296) e Diodoro.

Liscia e pendente sovra il fosco mare
di Gortina al confin, sorge una rupe,
contro alla cui sinistra, e non da Festo
molto lontana punta, Austro i gran flutti caccia;

Secondo le indicazioni di Strabone, la "città popolosa" come la definì Omero, era sita a 60 stadi da Gortina e a 40 da Matala (il porto della città minoica di Festo).
Il Disco di Festo venne poi rinvenuto dall'archeologo L. Pernier, durante una campagna di scavi, la sera del 3 Luglio 1908 in una "fossetta" (N. 8) presso il vano 86 della zona nord-est del Palazzo: "vicino all'angolo nord-ovest e a circa 50 cm. dal fondo roccioso, in mezzo a terra scura mista a cenere, carboni e frammenti ceramici"; la tavoletta in Lineare A (PH 1) giaceva pochi centimetri più a sud-est, quasi alla medesima profondità, nello stesso vano.

Nello strato di terra allo stesso livello del disco e sotto ad esso si trovavano avanzi ceramici, più o meno attribuibili, secondo Pernier, alla fine del Minoico Medio: diversi frammenti di ceramica di Kamares e frammenti di pithoi. Inoltre venne rinvenuto un pezzo di tazza, forse micenea, e ancora (ma non solo) un'ansa di un'hydria "ellenistica". Secondo Pernier, quindi l'intera zona era da doversi considerare "perturbata" nel corso della Storia e non affidabile per un qualsiasi studio stratigrafico.
Il disco si trova oggi nel museo di Iraklion, a Creta.

La misura del tempo
Intanto una considerazione preliminare.
Il nostro libello, quella comunicazione al Congresso, ha di certo - forse indirettamente - aperto la via per una nuova "lettura" del reperto. E difatti da quel momento in avanti s'è visto un proliferare di saggi illustri (perché tali sono i loro autori) nei quali si parla di "calendario minoico". Su tutti qui occorre ricordare: Ole Hagen; Hermann Wenzel; M.M. Frenkel; Bernd Schomburg.
L'ipotesi del calendario è sostenuta dal danese Ole Hagen (che espone i risultati della sua ricerca in un libro di cui esiste anche una versione elettronica acquistabile in rete) e dal tedesco Hermann Wenzel. Mentre M.M. Frenkel, della Riga Technical University, propende per un calcolatore astronomico. Bernd Schomburg infine ritiene che si tratti di un calendario o, più precisamente, che il disco contenga delle istruzioni per l'osservazione del Calendario astronomico.

Circolarità del tempo
Lo ripeto, è assolutamente fuori discussioni che possa trattarsi di scrittura. Ed ogni altro arzigogolo mi sembra risibile.
E d'altra parte l'interesse per il cielo, unico stabile riferimento, dovette essere enorme per gli antichi. Noi oggi non possiamo capirlo perché sommersi da una tecnologia e da oggetti che danno per scontato quasi tutto; ma immaginiamo per un attimo di trovarci lontani da ogni rotta umana, in luoghi privi di quelle comodità cui siamo avvezzi e perfino di un orologio, avendo solo a disposizione un tempo illimitato e continuo...
Come riusciremmo a stabilire un rapporto col fluire delle cose se non osservando lo spettacolo del cielo stellato e il sorgere e tramontare degli astri?
Così facevano i nostri antenati già 30000 anni fa.
Così continuarono a fare per millenni, fino a 15000 anni fa.
Interessante, a questo proposito, la cosiddetta "scena del pozzo" di Lascaux. Qui, secondo Michael Rappenglück (Facoltà di Matematica e di Scienze Informatiche dell'Università "Ludwig-Maximilians", Monaco di Baviera) l'immagine dello sciamano che affronta lo spirito del bisonte è da porre in relazione ad alcune costellazioni che passavano in meridiano alla mezzanotte del solstizio d'estate del 16.500 a.C..
Nel paleolitico il computo del tempo era scandito dalle fasi lunari, in particolar modo dai "pleniluni", molto importanti per la luminosità dell'astro. Questo vistoso mutamento dell'aspetto della Luna veniva già registrato intorno al 30.000 a.C. su un osso lavorato ritrovato nella regione di Les Eyzies de Tayac, nel Perigord francese.
Ci sono gli ossi, poi, decorati con tacche trasversali, segni interpretati da alcuni archeologi come dei "giochi aritmetici" ma che non hanno avuto a tutt'oggi una chiara e definitiva spiegazione.
Un ipotesi assai accreditata vedrebbe questi segni non come semplici decorazioni ma come particolari "tacche per conteggi". Secondo Alexander Marshack, però, un ricercatore associato del Peabody Museum dell'Università di Harvard, si tratterebbe delle prime testimonianze di registrazioni del mutamento dell'aspetto della Luna. Questa ipotesi, probabilmente la più verosimile, pone in evidenza un probabile conteggio dei giorni che compongono le lunazioni (mese sinodico). Questo, probabilmente, perché tale periodo si prestava abbastanza bene a scandire le uscite per la caccia o per altre attività confortate dalla luce della luna piena.
In età antica, poi, pare che fosse in uso incidere su osso le prime osservazioni astronomiche.
Si conservano ancora: un osso inciso da tacche trasversali proveniente da Kulna, in Cecoslovacchia; un osso inciso da piccole tacche trasversali disposte su una linea continua a forma di "U", proveniente da Gontzi, in Ucraina; il già menzionato osso istoriato da incisioni di forma circolare proveniente da Abri Blanchard, regione di Les Eyzies de Tayac sita nel Perigord francese.
Ma quello che ci pare di maggiore interesse è un osso istoriato di tacche trasversali e da incisioni di forma circolare proviene da Abri Lartet, ancora regione di Les Eyzies de Tayac.
Questo oggetto, appartenente al Periodo Aurignaziano (30.000 a.C.), presenta serie di incisioni di 29 e 30 segni abbinate a cinque gruppi di tacche.
I segni circolari sembrerebbero, anche in questo caso, avere la forma delle varie fasi lunari, riprodotte con la medesima sequenza con cui appaiono nella realtà.
Secondo il Marshack il conteggio delle lunazioni su questo oggetto venne fatto più volte e rappresenterebbe i giorni contenuti in un mese sinodico.
Insomma, l'interesse dell'uomo per il cielo è più antico di quanto si possa credere.
Si creò così una casta di specialisti, scienziati-sacerdoti, che ebbe il compito di tramandare agli altri le enormi conoscenze acquisite.
E da qui, poi, la cosa passò nelle mani dei poeti, degli scrittori, dei filosofi (che furono essenzialmente degli scienziati, privi di un metodo, ma che per primi si posero delle domande sul perché dei fenomeni).
E per quanto ci riguarda, infine ecco Omero ed Esiodo. E poi Metone, ed una caterva infinita di nomi illustri le cui scoperte da sole riescono a riempire migliaia e migliaia di pagine e che ancora oggi riescono a stupirci.
Nei poemi omerici vengono citati: la "stella" del mattino e della sera (Venere), Sirio, le Pleiadi, le Iadi, il grande carro, le costellazioni del Bifolco e di Orione.
In Esiodo esistono correlazioni fra i fenomeni celesti ed il tempo delle azioni umane; così ad esempio la semina avviene in novembre, cioè al tramonto mattutino della costellazione di Orione; la mietitura in maggio quando le Pleiadi sorgono di primo mattino; la vendemmia in ottobre al primo sorgere di Arturo del Bifolco. Esiodo conosce approssimativamente le date dei solstizi ma non quelle degli equinozi; fissa l'inizio della primavera circa sessanta giorni dopo il solstizio d'inverno; le notti si allungano verso la fine dell'estate; il mese sinodico della Luna, cioè l'intervallo dopo il quale la Luna ripresenta la stessa fase, dura 30 giorni contro un valore reale di 29g 12h 44' 2,9"; il mese viene diviso in tre parti di dieci giorni ciascuna.
Nel V secolo a.C. l'astronomo ateniese Metone scoprì che 235 lunazioni (mesi lunari) fanno quasi esattamente 19 anni solari. Per tale ragione, dopo un ciclo di 19 anni (detto ciclo di Metone o ciclo metonico o ciclo lunare) le fasi della Luna tornano ai medesimi giorni dell'anno.
In altre parole, dopo aver osservato i giorni in cui hanno avuto luogo le diverse fasi lunari per 19 anni, si noterà che il ventesimo anno queste cadranno negli stessi giorni del primo anno, il ventunesimo anno cadranno negli stessi giorni del secondo anno, e così via.
Ecco perché la serie dei tempi, partendo dall'anno 1 a.C., è stata divisa in periodi di 19 anni, e a ciascun anno di ogni periodo è stato abbinato un numero naturale dall'1 al 19. Il numero d'oro è quindi il numero dell'anno nel ciclo lunare in corso.
Per trovare allora il numero d'oro relativo a qualsiasi anno, basta sommare 1 all'anno, e dividere poi per 19. Il resto di questa divisione dà il numero d'oro; se però il resto è uguale a 0, il numero d'oro è 19.
Meglio ancora si può ottenere dividendo l'anno per 19 e aumentando di una unità il resto così ottenuto.
Tutto questo, brevissimo peraltro, excursus sulle conoscenze astronomiche degli Elleni ha un senso. Quando poi ci accorgiamo che certi numeri (in questo caso il 19) ritornano con una certa frequenza in ambiti e in tempi diversi, beh possiamo anche credere che non si tratti più di coincidenze o di semplice casualità.
E comunque ha un senso tanto più se si pensa a quanto siamo debitori verso chi molto ci ha dato. Non a caso lo storico tedesco Burckhardt affermava: "noi vediamo con gli occhi degli Elleni e parliamo con le loro espressioni."

