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21 Gennaio 2004 MISTERO
Umberto Cordier
Guida ai luoghi misteriosi di d’Italia
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L'itinerario iniziatici del "Sacro Bosco"
Bomarzo fu antica località etrusca e in epoca tardoromana si chiamò Polimartium; nei primi secoli del Cristianesimo ebbe sede vescovile.
Vicino Orsini, singolare personalità di uomo d'armi e letterato, nel Cinquecento vi fece costruire un importante Palazzo (oggi sede comunale), e il famoso "Parco dei Mostri" o "Bosco Sacro".
è questo uno dei "monumenti" misteriosi italiani più conosciuti; un luogo veramente interessante e singolare, notevole per i problemi di interpretazione che presenta.
Si tratta in sostanza di un vasto insieme di grandi sculture "rupestri" di età moderna, che raffigurano esseri mitici, oggetti emblematici, architetture simboliche: il gigante che rovescia la donna, il drago e le fiere, l'orco con le fauci abitabili, le sensualissime sirene, divinità fluviali e marine, spazi con suggestive geometrie, la casa dalle mura inclinate, il tempio, ed altro ancora.
Così ne scrive la guida regionale del T.C.I.: "[...] complesso monumentale di notevole suggestione, unico nel suo genere, situato alle pendici di un anfiteatro naturale. Si compone di una serie di terrazze digradanti verso il fondovalle dove, entro una vegetazione rigogliosa, sono scolpiti, direttamente nei massi di peperino di cui è cosparso il terreno, gigantesche figure di animali mostruosi e fantastici, di colossi favolosi e grotteschi; poco chiari sono la destinazione e il significato delle raffigurazioni. [...]. Scarse notizie si possiedono su di esso: fu ideato e fatto costruire da Vicino Orsini, singolare personalità di uomo d'armi e letterato, presumibilmente dal 1552 fin oltre il 1580. Numerose iscrizioni che accompagnano il visitatore e i sedili disposti lungo l'itinerario ne fanno un luogo di passeggio e di meditazione".
Parecchi elementi del Parco sono tuttora visibili, ma molti altri dettagli sono andati probabilmente perduti in secoli di abbandono, compresa l'esatta successione di "lettura" delle figure di pietra sparse nel bosco. Certo sarebbe molto interessante compiere ricerche documentarie per tentare di risalire ai progetti originali del complesso.
Per il visitatore, i motivi di ammirazione sono parecchi: le colossali dimensioni delle sculture ricavate nella viva pietra, lo strano e stretto connubio fra natura e opera umana, l'aspetto arcano e simbolico dei giganteschi manufatti. Oltre a tutto questo, si intuisce però che l'insieme offre un significato che deve essere decifrato. Recitano infatti alcune delle iscrizioni:

"Voi che pel mondo gite errando, vaghi / di vedere meraviglie alte e stupende / venite qua, dove son faccie orrende, / elefanti, leoni, orsi, orchi et draghi";

un'altra:

"Tu ch'entri qua pon mente parte a parte e dimmi poi se tante meraviglie sien fatte per inganno o pur per arte?";

e un'altra, ancora più palese:

"Colui che non si dirigerà verso questo luogo con gli occhi spalancati e le labbra serrate non ammirerà i sette famosi monumenti dell'Universo".

Non posso qui dilungarmi con una descrizione dettagliata delle numerose figure e delle architetture, della loro disposizione reciproca, delle simbologie, delle iscrizioni; rimando il lettore interessato alla bibliografia. Molto sommariamente, dirò solo che il percorso si può interpretare come il racconto di un itinerario iniziatico, vale a dire una sequenza di "operazioni" psicologiche ed esistenziali: il "viaggiatore", che aspira al perfezionamento del proprio essere, deve superare con fede e tenacia prove terrifiche e tentazioni lascive (i mostri spaventosi, le sirene ingannatrici), fino a giungere nel punto più alto, dove troverà sereno compimento e superiore armonia (un elegante tempietto in un'amena radura).
Al lettore curioso interesserà sapere che un altro "orco", simile a quello di Bomarzo (e probabilmente da questo ispirato), si trova nella Villa Aldobrandini di Frascati (RM), nel boschetto sopra il ninfeo. E un intero percorso "esoterico" paragonabile a quello del Sacro Bosco si può vedere a Saonara

