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12 Novembre 2003 MISTERO
Flavio Barbiero
Il calendario civile moderno
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Il calendario più diffuso al giorno d'oggi è il cosiddetto calendario "gregoriano", elaborato dalla cultura occidentale ed imposto praticamente all'intero pianeta, anche se sopravvivono nel mondo vari altri tipi di calendario, soprattutto ai fini religiosi e liturgici.. E' detto anche calendario "civile", specie dalle altre culture, come quella ebraica, perché serve ormai adottato in tutto il mondo per gli usi civili. Stampato in miliardi di copie, in tutte le lingue del mondo, regola gli appuntamenti d'affari e le attività internazionali dell'intero pianeta, certifica i dati anagrafici di tutti gli abitanti della terra.
Presente sui tavoli e alle pareti di tutti gli uffici del mondo e nella maggior parte delle abitazioni, è usato e consultato quotidianamente da miliardi di persone, che pure nella quasi totalità ne ignorano le origini, il perché della sua struttura, il significato dei nomi.
Il calendario attuale viene detto "gregoriano", da papa Gregorio XIII, che nel 1582 vi apportò gli ultimi ritocchi; per la verità quasi insignificanti: la sua struttura era in pratica congelata fin dai tempi di Giulio Cesare. Il calendario che prevedibilmente rimarrà per sempre in dotazione all'umanità, a regolarne le attività nei secoli futuri, è un "prodotto" interamente romano. Ed è probabilmente, da un punto di vista strutturale, l'opera più irrazionale e priva di logica che sia mai stata prodotta in questo campo.
è un calendario essenzialmente solare, basato sulla lunghezza dell'anno tropico.
Il suo inizio, il 1° gennaio, non coincide con alcun fatto astronomico di rilievo; un equinozio od un solstizio sembrerebbero assai più indicati. Il numero dei mesi, 12, non risponde ad alcuna esigenza pratica, o matematica. La lunghezza stessa dei mesi è variabile secondo un criterio privo di una logica apparente. E per finire anche i loro nomi sono privi di significato immediato.
Per la maggior parte degli altri calendari è sufficiente esaminarne la struttura per capire quale sia la logica che sta alla base della loro costruzione. Il calendario moderno, invece, non può essere capito se non se ne conosce l'origine e tutta la sua evoluzione attraverso i secoli.

IL CALENDARIO ROMANO PRIMITIVO
Nei primi tempi di Roma era in vigore un calendario di cui ignoriamo le origini. Probabilmente era di provenienza esterna, etrusca forse, perché è difficile immaginare che i primi agresti abitanti dei sette colli avessero potuto sviluppare autonomamente un calendario di tale perfezione.
Era un calendario in apparenza assai complicato, tanto che gli stessi eruditi successivi non erano riusciti a capirne la logica e ne riferiscono in modo confuso e reticente. In realtà, come tutti i calendari, era assai semplice, ma la sua conoscenza era un segreto gelosamente custodito dai sacerdoti, che si limitavano a proclamare l'inizio e la fine dei mesi e degli anni, le festività ed ogni altra caratteristica legata ai giorni, guardandosi bene dal rivelare su che base prendevano le loro decisioni. Le notizie che abbiamo, tuttavia, sono ampiamente sufficienti a consentirci di capire su cosa fosse basato.
Era un calendario lunisolare, basato essenzialmente sul ciclo lunisolare di otto anni. Come abbiamo visto al capitolo precedente, 8 anni solari contengono quasi esattamente 99 mesi lunari. Come in tutti i cicli di questo tipo, il calendario è fasato sul ciclo lunare e vi rimane agganciato mediante osservazioni pratiche. Presso gli antichi romani, come presso tutti quelli che adottavano il mese lunare, l'inizio del mese veniva proclamato di volta in volta dal sommo pontefice dopo che era segnalata la comparsa della prima falce di luna. Il popolo veniva chiamato a raccolta il primo giorno del mese per udire dal pontefice quale fosse la distribuzione dei giorni nel mese che iniziava. Quel primo giorno veniva perciò chiamato "calendae" da calare (chiamare, convocare). Da qui deriva il nome "calendario".
La durata del mese era determinata "empiricamente", mediante l'osservazione delle fasi lunari, ed aveva durata alternativamente di 29 e 30 giorni (eccezionalmente 31). Il nome stesso "mensis", deriva dal nome greco della luna: mene.