La storia
Cominciamo intanto a fare il punto sulla originalità o meno del reperto.
Esso è unico, e pare non registri forma di scrittura alcuna.
Vale la pena, qui, ripetere e meglio chiarire quanto già anticipato nella comunicazione al congresso; anche se da allora tante altre cose sono venute fuori rinforzando l'idea che avevamo dell'oggetto e anzi accrescendone la cifra e lo spessore scientifico.
Intanto il primo dato che salta agli occhi è che le sequenze numeriche paiono avvenire non a caso. Ovviamente parliamo delle sequenze di oggetti presenti in ogni "cartiglio", laddove per cartiglio si intende lo spazio compreso fra le due linee (inferiore e superiore) della spirale e i tratti verticali che nettamente separano una sequenza dall'altra.
Esse sono rispettivamente per i due lati:

lato A:
5 3 3 3 5 4 3 5 3 5 4 5

2 6 2 4 7 2 4 6 2

4 7 4 3 4 3

3 7 2

3 lato B:
5 4 4 3 4 4 4 5 4 4 4 4

5 3 3 5 4 4 3 3 5

4 3 3 4 5 5

5 4 2

Potrà essere una semplice coincidenza, ma sorgono qui due riflessioni:

- la prima è che l'ordine con cui si succedono i segni nei vari "cartigli" non è casuale ma obbedisce ad una ben chiara logica matematica;
- la seconda è che il numero dei segni in ogni "cartiglio" non è mai inferiore a 2, né superiore a 7.