Una scoperta di notevole interesse venne riferita da Dino Orlandi sul mensile "Il Giornale dei Misteri". Nella primavera-estate del 1991, un gruppo di ricerca guidato dal geom. Giovanni Lamoretta, assessore al Comune di Bomarzo, ha rinvenuto in questa zona un arcaico altare rupestre che presenta una chiara lavorazione artificiale e che mostra alvei, incisioni e simboli.
Il reperto, in duro peperino, è situato "nella zona boschiva occidentale, che si estende sul fianco della collina di Bomarzo, dove questa, nel prolungarsi verso sud, piega ad occidente, creando una grande ansa attigua all'attuale Sacro Bosco.
Si tratta di un grande blocco di pietra che nella parte emergente dal suolo occupa un volume di poco meno di quattro metri cubi, con un andamento irregolare, superfici alterne, alcune disposte scalarmente, con complicate simbologie alla base e grandi segni solari - o indefiniti - nel prospetto occidentale. Al vertice dell'ara è stato scavato un profondo alveo rettangolare.
In alcuni punti delle superfici verticali sono state aperte delle nicchie di notevoli proporzioni, profonde una quindicina di centimetri, probabilmente destinate ad accogliere strumenti rituali e di culto. Il lavoro risulta eseguito non con scalpelli a taglio, ma con utensili a punta, specie di grandi bulini, che hanno lasciato evidenti tracce sulle pareti delle nicchie stesse.
Il simbolo più evidente, un sole con raggi curvi verso sinistra - il che indicherebbe una rotazione destrorsa - è sul fronte occidentale dell'ara, a circa 80/90 centimetri dal piano di campagna, ma l'allegoria solare deve essere presa con una certa prudenza. Il senso generale dell'impianto sembra più rivolto a una dedicazione uranica, che pare confermarsi nel complesso simbolico degli altri segni incisi. Gli affossamenti del piano superiore mostrano le tracce di un esercizio sacrificale che, vista l'ambientazione generale, sembra anch'esso di natura uranica. Si sarebbe così in presenza di un culto indirizzato a potenze cosmiche, che sopravanzano il senso planetario e solare del simbolo più evidente.
L vicinanza, in una stessa area boschiva, di questo altare arcaico e dell'itinerario esoterico del "Sacro Bosco" è un fatto suggestivo che può suggerire interessanti considerazioni.