I mesi lunari, però, hanno l'abitudine di scorrere senza curarsi delle corrispondenze stagionali, per cui compito di ogni buon calendario era di "organizzarli" in modo tale da avere un riferimento costante (anche se ciclico) con l'anno solare.
Ogni calendario lunisolare risolve in modo diverso il problema. Vedremo più avanti alcuni esempi che rispondono ad una logica immediata, come quello ebraico. Il calendario romano primitivo, detto anche di Romolo, aveva risolto il problema in maniera originale e sorprendente, non priva di rigore logico, unito ad una certa eleganza strutturale. Il ciclo lunisolare era noto soltanto ai sacerdoti, che si guardavano bene dal rivelare i loro segreti. Per gli usi civili era stato istituito un anno completamente svincolato da quello solare. Esso era costituito, infatti, da dieci mesi lunari, ed aveva quindi una durata media di 295 giorni. Cinque anni civili costituivano un "lustro", che corrispondeva a circa 4 anni solari.
Due lustri erano formati da 100 mesi lunari, uno in più dei mesi contenuti in un ciclo di 8 anni (99). I due lustri, quindi, "sconfinavano" per la durata di un mese nel ciclo successivo. Per mantenere il fasamento, i sacerdoti del tempo avevano escogitato un sistema molto semplice: il centesimo mese, quello che chiudeva il ciclo di due lustri, era contemporaneamente il primo mese del lustro successivo. Vale a dire che l'ultimo anno lunare di un ciclo di otto anni solari ed il primo del ciclo successivo avevano in comune un mese e contavano quindi complessivamente 19 mesi. In questo modo, pur essendo ciascun anno composto da dieci mesi, i mesi di stretta pertinenza di due lustri erano soltanto 99, quanti ne sono compresi in 8 anni solari. In tal modo il calendario veniva rifasato quasi esattamente ogni 8 anni.
Il centesimo mese, che apparteneva sia al ciclo trascorso che a quello a venire, veniva chiamato "ianuarius", dal dio bifronte Giano, che aveva avuto in dono di vedere, oltre che il passato, anche il futuro.
I mesi venivano indicati con il numerale corrispondente alla loro posizione nell'anno: primus, secundus, ... quintilis sextilis, september, october, november, december. La caratteristica "stagionale" o di altro genere, di ciascun mese, veniva proclamata dal pontefice all'inizio di ogni anno civile, che poteva cadere in un qualunque periodo dell'anno astronomico. Il primo mese di primavera veniva chiamato "martius" da Marte, dio della guerra, perché in questo mese avevano inizio normalmente le operazioni belliche. A marzo seguiva "aprilis" dal verbo aperire (aprire) o da Apru (Afrodite) dea dell'amore; poi maius, da Maia, dea della crescita, quindi "iunius", mese di Giunone. Ovidio dà sull'etimologia di questi ultimi due mesi una diversa interpretazione. Egli suggerisce che maius sarebbe il mese dei vecchi (maiores) e iunius quello dei giovani (iuvenes); improbabile, ma dimostra come già ai suoi tempi le idee non fossero del tutto chiare sul calendario.
Comunque sia, i mesi dell'anno, a quell'epoca, avevano un nome fisso, costituito da un numerale da 1 a 10, ed uno variabile di anno in anno, che dava loro la connotazione stagionale. Soltanto il mese ianuarius, che era il primo ed ultimo mese del ciclo di otto anni (e cadeva quindi ogni due lustri), aveva una posizione fissa; la posizione di martius, aprilis, maius e iunius (e probabilmente di altri, di cui però non abbiamo notizia) era invece "fluttuante" rispetto all'anno lunare, che essendo di soli 10 mesi non poteva conservare la coincidenza con le stagioni. Se ad esempio in un dato anno martius coincideva con il 2° mese, l'anno dopo cadeva sul 4°, quello successivo ancora sul 6° e così via. Alla fine del primo lustro tornava a coincidere con il secondo mese e la sequenza si ripeteva, anche se leggermente sfalsata rispetto al ciclo stagionale.
Dopo due lustri, vale a dire 8 anni solari, la sequenza ricominciava identica, salvo che per uno slittamento stagionale praticamente inavvertibile. 99 mesi lunari, infatti, sono più lunghi di 1,6 giorni rispetto ad 8 anni solari, per cui ogni ciclo cominciava con 1,6 giorni di ritardo rispetto al precedente. Dovevano passare generazioni prima che lo sfasamento divenisse avvertibile e poteva essere corretto con una operazione molto semplice: bastava "sopprimere" un mese lunare ogni 144 anni circa, per mantenersi indefinitamente in fase con le stagioni.