E la cosa non è casuale. Gli antichi conoscevano quello che viene definito il ciclo di Saros, ovvero il numero (e quindi il periodo) delle eclissi che si verificano annualmente eppertanto il loro succedersi regolare; è giocoforza allora credere che il Disco contenga anche informazioni di tipo astronomico: in questo caso derivate dall'osservazione attenta del cielo e del movimento dei suoi astri (si rammenti peraltro che il numero dei "pianeti" conosciuti anticamente era di 7: 5 pianeti + il Sole e la Luna).
Le eclissi innanzitutto, la cui valenza doveva essere per i nostri progenitori di enorme peso: la paura per un fenomeno che non apparteneva certo alla quotidianità, la cui conoscenza era solo nelle mani dei saggi o dei sacerdoti (che di solito erano gli unici a detenere il potere culturale, e non solo) i quali potevano così vaticinare e gestire il quotidiano dei popoli ad essi sottomessi, il segno del divino che così si manifestava alle genti.
Ma analizziamo attentamente ciò che viene fuori dalle "previsioni" del Ciclo di Saros.
Come si diceva, ogni anno possono avvenire da un minimo di 2 eclissi ad un massimo di 7 (5 di Sole e 2 di Luna, oppure 4 di Sole e 3 di Luna).
Ora noi sappiamo che è possibile prevedere le eclissi con buona approssimazione, tenendo in debito conto il fatto che la linea dei nodi non rimane fissa, ma compie sul piano dell'orbita terrestre una rotazione completa in 18 anni, 11 giorni e 8 ore. Che lo facessero gli antichi è cosa straordinaria.
Tale conoscenza del cielo e delle sue leggi appartenne anche ad altre etnie, perfino a popoli dell'America latina, che furono capaci di prevedere eclissi che addirittura avvenivano in altre parti della Terra e che non erano quindi visibili alle loro latitudini.
D'altra parte, lo studio degli astri non è una novità presso gli antichi. Addirittura Giovanni Pettinato, nel suo La scrittura celeste, ci narra del ritrovamento in territorio caldeo della montatura di un antichissimo cannocchiale; e i Caldei, lo si sa, furono abilissimi matematici e astronomi. Dice testualmente, alle pp. 103-104:
"Lenti e cannocchiale - Prima abbiamo menzionato misurazioni effettuate mediante il palmo e le dita. Molti calcoli eseguiti con tale metodo antropometrico risultano, però, così precisi da sollevare tra gli studiosi il problema dell'utilizzo o meno di strumenti per aiutare l'occhio nudo. Questo, come recentemente ha fatto notare A. Kyrala, professore di fisica all'università dell'Arizona, non riesce a distinguere misure angolari inferiori al minuto di arco: in base alle misure angolari, inventate dai Babilonesi, vi sono 60 secondi di arco e in un minuto di arco e 60 minuti in un grado. Le misure riportate nei calcoli astronomici delle tavolette cuneiformi sono di gran lunga inferiori ad 1 minuto di arco, tanto da escludere l'utilizzo del semplice occhio nudo nelle osservazioni astronomiche.
L'astrologo, di conseguenza, doveva avere tra i suoi strumenti per le osservazioni, oltre ad un buon occhio e alle tavolette della serie Enuma Anu Enlil, anche dei sistemi di puntamento che gli permettessero di essere tanto preciso nei calcoli e nelle localizzazioni. Se da una parte è facile supporre l'esistenza di un sistema di puntamento come la balestriglia, abbastanza elementare per coloro che hanno inventato la misurazione angolare, stupisce pensare che i Babilonesi avessero già ideato una forma, seppure rudimentale, di cannocchiale.
E' interessante notare che se della balestriglia non abbiamo alcun resto archeologico, del cannocchiale abbiamo, probabilmente, riferimenti testuali: in tavolette neoassire infatti sono registrate delle consegne proprio ad astrologi di lenti addirittura con il supporto di tubi d'oro (cfr. SAA VII 64 e 72). Il fatto che a volte venga spiegato lo scopo a cui doveva servire la lente, quello cioè di "ingrandire la pupilla", ci convince che si faccia appunto riferimento ad un'osservazione difficile ad occhio nudo.
Non ci meraviglia poi che già negli scavi condotti da Layard a Ninive, alla metà del secolo scorso, sia stata ritrovata una di tali lenti di cristallo di rocca della lunghezza focale di 4,5 e v'è da chiedersi se l'archeologo inglese non si sia imbattuto in uno degli strumenti la cui esistenza noi qui sosteniamo."
Del resto, la "produzione" di quello che noi oggi definiamo vetro ottico dovette avere un grosso incremento nell'area mesopotamica visti i ritrovamenti di materiali vetrosi nella zona che si erano generati in seguito all'impatto di un grosso meteorite il cui cratere, di recente, è stato localizzato proprio in quell'area. Né dubitiamo che si sia trattato di un solo episodio. Del resto, è sufficiente il calore di un fulmine caduto sulla spiaggia per trasformare in vetro i silicati contenuti nella sabbia.
Ma non furono i soli ad osservare il cielo. Se ci spostiamo nel nord dell'Europa, nelle isole britanniche, troviamo a riprova di quanto appena detto il tempio megalitico di Stonehenge; che fu indubbiamente una sorta di grande e maestoso planetario all'aperto, di certo adibito anche a pratiche cultuali, ma la cui funzione primaria e la cui origine fu dettata da motivi astronomici: per fissare stabilmente nel tempo il sorgere del sole intanto al solstizio d'estate, per fissare il punto di solstizi ed equinozi, per segnare il sorgere della luna, per determinare eclissi, per indicare addirittura la precessione degli equinozi. E tutto questo in un tempo in cui pareva (per secoli questo s'è predicato nelle scuole) non ci fossero conoscenze... specie se ad opera di popoli "barbari".
Ma Stonehenge non è il solo astrolabio arcaico che s'è conservato. Risale difatti a oltre cinquemila anni fa, ossia molto prima che fosse costruita Stonhenge, un cerchio di grandi pietre scoperto in una cava sull'isola di Lewis, al largo della costa nord-occidentale della Scozia. "E' l'unico cerchio di pietre che abbiamo mai trovato costruito in una cava, e il cerchio potrebbe indicare la consacrazione della cava", ha spiegato Colin Richard, dell'Università di Manchester. "Non esistono molti cerchi di pietre in queste condizioni - afferma l'archeologo - e io non ne ho mai visti edificati in questo modo prima di ora". Lo scopo dei cerchi di grandi pietre, di cui esistono diversi esempi nelle isole britanniche, costituisce tutt'ora un enigma per gli studiosi, ed è oggetto di acceso dibattito: alcuni ipotizzano una loro destinazione a luogo di culto religioso, mentre altri li interpretano come strumenti di osservazione astronomica a scopo calendariale (gli allineamenti delle pietre corrispondono a precisi punti sull'orizzonte nei quali determinati astri sorgono in giorni significativi del calendario, quali - per esempio - solstizi o equinozi).
Il tumulo di Newgrange poi, in Irlanda, manifesta chiaramente tale arcaico interesse per gli astri. Esso è, in sostanza, un complesso osservatorio astronomico.
E che dire del meccanismo di Anticitera?... o delle Piramidi di Giza e così via?
Insomma, per una comunità che ha dato poi origine al pensiero astratto e a tutte quelle conquiste che hanno fatto parlare di "miracolo greco" custodire e utilizzare un oggetto scientifico non è, e non deve sembrare, poi così strano. Semmai ci sarebbe da stabilirne l'origine, della fattura intendo dire, e ammesso che non sia d'origine minoica; ma credo che questo sia ancora di là da venire.
In ogni caso il Disco di Festo non testimonia un linguaggio; se non quello della scienza. Intanto è stato ritrovato nella parte più recondita del palazzo, custodito in un alloggiamento e al riparo dalla vista e dalle mani di eventuali malintenzionati. Doveva trattarsi davvero di un pezzo unico. Non presenta segni d'uso o abrasioni. Segno che non poteva servire ad ogni pie' sospinto. A tal proposito fa sorridere l'ipotesi dell'illustre prof. Faure (ma anche i grandi talvolta prendono qualche cantonata) che sostiene trattarsi di un "gioco dell'oca"; in tal caso il reperto avrebbe conservato i segni di un uso magari abbastanza prolungato e, forse, poco attento. E invece no. La superficie è perfetta, e più ancora i segni che sono stati incisi con punzoni sicuramente di materiale duro e ben intarsiato e che non presentano sui bordi rottura o abrasione alcuna. Ne deriva che doveva trattarsi di un oggetto considerato rarissimo, da tutelare con la massima cura. Forse una matrice, su cui far aderire altro materiale in argilla per utilizzarlo per i sapienti di corte; ma comunque un oggetto ben diverso da altre tavolette in caratteri minoici - quelle sì - che erano incise con caratteri di scrittura e su materiale deperibile come l'argilla cruda.
Cerchiamo ora di esaminare numeri e rapporti numerici che si riesce a leggere sul disco, anche se lo spazio virtuale a nostra disposizione non permette per ora un esame dettagliato né approfondito.
Sopra si diceva del numero 19. In effetti se si considerano i rapporti numerici del meccanismo di Anticitera viene fuori che quel numero 19, che sembrerebbe a prima vista così peregrino ritorna - è il caso di dire - nel calcolo del moto della luna attorno al sole. Infatti le 20 ruote dentate di tale meccanismo avevano la funzione di riprodurre il rapporto 254:19 indispensabile per ricostruire il moto della luna in relazione al sole: la luna, infatti, compie 254 rivoluzioni siderali ogni 19 anni solari.
S'è ricordato pure il tempio megalitico di Stonehenge. Ebbene, noi sovrapponendo l'immagine del disco su quella della pianta del tempio megalitico abbiamo notato delle cose di un certo interesse:

- che la linea ideale che congiunge l'immagine del guerriero (1° cartiglio) a quella del guerriero (8° cartiglio) coincide col sorgere del sole al solstizio d'estate;
- che la linea ideale che congiunge l'immagine dello scudo (1° cartiglio) a quella dello scudo (8° cartiglio) coincide col sorgere della luna al solstizio d'inverno;
- che la linea ideale che congiunge l'immagine del guerriero (16° cart.) a quella del guerriero (10° cart.) coincide col sorgere della luna al solstizio d'estate. A questo proposito ci si potrebbe chiedere come mai il rapporto qui avviene in maniera retrograda (16° / 10°). Semplice: ciò indica lo sfasamento del numero dei giorni del nostro satellite in relazione alle diverse lunghezze dei mesi, che, calcolati sul ciclo sinodico della luna non coincidevano ovviamente con la levata del sole o con quella eliaca di Sirio. Cosa confermata dalla linea che congiunge l'immagine dello scudo (stessi cartigli) e che determina uno spostamento di 4° in senso orario, in relazione al punto esatto della levata dell'astro in quella stagione.
- La cosa è del resto confermata dalla linea che congiunge l'uccello (22° cartiglio) a quella dell'uccello (25° cart.). Qui, difatti, individua il punto in cui il nostro satellite sorge al solstizio d'inverno quando sono presenti le medesime condizioni; cioè quando c'è discrepanza fra il ciclo sinodico e la levata del sole o con quella eliaca di Sirio: la differenza è in questo caso di 19°, ed il moto avviene in senso antiorario.

Tutte cose che anche noi, oggi, registriamo dato che neppure il nostro calendario è perfetto e che pertanto entrata delle stagioni pleniluni eccetera non avvengono mai nel medesimo momento e nella medesima data dell'anno precedente.
Su altre caratteristiche del disco in rapporto al tempio di Stonehenge si sta ancora indagando.
E proprio per questo un altro argomento è qui importante sottolineare; e cioè che il disco in questione appare anche come un antico primitivo calendario lunisolare come tanti in uso nell'antichità pre-storica ed oltre. Ovvero, come un calendario che teneva conto di un doppio ciclo astronomico: quello iniziale basato sul calcolo del periodo di rivoluzione lunare che è di ca. 28/29 giorni, e quello successivo solare (senza correzioni, come sopra s'è già detto) che ad esso si sovrappone e lo completa lasciando al computo del tempo delle lunazioni il compito di fissare festività e operazioni agricole che alla dinamica della luna erano legate.
Cioè, in buona sostanza, un astrolabio che teneva conto scientificamente del "codice stellare", e di una sorta di agenda che serviva per attività quotidiane.
Presso altri popoli, più o meno "primitivi" (secondo l'accezione che ne possiamo dare noi, moderni e "civilizzati") sono stati in uso calendari abbastanza simili; specie presso Atzechi e Maya. Testo fondamentale, a tal riguardo, è quello contenuto nel Codice Dresda. Pare che i Maya non possedessero le conoscenze necessarie per determinare se un'eclisse di sole fosse visibile nelle zone in cui abitavano, ma sembra che anche le eclissi non visibili siano state da loro previste ed accuratamente registrate. Esistono difatti nel Codice di Dresda alcune tavole relative alla previsione delle eclissi.
Assai antica è poi in Egitto la pratica, connessa ovviamente a quella matematica di cui sono testimonianze in antichi papiri e testi, dell'astrologia e dell'astronomia come risulta dall'analisi dello "zodiaco di Denderah" e dall'attenzione che gli Egizi riservarono al computo dell'anno.
D'altra parte ci corre l'obbligo di dire, senza con ciò nulla togliere al "divino" Caio Giulio Cesare, che la riforma che prende nome da lui (quella del calendario giuliano) ebbene la si deve forse alla cultura egizia. E' notizia abbastanza recente del ritrovamento di un testo trilingue in cui si fa appunto riferimento alla riforma del calendario fatta sotto Tolomeo III Euerghete, ragion per cui quella che va sotto il nome di riforma "giuliana" deve essere almeno in parte ridimensionata: Caio Giulio Cesare avrebbe in ogni caso utilizzato o perfezionato (lui, o il suo staff di scienziati) un sistema già intuito ed elaborato quasi un paio di secoli prima.
Ma continuiamo, ancora un po', a parlare di calendari "arcaici". Gli antichi babilonesi, come s'è appena detto, usavano un calendario lunisolare di 12 mesi lunari di 29 o 30 giorni ciascuno e, per recuperare l'accordo con il ciclo delle stagioni nonché con la durata dell'anno solare, aggiungevano 5 mesi ogni 12 anni.
Gli antichi egizi, i primi a sostituire il calendario lunare con quello solare, fissarono la durata dell'anno in 365 giorni, ripartiti in 12 mesi di 30 giorni ciascuno con l'aggiunta di 5 giorni supplementari. Perché l'inizio dell'anno cadesse sempre nello stesso giorno, coincidente per lo più con l'inondazione del Nilo, intorno al 239 a.C. il re Tolomeo III ordinò che si aggiungessero un giorno ogni 4 anni e dieci giorni ogni 40 anni, introducendo così una sorta di moderno anno bisestile.