 Il globo di Matelica

Il globo di Matelica
L'importante raccolta ebbe origine nella prima metà del Settecento dalle collezioni di monsignor Filippo Piersanti.
Il Museo si è recentemente arricchito di un reperto archeologico del tutto eccezionale, un antico oggetto di probabile origine greca, dotato di sorprendente contenuto scientifico. Si presenta come una sfera di marmo del diametro di quasi 30 cm, del peso di 35 kg, ed è chiamato - per la sua forma - il "globo di Matelica".
Dell'importante ritrovamento riferirono i giornali locali; in seguito l'oggetto venne presentato nel corso di una trasmissione televisiva RAI della serie "Alla ricerca dell'arca", condotta da Mino Damato.
Il "globo di Matelica" è stato accuratamente studiato da un esperto del settore: Francesco Azzarita, coordinatore della Sezione Quadranti Solari dell'Unione Astrofili Italiani; egli scrisse della scoperta sulla rivista dell'Unione, e dallo scritto è possibile apprezzare la sorprendente conoscenza e genialità dell'ignoto antico costruttore. Ne riporto qualche brano.
Un globo di marmo bianco, reperto archeologico di grande attrattiva per la presenza di incisioni, segni e scritture greche, ha rivestito il ruolo di una significativa scoperta: un singolare modello di orologio solare giunto a noi dall'antichità. E' questa la storia che vogliamo raccontare, cioè quella del Globo di Matelica, oggetto di studi, confronti e molte considerazioni, durante il primo Seminario Nazionale di Gnomonica, organizzato dalla Sezione Quadranti Solari lo scorso dicembre a Sant'Elpidio a Mare. Apriamo la storia facendo conoscenza con il reperto.
Il globo in oggetto fu rinvenuto a Matelica nel 1985, durante le operazioni di scavo che interessarono le fondamenta del Palazzo Pretorio, risalente al XIII secolo. Per interessamento di Danilo Baldini, esponente del locale Archeoclub, la sfera di marmo fu depositata nel Museo cittadino. Essa ha un diametro di 29 cm e presenta un grosso foro conico, probabile sede di un sostegno inferiore che la sorreggeva in posizione adatta al suo funzionamento.
Sulla superficie del globo sono incise due grandi curve: una, di forma circolare, doveva venire a trovarsi in giacitura orizzontale quando la sfera si trovava sul suo sostegno, sul quale la immagineremo durante la seguente trattazione. L'altra, semicircolare e perpendicolare alla prima, si doveva trovare in posizione verticale, a dividere il semiglobo superiore in due quarti di sfera. Per rendere significative le considerazioni che faremo, supporremo che questi due quarti di sfera risultino orientati uno verso est e uno verso ovest. Pertanto le due curve descritte assumono il ruolo di orizzonte, la prima, e di arco meridiano, la seconda.
La sfera porta inoltre, incisi sulla superficie, due curiosi sistemi di riferimento. Il primo che si impone all'attenzione è una sequenza di 13 fori, ognuno del diametro di 5 mm, incisi sull'emisfero superiore a formare due archi simmetrici che si estendono da est a ovest: ogni foro è contrassegnato da una lettera greca. Il secondo sistema è formato da tre circonferenze, parallele tra loro e giacenti su una porzione dell'emisfero superiore, che supponiamo rivolta a nord. Queste tre circonferenze sono intersecate da un arco di cerchio passante per il loro polo; anche su queste linee sono incise lettere e parole greche. Il polo in oggetto risulta distare 43ø dal cerchio dell'orizzonte: si tratta probabilmente della latitudine d'impiego dell'oggetto in esame".
A quest'ultimo proposito è da notare che la latitudine di Matelica è proprio di circa 43°.
Azzarita quindi accenna alla storia degli strumenti di questo tipo, per poi evidenziare le particolarità di quello trattato.
Prima di prendere in esame il Globo di Matelica, è opportuno premettere ancora che, a quanto ci risulta, esso è il secondo orologio solare conosciuto a forma di globo, dopo il cosiddetto Globo di Prosymna, rinvenuto nel 1939 da W. Blegen in quella località dell'Argolide e attualmente custodito a Nafplion, nella stessa Grecia. E' bene dire, però, che detto globo ha in comune con il nostro solo i fori identificati da lettere greche e possiede, invece, due reticolati di linee curve con iscrizioni zodiacali. Il Globo di Matelica non possiede reticolati di linee, ma solo l'orizzontale, la meridiana e l'insieme delle tre circonferenze parallele e dei tredici fori: singolare e importante particolarità che, nella rarità dei congeneri, lo rende assolutamente unico.
Lo scritto di Azzarita prosegue con minute considerazioni geometriche e astronomiche sulla concezione e il funzionamento dei tredici fori, giungendo a stabilire che avevano la funzione di indicare le ore del giorno, e che la loro particolare disposizione consentiva il funzionamento in ogni stagione. Discutendo poi della funzione dei tre cerchi, così scriveva: "Se le circonferenze citate descrivessero effettivamente il comportamento del Sole durante l'anno, vi dovrebbero corrispondere delle scritture in qualche modo legate ai segni zodiacali. In altre parole, se queste corrispondono in qualche modo a un calendario, vi dovremmo trovare scritti i nomi dei mesi. Non è solo con il desiderio, ma con tutta l'emozione della scoperta, che riusciamo a decifrare - nella giusta collocazione - le lettere PART (cioè Partenos = Vergine) e DIDIMOI (cioè Gemelli). Non rimane quindi alcun dubbio: le tre circonferenze hanno funzione di calendario e il Globo di Matelica è un quadrante solare completo!".
Interessante è anche la descrizione del globo dovuta a Danilo Baldini, pubblicata dalla rivista "L'Aurora" di Camerino (MC). Lo scritto di Baldini si conclude con una proposta di datazione del reperto: "La costruzione dell'orologio solare di Matelica dovrebbe risalire al IV secolo a.C., quindi l'analisi di questo strumento ci permette di capire a che livello fossero le conoscenze astronomiche e geometriche degli uomini di 2300 anni fa. Inoltre, per noi archeologi di Matelica, il globo costituisce una nuova autorevole prova dei forti rapporti culturali e commerciali che esistevano nel IV secolo a.C. tra la nostra antica città e la Grecia, in un contesto di traffici commerciali che intercorrevano tra il mondo etrusco e quello ellenistico".
Il singolare reperto è stato esaminato da eminenti studiosi, tra i quali il prof. Archie Roj del dipartimento di astronomia fisica dell'Università di Glasgow, il dott. Andrea Carusi, astrofisico del reparto planetologia di Roma, il prof. Giuliano Romano, esperto di archeoastronomia.
Due relazioni di studio sul globo di Matelica vennero presentate da Francesco Azzarita e Girolamo Fantoni nel corso del Colloquio Internazionale di Archeologia e Astronomia tenutosi a Venezia nel maggio 1989.
In Italia si conoscono ben pochi strumenti simili: se ne conserva uno a Riva Valdobbia (VC), in casa Bello, ma si tratta di un oggetto più semplice e più recente (è datato 1690).
Senza troppo uscire dal tema, si può anche citare l'interessante reperto litico che si conserva presso il Museo Civico Archeologico di Bologna. Si tratta di un "solarium" dei tempi di Giulio Cesare: è un blocco di calcare grigio, nel quale è scavata una parziale superficie sferica del diametro di circa 35 cm; vi sono tracciate linee orarie che indicavano l'ora (e la stagione) mediante l'ombra di uno gnomone applicato sul bordo.