Come si vede, si trattava di un calendario senz'altro complicato e forse non eccessivamente pratico ai fini civili, ma dotato di una struttura rigorosa e coerente e non privo di una sua eleganza formale, che si prestava a rappresentazioni grafiche suggestive.

Il calendario di Romolo non conosceva la suddivisone in settimane. Le date notevoli del mese erano legate al ciclo della luna. Ancor oggi, nelle campagne, i vecchi contadini tengono sempre conto dello stato della luna, se è crescente o calante, per dare inizio alle più svariate attività agricole. E' una tradizione popolare che affonda le radici nel più lontano passato. Allora, ai tempi di Romolo, il dominio della luna sulla vita della comunità era totale.
I giorni salienti del mese, e di conseguenza la sua suddivisione, erano determinate dallo stato della luna. Il primo giorno del mese erano le "calende" dal verbo calare, cioè chiamare, proclamare, perché era quello in cui il pontefice chiamava a raccolta il popolo e proclamava la luna nuova, cioè l'inizio del mese, dopo che era stata segnalata, da appositi scrutatori, l'apparizione della prima falce di luna.
La fase della luna crescente era divisa in due parti dalle "nonae", corrispondenti grosso modo al primo quarto di luna (così chiamate perché erano il nono giorno prima delle idi). La loro posizione era proclamata sempre dal pontefice, all'inizio del mese, e cadevano sul 7° o sul 5° giorno (il 6° era considerato infausto, perché pari). Il culmine del mese era costituito dalle idi (Idus), da iduare (dividere), giorno sacro al padre degli dei, Giove, che corrispondeva alla luna piena. Cadeva quindi il 15 giorno del mese o sul 13° (il 14 era escluso, per il solito motivo). Iniziava allora la fase di luna calante, i cui giorni venivano individuati in base alla distanza che li separava dalle calendae successive, senza ricorrenze particolari.
L'ultimo giorno del mese, quello senza luna, era denominato dies intermestris, cioè fra i due mesi, perché non apparteneva né all'una né all'altra delle due lune.

LA RIFORMA DI NUMA POMPILIO
Il calendario di Romolo fu modificato dal re Numa Pompilio (715-672 a.C.), passato alla storia per la sua passione di riformatore.
Il suo intento era, evidentemente, di rendere più pratico il calendario, facendo coincidere l'anno civile con quello astronomico, e stabilizzando i mesi. L'intento era buono, ma la riforma fu condotta in maniera molto approssimativa e pasticciona; un "fai da te" casereccio, caratterizzato da una totale mancanza di immaginazione e da una scarsa dimestichezza con l'aritmetica, ma in compenso dall'ossessione per la natura fausta o infausta dei numeri. Spia di un mondo contadino, intellettualmente e scientificamente povero e dominato dalla superstizione .
Paragonato ad altri calendari in uso nel mondo, quello di Numa brilla per assenza di logica e rigore. Egli tenta di creare un calendario solare, "stabilizzando" i mesi, ma non riesce a svincolarsi dalla tutela del mese lunare, nonostante un maldestro tentativo. Alla base della riforma, infatti, non c'è alcuna nuova scoperta astronomica, né un conteggio matematico di una qualche consistenza e nessun'altra logica al di fuori di quella di evitare il malocchio. Il riferimento temporale rimane sempre il ciclo lunisolare di otto anni, soltanto organizzato in una forma diversa.
Numa aggiunge due mesi al precedente anno di 10; la durata dell'anno viene così ad essere di 12 mesi lunari, pari a 354 giorni, abbastanza vicina a quella dell'anno solare. Egli decide di svincolare i mesi dal ciclo lunare e di stabilizzarli nell'anno. Per far questo modifica leggermente la loro lunghezza, fissandola in modo prestabilito. I mesi aggiunti prendono il nome rispettivamente di ianuarius, che segna l'inizio dell'anno, e februarius (da februare, purificare), il mese della purificazione e dei morti.