Il Disco di Vladikavkaz
Un giallo nel giallo. Si pensava, fino a poco tempo fa, che il Disco di Festo fosse un reperto unico al mondo; e invece ecco che spunta fuori una sorta di "Festo 2" che rimette in ballo tante cose, ivi incluse le certezze che il reperto sia venuto da est e con esso, tutto sommato, gli inizi della nostra civiltà occidentale. Insomma, tutta la fase arcaica della nostra civiltà occidentale pare costellata da manufatti circolari che sembrano provenire dal Nord e che richiamano senza ombra di dubbio quanto gli storici antichi scrivevano.
Secondo le notizie disponibili, una casa localizzata a Vladikavkaz era oggetto nel dicembre 1992 di una pulizia della cantina. Questa casa di mattoni a due piani fu costruita probabilmente alla fine del XIX secolo. Tra i detriti tolti della cantina furono scoperti un frammento di disco in terracotta, coperto su una delle facce di segni sconosciuti. L'autore del ritrovamento dell'oggetto, rimasto anonimo, lo portò al museo della Repubblica dell'Ossezia del Nord.
Il disco di Vladikavkaz è fatto di argilla pura di colore marrone chiaro, la marca di una tavola è visibile al rovescio. La forma discoidale è attestata dalla curva del bordo rimanente che permette di restituire un diametro di 10 cm. Lo spessore al centro è di 1,1 cm, e il disco si assottiglia verso il bordo dove non misura più di 0.5 cm di spessore. Le spaccature portano una patina chiara e danno l'impressione di essere vecchie.
Il disco di Vladikavkaz è per alcuni una tappa intermedia per la realizzazione del disco di Phaistos, un prototipo della prima faccia. Potrebbe epperò essere un falso... .
La cosa strana è che, di recente, pare che di tale frammento si sia persa traccia!
In ogni caso non vedo perché il disco di Festo dovrebbe, in un tale contesto, apparire come una superba eccezione.