 Altra visuale del globo di Matelica

Chi fece visita ai cavernicoli?
In alcune delle sale sono conservati materiali provenienti dalla caverna delle Arene Candide, presso Finale Ligure (SV).
Sulla riviera ligure di ponente, nei pressi della Punta di Caprazoppa, ancora un secolo addietro esisteva un luogo di grande e particolare bellezza naturale. Ora ne rimane solamente il nome: le "Arene Candide".
Qui erano infatti grandi dune di bianca e sottile sabbia eolica, che dal mare salivano sulle falde del monte fino a circa 80 metri di altezza. Le sabbie vennero poi progressivamente asportate per l'industria vetraria, ed ora anche la roccia calcarea è profondamente scavata da una devastante attività estrattiva.
Nella montagna si aprono numerose grotte, la più famosa delle quali è detta appunto delle "Arene Candide": quando le bianche sabbie ancora esistevano, il loro livello giungeva in pendenza fino alla soglia della grotta. La cavità ha un sviluppo complessivo di circa 700 metri.
Questa caverna ha guadagnato notorietà internazionale per la sua importanza come stazione preistorica, abitata dall'uomo già nel paleolitico superiore; a più riprese vi si trovarono infatti numerosi e rilevanti reperti. L'iniziatore di questi studi fu Arturo Issel, che avviò gli scavi nel 1864.
Nel corso degli anni emersero numerosi dettagli di grande interesse, non privi di aspetti curiosi e persino strani.
Lo stesso Issel, nel 1886, riferì che negli scavi si trovarono numerose conchiglie marine di specie rare, assenti in Liguria e caratteristiche invece delle zone calde del Mediterraneo. L'anno seguente, ancora Issel diede notizia di un ritrovamento anche più insolito. Si rinvenne infatti un esemplare - non fossile - di conchiglia marina (Mitra oleacea, Reeve) del tutto estraneo alla fauna del Mediterraneo, e proprio invece dell'Oceano Indiano. Pur trattandosi di un oggetto di origine naturale, la sua presenza è da interpretarsi come fatto "culturale", dovuto all'intervento umano.
Il dottor N. Morelli raccolse un esemplare di questa Mitra negli scavi da lui eseguiti alla estremità occidentale della grotta. L'esemplare è di media grandezza ed ha l'apice mozzato; ma, prescindendo da questa circostanza, è in buono stato di conservazione. Vi sono ben manifesti, tra gli altri caratteri, il color bruno e la lucentezza smaltoide propri alla conchiglia fresca.
Io riconobbi a tutta prima nell'oggetto di cui si tratta, allorché mi fu comunicato dal raccoglitore, una specie estranea al mare Ligure, ed anche al Mediterraneo, ma non mi riuscì determinarla, mancandomi gli opportuni materiali di confronto. Alla M. oleacea fu ascritto dal dottore E. von Martens di Berlino, cui l'avevo mandato in esame. Questo naturalista, di cui è nota la grande autorità in materia di conchiologia, mi avvertiva come fosse ora accertata l'ubicazione che il fondatore della specie stessa, Lowell Reeve, non conosceva, e soggiungeva che tutte le Mitra appartenenti al medesimo tipo, tra le altre la M. acuminata, Swainson, strettamente affine alla oleacea, non furono fin qui incontrate che nell'Oceano Indiano e nelle sue dipendenze.
La singolare conchiglia esotica non poteva avere provenienza locale, perché all'epoca della frequentazione umana della caverna il Mediterraneo non era un mare più caldo dell'attuale. Nemmeno era un fossile, trovato dai cavernicoli in remoti strati geologici e quindi portato nella grotta, perché aveva caratteristiche di conchiglia fresca.
L'interessante caso assunse in seguito maggiore evidenza, poiché negli scavi della grotta don Morelli trovò poco dopo altri quattro esemplari della stessa conchiglia, e nel 1892 se ne contavano ben quindici.
Lo stesso Issel concluse che la presenza della Mitra oleacea testimoniasse dunque un contatto fra gli antichi abitatori liguri e genti provenienti da lontano, probabilmente dalle coste africane.
Chi fece visita ai cavernicoli?
Un secolo dopo i ritrovamenti dell'Issel, giungono altre interessanti scoperte che sembrano rafforzare l'ipotesi di contatti fra popoli preistorici lontanissimi della Liguria e dell'Africa meridionale.
Ha scritto infatti nel 1992 Franco Tornatore: "Recenti scoperte di pitture rupestri di origine preistorica, avvenute nell'Africa australe evidenziano una notevole ed interessante affinità di stile, dei soggetti e di impostazione, "di scuola" con le analoghe forme artistiche esistenti in quella parte dell'Europa meridionale, abitata da tribù di Liguri, che fu la culla della nostra civiltà e propongono l'ipotesi di una dipendenza culturale tra il nord ed il sud del mondo.
Questi affreschi e quei bassorilievi [dei Liguri] risalgono tutti al Paleolitico superiore e sono databili tra 35 mila e 8 mila anni fa. I reperti dell'Africa australe: Namibia e Botswania risalgono invece al Paleolitico inferiore, tra i 50 mila ed i 35 mila anni fa. Ebbene, sia gli uni, sia gli altri appaiono opere di una stessa scuola, come se un invisibile filo culturale collegasse l'arte delle tribù Khoisan con quelle Liguri, suggerendo quasi un'origine, non etnica, ma artistica comune, con i primi progenitori dei secondi".