Il disco di Nebra
Mittelberg: una collina di 252 metri nel sud-ovest della foresta di Ziegelroda a 180 km di Berlino, in Germania. Gli archeologi stanno studiando con molta attenzione un luogo in cima alla collina dove è stato trovato nel 1999 un disco in bronzo e oro di 32 cm risalente ad oltre 3.600 anni fa, come viene fuori dalle anche dalle analisi di Harald Meller archeologo nello Stato di Sassonia-Anhalt. Il Mittelberg è vicino alla cittadina tedesca di Nebra da cui il disco ha preso il nome. Questo disco rappresenta ad oggi la più vecchia rappresentazione concreta delle stelle nel cielo. Il disco traccia 32 stelle, comprese il gruppo delle Pleiadi: esse compaiono sull'orizzonte in riferimento ad una montagna locale il Brocken.
Il ritrovamento è avvenuto, come s'è appena detto, vicino al villaggio di Nebra situato presso Mittelberg, una collina alta 252 mt nella foresta di Ziegelroda, a 50 km ad ovest di Lipsia, nella Germania orientale. Il sito ha nome Gosek, ed è senza dubbio il più antico sito preistorico che abbia indubbie relazioni con la lettura del cielo e con dati indubbiamente e inequivocabilmente astronomici. Pare sia vecchio di ben 7000 anni. Dato non trascurabile: nello stesso sito sono state ritrovate anche delle spade di tipo miceneo.
La cosa può essere d'estremo interesse se si tiene conto del fatto che anche a Stonehenge c'è un graffito che ricorda una spada micenea!
Il disco di Nebra è un manufatto circolare in bronzo e oro datato 1600 a.C. circa, con un diametro di 32 cm. con raffigurati sole, luna e stelle tra le quali si distinguono le sette Pleiadi; o almeno il gruppo delle 7 stelle visibili ad occhio nudo che fanno parte della costellazione delle Pleiadi. Il disco di Nebra sembrerebbe, così, essere la più antica rappresentazione di stelle in assoluto... ma il Disco di Festo è indubbiamente più antico e più complesso.
Questo singolarissimo ritrovamento archeologico, sembra corroborare gli stretti legami tra l'Europa centro-settentrionale e il mondo miceneo e poi omerico evidenziati dagli studi di Rosario Vieni, di Harald Haarmann, e di Felice Vinci.
Il disco è il perfetto pendant dei versi del XVIII libro dell'Iliade in cui Omero illustra le decorazioni astronomiche fatte dal dio fabbro Efesto sullo strato in bronzo posto al centro dello scudo di Achille: "Vi fece la terra, il cielo e il mare, / l'infaticabile sole e la luna piena, / e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, / le Pleiadi, le Iadi, la forza d'Orione".
I reperti di Nebra insomma mostrano lo stretto rapporto, per così dire "triangolare", che, attraverso l'archeologia, si può stabilire tra il mondo nordico della prima età del bronzo, quello omerico (lo scudo) e quello miceneo (le spade).
Ciò d'altronde è perfettamente in linea con quanto afferma Stuart Piggott - grande accademico ed archeologo, professore di archeologia preistorica all'università di Edimburgo - nel suo Europa Antica: "La nobiltà degli esametri [di Omero] non dovrebbe trarci in inganno inducendoci a pensare che l'Iliade e l'Odissea siano qualcosa di diverso dai poemi di un'Europa in gran parte barbarica dell'Età del Bronzo o della prima Età del Ferro. "Non c'è sangue minoico o asiatico nelle vene delle muse greche... esse si collocano lontano dal mondo cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di cultura e di lingua greche", rilevava Rhys Carpenter.
A quanto pare, alle spalle della Grecia micenea... si stende l'Europa.
Ma se si trattasse solo di una raffigurazione del cielo e dei corpi celesti più importanti o evidenti, tutto sommato sarebbe poca cosa. Certo indicherebbe l'interesse che ebbero quelle genti per il cielo, non dissimile però dagli analoghi interessi di molte altre genti in tante altre contrade della Terra.
Qui, nel Disco di Nebra, c'è molto di più.
Oltre alla meraviglia per il cielo stellato espressa dal colore del bronzo e dal fulgore dell'oro, c'è chiara l'attenzione, la speculazione, la curiosità, e l'approccio nettamente scientifico di un popolo che nel pieno dell'età del Bronzo seppe riconoscere e fissare nella materia punti fondamentali della vita delle stelle e della propria.
C'è il sole. Ed è ovviamente pieno, maschile, nordico. Con tutto il valore che tale astro poteva avere ad una latitudine che non era certo quella nostra, mediterranea.
La luna è appena una falce.
Innanzitutto per distinguerla dal sole, di poi perché essa rappresenta il femminile del creato, quasi un'appendice dell'astro maggiore, così come è per tali nuovi popoli la donna in una società di tipo nettamente patriarcale.
Ma essa è il simbolo per eccellenza della vita. E' la "culla" presso cui, la notte, la donna veglia accanto al futuro degli uomini; è la vela che ci ha portati alla vita; è parimenti la barca che ci condurrà nel regno delle ombre; è l'arco che sprizza energia vitale e dà sostegno al quotidiano o ci salva dalla violenza del nemico.
Non a caso la casta Artemide è cacciatrice e simbolo della purezza incontaminata.
Non a caso Ovidio, a proposito dell'arco che si tende, cantò Lunavit arcum... .
E' un simbolo, o forse il simbolo per antonomasia; compagna di poeti e musicisti, consolatrice della notte che solo essa riesce a vivificare.
Ma, tornando a Nebra, rappresenta probabilmente lo scorrere del tempo perché essa ci fornisce il primo computo complesso di quello che sarà poi il nostro "mese".
Quello che però è veramente rimarchevole, e stupefacente, è dato da due elementi che stanno lungo la circonferenza del disco e che individuano 4 punti fondamentali sull'orizzonte terrestre.
Le due fasce laterali (quella di sinistra è mancante) che corrono lungo la circonferenza, alla loro estremità individuano 4 punti che stanno ad indicare rispettivamente il sorgere e il tramontare del sole nei due solstizi. L'arco di raggio spazzato è esattamente di 82°. Esattamente quello che è coperto dal moto apparente del sole sull'orizzonte nella località del ritrovamento.


Analisi del manufatto
1
Una prima osservazione va rivolta alla fattura complessiva del Disco. Le immagini incise, con punzoni di osso o di un metallo raro, sono perfette e senza slabbrature ai bordi, senza lesione alcuna. Unico appunto - e anche questo la dice lunga sulla "complessità" dell'oggetto - che si può muovere a quell'antico artigiano è l'apparente improvvisazione, quasi addirittura la rozzezza delle linee divisorie che a spirale fanno da "supporto" al "testo", in contrasto sia con la purezza dell'argilla impiegata e la perfezione della cottura, sia con l'abilità e la precisione nella costruzione delle "matrici" (i punzoni impiegati per stampare). Ma questo si spiega col fatto che tale apparente imperfezione delle spirali era funzionale alla sistemazione dei simboli che doveva essere necessariamente molto accurata e precisa.
Se si fosse trattato di linguaggio, di un testo voglio dire, ciò non sarebbe stato necessario.
Così, invece, ogni simbolo andava sistemato in un suo spazio ben preciso, e l'artigiano presumibilmente, piuttosto che tracciare prima e in maniera esatta le spirali, preferì mano a mano tracciarne un pezzo, sistemare i simboli, e in tal modo procedere.
Se ne deduce che:

- intanto l'oggetto non poteva essere un utensile di uso quotidiano;
- verosimimente era una "matrice" che poteva eventualmente essere utilizzata per farne delle copie perfette adattandovi sopra e premendovi dell'argilla cruda o altro materiale molle.