Le stele della Lunigiana
Il Museo ha sede nel Castello, sopra il poggio del Piagnaro, attorno a cui è addensato l'abitato più antico.
La sua nascita è dovuta all'opera del prof. Augusto Cesare Ambrosi, sindaco del comune di Casola in Lunigiana (MS), dove molti dei materiali erano in origine conservati (alcune statue-stele si trovano ancora presso il Municipio di Casola).
Dopo quello della Spezia, il Museo di Pontremoli è la più importante raccolta delle strane statue-stele della Lunigiana, originali o in copia.
Un'interessante stele-menhir si trova anche nel cortile del Palazzo Bocconi, che prospetta sulla piazza inferiore di Pontremoli.
Secondo una radicata tradizione riferita da Giorgio Batini, uno dei più importanti e celebri templi "pagani" della Lunigiana sorgeva a Vignola, una frazione della stessa Pontremoli (3 km a nord-ovest); il sito del tempio coinciderebbe con quello dell'attuale pieve di San Pancrazio. Il cronista pontremolese Vitale Arrighi, raccoglitore e annotatore di tradizioni paesane, ricordò che nel 1896, "durante certi lavori fatti alla pieve, allorché fu demolito un muro e tolto un riempimento che si trovava dietro un altare, si rinvenne una grossa pietra cubica lavorata a martellina con una cavità nel mezzo, e l'opinione del tempo fu che si trattasse, appunto, di un'ara pagana. Secondo questa cronaca "... la pietra dei sacrifici fu rimurata nella nicchia per riveder la luce del giorno quando piacerà al Dio Eterno, padrone dei secoli passati ed avvenire...". Se questo è vero, il parroco di San Pancrazio ritiene che l'ara sia murata proprio sotto l'altare della Santa Croce dove è esposto alla devozione dei fedeli un antico e artistico Crocifisso".
Su un balzo erboso a pochi metri di distanza dalla pieve, tutti gli anni, la sera del 2 maggio, viene acceso un altissimo e spettacolare rogo di fascine, al suono delle campane; secondo certe memorie manoscritte della pieve stessa, il rito vuole appunto ricordare "che furono bruciati gli idoli del tempio" e quindi la conversione al cristianesimo degli ultimi pagani. Da notare che l'usanza viene consumata intorno a Calendimaggio, una delle date "magiche" dell'antico calendario.
Un altro interessante elemento di folclore probabilmente collegato agli antichi idoli è rappresentato dai "pipin", piccoli bambocci di legno di fabbricazione locale: quelli attuali - anche se abbastanza vetusti - assomigliano a statuine di presepe, ma si pensa che anticamente questi bambocci raffigurassero davvero degli idoletti; e si suppone che in origine anche la cerimonia del rogo fosse stata differente, consistendo proprio nella distruzione degli idoletti di legno in un piccolo fuoco acceso all'interno della pieve, appunto per rievocare la fine del paganesimo.
L'usanza attuale che investe questi "pipin" è invece piuttosto curiosa e rara: la mattina del tre maggio (cioè quella successiva al rogo serale), i "massari" responsabili estraggono oltre un centinaio di statuette dal vecchio mobile della sacrestia in cui sono conservate e le espongono su un tavolo a disposizione dei fedeli. Ogni abitante del paese che entra nella chiesa preleva uno dei piccoli simulacri e lo porta via con sé. A sera si svolge una processione, che si conclude in chiesa con la funzione religiosa; i fedeli, prima di andarsene, abbandonano i fantocci di legno sui banchi della pieve oppure sull'altare, proprio "dove l'antico Crocifisso sovrasta, forse, un'ara pagana".

Gli enigmatici sotterranei della Rupe
Con lo pseudonimo di "Toddi", Silvio Pietro Rivetta scrisse anche di curiosità italiane. Un esempio: "[...] sta Orvieto sul rossigno masso che le forze plutoniche e alluvionali hanno costruito e scontornato a bella posta". Ne han fatto un imponente piedistallo dominatore della valle, un altare ciclopico sul quale - a memoria d'uomo, a traccia di storia e a testimonianza di ruderi - sempre fu onorata una divinità.
Tra le poche cose certe che l'etruscologia può avallare è l'etimologia di Orvieto: fu per gli Etruschi Hurtvi-Veltha, ossia "il recinto del tempio di Vertumno", massima divinità di quel popolo.
Dov'era il Fanum Voltumnae, veneratissimo tempio, e ove più tardi fu onorato Giove Cimino, la fede e l'arte del trecento eressero il Duomo, che ogni secolo successivo volle arricchire, pur se non sempre abbellì. è la gloria massima di Orvieto.
Toddi si sofferma sugli aspetti misteriosi della città, e scrive: "Il più importante è quello della strana capricciosa rete di sotterranei scavati in ogni senso nel gigantesco masso orvietano. è quasi un'altra rete stradale, ma le bizzarre vie buie che si intersecano nella roccia non coincidono con le superiori, le quali - del resto - sono da 6 a 10 metri più in alto.
Per percorrere i cunicoli bisogna curvarsi, tanto la volta è bassa: non potevano dunque servire come vie di scampo nei periodi torbidi, ché disagevole è passarvi in fuga: né le ramificazioni strane e la mancanza di sbocchi alla campagna si accordano con tale ipotesi. Non hanno pendenze che lascino sospettare scopi idraulici: non vi son tracce tombali o di culto. E son chilometri e chilometri di sotterraneo.
A che servivano?
Adesso servono in parte come cantine; e muretti e cancelli separano la grotta di Tizio da quella di Caio. Ma, poi che ogni proprietario di case ha preso abbondantemente il sotterraneo che gli serviva, restano ancora chilometri di cunicoli: corridoi i quali non racchiudono che tenebre e il mistero della loro origine.
Non si sa neppure se siano di età etrusca o medievale.
Ma proprio questo "non-si-sa" li rende ancora più interessanti.
è probabile che almeno una parte degli strani cunicoli siano spiegabili come il risultato di scavi operati per ricavare pietra da costruzione, un po' come si è verificato per il sorprendente labirinto che si estende nel sottosuolo di Napoli, tuttavia potrebbero esservi altre ragioni meno banali e meritevoli di indagine.