La pratica, del resto, era abbastanza in uso nelle civiltà mesopotamiche. Anche per ragioni didattiche. Viene fuori qui, infatti, un'altra considerazione: i segni appaiono "rivoltati". In tal caso la loro lettura andrebbe fatta rovesciata, allo specchio, e non come comunemente avviene. Questo è un dato che pare sia sfuggito a tutti i ricercatori che si sono cimentati, inutilmente, col Disco di Festo. Difatti, a sostegno di codesta tesi, v'è un altro elemento probante. Normalmente chiunque tracci il profilo di un volto lo fa orientando il naso verso la sinistra; qui avviene l'incontrario. Ma tutto il "testo" appare all'incontrario, tracciato in maniera retrograda. E se con la scrittura ciò potrebbe essere comprensibile, ove però si utilizzassero strumenti meccanici su superfici dure, non lo è su materiale molle, di codesta epoca, e con disegni. Lo stesso avviene con altri segni: tanto per citarne alcuni, ad es., quelli della nave, della figura femminile, di un altro viso, di varie figure, della colomba o di altro uccello, e di quelle figure geometriche rivolte apparentemente a destra mentre la "grafia" è chiaramente retrograda; o dell'omino che cammina, etc.
Sembrerebbero particolari insignificanti, ma così non è. Del resto, e la cosa ci conforta, la nostra osservazione concorda con quella fatta a suo tempo da Evans, il quale affermava che il testo andava letto dal centro alla periferia proprio per via delle figure; allo stesso modo si esprime Pugliese Caratelli (sul problema del labirinto).
Ma forse la riposta potrebbe essere un'altra. In effetti le figure furono correttamente tracciate: chi realizzò i punzoni incise i segni nella maniera giusta, ma al momento in cui furono impressi sull'argilla ogni immagine risultò ruotata e capovolta. Oppure il nostro disco è stato a sua volta realizzato come copia su argilla di un originale, proveniente chissà da dove, oppure rinvenuto altrove o altrove "consultato". Ciò potrebbe spiegare l'irregolarità apparente delle figure.
Un altro elemento da tenere in considerazione è che, ad onta di quanto appena sopra affermato (e cioè che i caratteri siano stati impressi con singoli punzoni "mobili") alcuni segni non risultano perfettamente identici sulle due facce del reperto. Il particolare pare non sia stato notato dagli "addetti ai lavori", né vi fa accenno alcuno Godart nel suo testo del '94. Eppure il fatto dovrebbe invece far riflettere. Perché la tecnica d'incisione e le sue varie fasi possono far luce, anche se solo in parte, sullo scopo del Disco e sul suo utilizzo. Diamo ovviamente per certo che il Disco sia stato realizzato con caratteri mobili.
Una nota sulla sistemazione di alcuni segni. In un oggetto così unico e particolare non credo che le cose siano state affidate al caso. Voglio dire che prima di imprimere i segni chi lo fece dovette prima controllare che lo spazio fosse, come s'è detto, sufficientemente bastevole perché, ovviamente, non si poteva poi procedere ad abrasioni o cancellazione alcuna; ragion per cui se troviamo dei segni sistemati in maniera non usuale dobbiamo per forza di cose congetturare che sia stato volutamente così deciso. Mi riferisco non soltanto alle seqq. 4 e 5 del Lato A dove alcuni segni appaiono compressi e la testa piumata appare ruotata di 45°, ma anche alla seq. terzultima dove l'immagine del disco appare spostata al di sopra del rigo ideale di scrittura e la solita testa piumata appare qui ruotata di quasi 90°.
Avrà, tutto ciò, un significato?

2
I dati numerici che la lettura del disco ci offre sono di diverso tipo, e ciò dimostra la complessità del reperto. Dicevamo già del dato fondamentale di base: le varie spire del disco ci indicano chiaramente che era già presente alla conoscenza di quelle genti il fatto che bisognasse trattare i numeri sul 3 e sui suoi multipli: le spire in successione indicano su di un verso le sequenze 12-9-6-3-1, e sull'altro 12-9-6-3.
C'è poi un altro elemento che ci dice della sua complessità: l'ultimo segno di sequenza - ora vedremo quale - reca un'appendice che di certo non è stata posta a caso. Fra l'altro è questo un ulteriore dato che esclude che si tratti di scrittura, perché non se ne comprende il senso né l'utilità e perché in nessun'altra scrittura, conosciuta o non, è indicato un tale segno diacritico (un tratto verticale o appena obliquo). Esso appare in:

lato A 1(5), 3(3), 12(5), 15(2), 16(4), 19(4), 21(2), 22(4), 27(3);

lato B 3(4), 20(3), 21(5), 24(3), 26(5), 30(2).

I segni "sottolineati" con tale tratto sono complessivamente 9 sul lato A, e 6 sul lato B.
Si potrebbe a questo punto, però, a proposito delle spirali muovere un'obiezione che non appare del tutto indegna. Mi è stata mossa, tramite una e-mail, dall'illustre prof. Jean Faucounau, autore di un testo, in due piccoli tomi, per l'appunto sul Disco in questione (non c'è bisogno quasi di aggiungere che anche lui propende per un "testo"): sulla spira esterna del lato A la serie di cartigli, o sezioni che dir si voglia, non parrebbe di 12 ma di 13.
Ma la questione sembra abbastanza semplice da spiegare. Intanto c'è da ribadire che ogni cartiglio, ogni sequenza è "polisemica". Voglio dire, ogni elemento del disco contiene e fornisce più dati. A questo proposito fa testo sì il passaggio dal computo per decina a quello più moderno sul 3 e suoi multipli, ma pure dell'altro. Il disco reca testimonianza cioè di una prima e più arcaica fase in cui i mesi erano 13 e non 12. E questo perché - ed è caratteristica che appartiene alle più disparate culture arcaiche - tanti erano i mesi computati sul periodo lunare che, come sappiamo, è di circa 29 giorni.
Poco prima s'è detto delle appendici che individuano alcuni segni sulle due facce.
I segni caratterizzati da quell'appendice, di cui abbiamo appena detto, sono 9 sul lato A e 8 sul lato B. Perché? Semplice. Se sottraiamo tale numero al numero complessivo dei cartigli che appaiono su ogni facciata del Disco otteniamo la medesima cifra; e cioè 22. 31 meno 9 fa 22; 30 meno 8 fa ugualmente 22. Che significa? La cosa può essere messa in relazione con l'arcaico computo dei periodi e delle attività che avvenivano in collegamento alle fasi lunari: esattamente al periodo in cui la luna era, ed è, visibile nel cielo (di qui il legame con quel 13 - il tredicesimo cartiglio della prima spira del lato A).

3 - magia dei numeri

2 , 7

27 = 128

Nell'aprile di due anni fa scrivevo al Prof. Bartocci per avere lumi su quelle serie che mi sembravano non casuali.
Ricevevo, il 21, la Sua risposta nella quale mi diceva d'aver girato anche ad altri le serie numeriche e d'aver ricevuto "...una prima risposta assai interessante dall'Amm. Flavio Barbiero", che così gli scriveva "... Ho il sospetto che sia correlato al calendario, più precisamente al ciclo dei 128 anni, e che la sua soluzione potrebbe riservare grosse sorprese."
Nell'allegato l'Amm. Barbiero aggiungeva:
"Caro Umberto,
In effetti le serie che mi hai inviato mi dicono qualcosa. Mi ricordano molto da vicino le serie di abaci che a suo tempo avevo inventato (una specie di divertissement), occupandomi del calendario.
Ti allego alcuni appunti che avevo preso a suo tempo, da cui puoi prendere visione di questi abaci, del loro significato e funzionamento.
Ho il sospetto che queste serie abbiano un significato calendariale, siano cioè una sorta di abaco "magico" da cui si possano ricavare tutti i numeri significativi del calendario, se si scopre il modo di utilizzarle. Il sospetto mi viene dal fatto che utilizzando queste serie nel modo spiegato negli appunti allegati, mi vengono numeri assolutamente significativi da un punto di vista calendariale, legati in modo particolare al ciclo dei 128 anni.

Ad esempio, le prime tre righe della serie a):
5
4
5
3 2 0 64800
5 6 0 32400
3 4 0 5400
4 0 2700 2 0 1350 3 4383
5 0 675 7 0 672 4 1 1460
3 0 135 4 0 96 3 5 360
3 0 45 2 0 24 4 0 120
3 0 15 6 0 12 7 2 28
5 0 2 2 0 4

Se scrivo la quarta riga nel seguente modo: 4+7+4+3+4+3 = 25; e la quinta 3´ (7+2) = 27, 25´ 27=675. Questo, che mi esce due volte nello sviluppo degli abaci, è un numero fondamentale e caratteristico del calendario basato sul ciclo dei 128 anni. Infatti
675´ 128 = 86400, che è la lunghezza del ciclo in anni, ma anche del giorno in secondi.
1460+1 è il numero sothico (numero dei giorni interi in quattro anni); 64800/3=21600, altro numero fondamentale dei calendari antichi, presente in tutte le mitologie insieme al 27, 54,108 e così via.
Da notare che questi numeri sono presenti anche in un "promemoria" criptico (di sicuro significato calendariale), inserito in un passo della Bibbia (Numeri 31,32-47) qualche millennio fa."
[Segnaliamo, ad evitare incomprensioni, che abbiamo riportato il testo dell'Amm. Barbiero esattamente così come ci è stato trasmesso, anche se erroneamente subito dopo la tabella è scritto "la quarta riga" e poi "la quinta", laddove si volevano intendere invece "la terza riga" e "la quarta". Infatti l'Amm. Barbiero ha preso le righe delle serie numeriche dianzi elencate per il lato A, e le ha sistemate in colonna, partendo dal basso - si comprenderà subito a quali colonne ci si riferisca. Ha però inserito solo le prime 3 righe, e pensando ovviamente alla quarta e alla quinta non incluse nel grafico, volendo spiegare la terza ha detto "quarta", mentre per la quarta (ripetiamo, non presente nella tabella) ha detto "quinta". Notiamo pure che, se si parte dal basso di una delle colonne corrispondenti alle righe in oggetto, e si moltiplica ogni numero per quello che si trova immediatamente al di sopra, si ottengono i valori che compaiono nella colonna quasi contigua. Strettamente contigue sono delle colonne che (a contare sempre dal basso) rappresentano le correzioni che di volta in volta, e in maniera empirica, si possono apportare, ovvero le aggiunte di giorni che vanno effettuate per mantenere il fasamento con l'anno solare - l'anno puro viene indicato con lo zero.]
Non sarebbe una perdita di tempo applicare tale struttura d'abaco alle nostre serie numeriche, e verificare via via i risultati ottenuti. Esse, in effetti, si possono già visualizzare in parte nella griglia sopra descritta.
Se è così il Disco di Festo si pone anche come il primo calendario moderno, più moderno e più preciso di quello, il gregoriano (correzione del giuliano), che noi attualmente utilizziamo.
"La durata di un anno solare è stata misurata (alla quarta cifra decimale) in 365,2422 giorni solari. Per mantenere il fasamento fra calendario e anno solare, normalmente si aggiunge un giorno ogni quattro anni di 360 + 5 giorni ciascuno. Si ha quindi un anno (detto giuliano) di durata media 365,25 giorni, 0,0078 giorni più lunga di quella dell'anno solare. Pertanto, dopo 1/0,0078 = 128,205 anni, si ha un eccesso di 1 giorno intero, che va detratto.
In un ciclo di 128 anni, la differenza fra l'anno medio e l'anno solare risulta di 1,08 secondi. Per avere un intervallo di tempo esattamente divisibile per il secondo, dobbiamo moltiplicare 128 per 12,5 e si stabilisce così un ciclo di 1600 anni, contenenti esattamente 50.491.081.728 secondi." (da: Flavio Barbiero, Origine e significato del valore dell'unità di misura del tempo, 9 novembre 1996).
Pertanto, con un tale calendario lo scarto in 128 anni sarebbe di soli 1,08 secondi, mentre con quello che noi utilizziamo esso è di 1 giorno intero.
A dir poco meraviglioso, stupefacente, e (nel senso migliore del termine) anacronistico.
Apparentemente anacronistico, stando a quanto di solito si racconta sulle magnifiche sorti progressive della nostra società in opposizione alla barbarie e all'arretratezza dei tempi antichi.

Nota finale
Non crediamo di aver esaurito così quanto c'era e c'è da dire sul manufatto in questione.
La complessità di esso è, difatti, tale che sono certo che mi ci vorrà tanto altro tempo... per dipanare in maniera completa ed esaustiva un tale "labirinto" di informazioni.
Dante ebbe a scrivere nella sua Commedia che "poca favilla gran fiamma seconda...". Sono certo, a questo punto, che altri (più attrezzati di me) sapranno essere quella gran fiamma.
Io, per conto mio, continuerò a lavorarci e se mai caverò fuori dell'altro i lettori di Episteme saranno i primi ad esserne informati.
Se poi - così chioseranno i micenologi ortodossi, ne sono certo - dovessi io essere in errore, ebbe c'è un modo semplicissimo per dimostrarlo.
Traslitterare per benino e tradurre un tale testo.
Cosa impossibile però, quando non si conoscano né la lingua né il codice linguistico che la sottende.




di Rosario Vieni
r.vieni@tin.it