Un Moai pasquense in Italia
Di origine etrusca, è formato da un borgo medievale e da una parte cinquecentesca; è molto interessante per la sua conservazione ed è assai suggestivo per la posizione strapiombante sul precipizio tufaceo.
è interessante citare la presenza a Vitorchiano dell'unica statua-stele di tipo pasquense che esista al di fuori dell'Isola di Pasqua!
Per iniziativa della rete televisiva RAI3 e della popolare trasmissione "Alla ricerca dell'arca", condotta da Mino Damato, all'inizio del 1990 è stata organizzata una singolare impresa.
Si è infatti invitato in Italia dall'Isola di Pasqua un clan familiare composto da 19 persone (11 uomini, 5 donne, 3 bambini); il gruppo si è stabilito per circa un mese nella cittadina laziale di Vitorchiano, dove sono stati messi loro a disposizione spazi e materiali della locale cava Anselmi.
Presso la cava stessa il gruppo pasquense ha iniziato a lavorare un grande blocco di peperino del peso di oltre trenta tonnellate, utilizzando piccole asce manuali e pietre abrasive.
Per dare all'opera una precisa identità culturale, il lavoro è stato condotto con una particolare ritualità e le sue fasi principali sono state accompagnate da specifiche cerimonie.
Al termine della faticosa operazione si è ottenuto un vero e proprio Moai dell'altezza di oltre sei metri, completo del copricapo.
La singolarissima stele-statua è stata in seguito innalzata (mediante una potente gru) nella sua sede definitiva, al centro della piazza Umberto I di Vitorchiano; l'enigmatico sguardo del Moai italiano propone al visitatore la suggestione di un mistero esotico, nella cornice di una regione ben ricca di fascino e di misteri dell'alba della storia conosciuta.
Uno dei temi più ricorrenti e caratteristici dell'archeologia misteriosa è indubbiamente quello della famosa Isola di Pasqua.
Si tratta di un'isola di origine vulcanica, di 118 kmq, situata nell'Oceano Pacifico a circa 3500 km dalle coste del Cile, al quale appartiene politicamente. Venne così chiamata perché scoperta il giorno di Pasqua del 1722. L'isola è particolarmente celebre per la presenza di grandi statue-stele antropomorfe, i Moai, monoliti di trachite alti dai 2 ai 7 metri scolpiti in foggia di enigmatiche figure assai caratteristiche. Queste figure umane hanno teste dai lineamenti molto pronunciati, mentre il resto del corpo è appena abbozzato fino all'altezza dell'ombelico; non vi sono le gambe. Nell'isola si sono contati circa seicento Moai, ma solo una piccola parte sono ancora in posizione eretta; alcuni portano una sorta di copricapo. Le statue furono forse rappresentazioni di antenati divinizzati o numi tutelari della casta dominante, gli "uomini dalle lunghe orecchie"; intorno all'anno 1000 della nostra era, forse a causa di una crisi ecologica e sociale la classe dominante venne in conflitto con un altro gruppo etnico, ed ebbe inizio la decadenza e la dispersione dell'antica cultura.
Le stranezze e gli aspetti misteriosi della storia pasquense sono numerosi, e hanno dato origine ad una cospicua letteratura scientifica e parascientifica, ricca di ipotesi affascinanti. Purtroppo non è possibile accennarne neppure di sfuggita; il lettore interessato troverà facilmente abbondante materiale documentario.
Un importante studio etnografico, anche se ormai datato, è dovuto ad Alfred Metraux, L'Ile de Paques, pubblicato in Francia nel 1941; tradotto anche in italiano, è arricchito da una vasta bibliografia.

Gli articoletti sono tratti da "Guida ai luoghi misteriosi d'Italia" di Umberto Cordier - Edizioni Piemme Pocket 2002. Riproduzione autorizzata e limitata a questa occasione.


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