I mesi successivi, ormai stabilizzati rispetto al ciclo stagionale, prendono permanentemente il nome di martius, aprilis, maius e iunius; i rimanenti continuano a chiamarsi quintilis, sextilis, september, october, november e december, anche se ormai il numero non corrisponde più alla posizione nell'anno. Incongruenza a cui si pone rimedio con un artificio: la fine dell'anno liturgico viene stabilita al 23 febbraio (terminalia), in cui viene solennemente festeggiato il dio dei limiti spaziali e temporali, Terminus.
Nello stabilire la durata dell'anno e dei mesi riformati, i sacerdoti di Numa si posero quattro condizioni da rispettare. La prima che la durata dell'anno fosse quella di dodici mesi lunari, evidentemente per facilitare i calcoli. La seconda era di natura opposta, perché tendeva a svincolare i singoli mesi dal mese lunare, stabilendo a priori la loro durata. La terza, inderogabile, era che né l'anno, né i mesi avessero un numero di giorni pari, che era considerato infausto. La quarta, infine, indispensabile per poter mantenere il controllo del fasamento del calendario con le stagioni, era che il tutto, mediante opportuni "aggiustamenti" periodici, rientrasse esattamente nel ciclo lunisolare di 8 anni.
La durata di 12 mesi lunari è di 354 giorni, 8 ore e 48 minuti. Quella frazione di giorno in più rende piuttosto complicato il problema di rispettare contemporaneamente le quattro condizioni di cui sopra, e pertanto non c'è da meravigliarsi se i sacerdoti di Numa sono incappati in qualche errore. Vediamo come procedettero. Per rispettare la regola dei numeri dispari fausti, essi stabilirono che l'anno dovesse avere sempre una durata di 355 giorni. Quanto ai mesi, attribuirono a martius, maius, quintilis e october 31 giorni, mentre ianuarius e gli altri sei mesi mantennero la durata di 29 giorni. Februarius, il mese dedicato ai morti e all'espiazione, e quindi già intrinsecamente infausto, ne ebbe 28.
Dieci giorni in meno, rispetto all'anno solare, sono molti, e comportano un rapido slittamento delle stagioni, se non si interviene con periodici rifasamenti. Come riferimento per il rifasamento venne mantenuto il ciclo di otto anni, o meglio di 99 mesi lunari.
99 mesi lunari comprendono, arrotondati in eccesso, 2924 giorni; otto anni di 355 giorni ciascuno contano in totale 96 mesi e 2840 giorni; 96 mesi lunari, però, contano in realtà solo 2835 giorni, 5 in meno. A quanto risulta dalle cronache romane, i sacerdoti di Numa, per il calcolo del disavanzo rispetto al ciclo lunisolare di otto anni, presero erroneamente in considerazione la cifra di 2835 giorni, anziché quella esatta, per cui a loro risultava un disavanzo di 89 giorni, anziché di 84 com'era in realtà. Questi 89 giorni dovevano essere aggiunti in qualche modo agli anni del ciclo, per rifasarli con l'anno solare e mantenere i mesi relativamente fissi rispetto alle stagioni. Un'operazione che poteva essere fatta in vari modi. Numa scelse di aggiungerli in 4 "rate", le prime tre di 22 giorni ciascuna e la quarta di 23. Ogni due anni, pertanto, veniva aggiunto un mese intercalare, detto "mercedonio" (perché dedicato ai pagamenti ed azzeramenti di debiti) di appunto 22 (o 23 per l'ultimo) giorni, che veniva inserito dopo la festa di Terminus, fra il 23 ed il 24 febbraio.
Non sappiamo se l'errore di 5 giorni fosse effettivo, o se sia dovuto invece ad una svista, o inesattezza, di chi ha riferito in merito alla riforma di Numa. Questa seconda ipotesi sembrerebbe più verosimile. E in ogni caso dobbiamo presumere che si siano accorti presto dell'errore, rimediando in qualche modo; ad esempio accorciando la durata di febbraio a 27 giorni in 5 degli 8 anni del ciclo, o più semplicemente modificando la durata di uno dei mesi mercedoni. Niente di tutto ciò risulta dalle cronache, tuttavia, per cui non è affatto escluso che ci sia stato davvero un errore di conteggio iniziale, mai corretto in seguito.
Nella prima ipotesi, la precisione del calendario riformato era esattamente uguale a quella del precedente, essendo basato sullo stesso ciclo lunisolare. Ogni otto anni si aveva uno slittamento di 1,6 giorni. Lo sfasamento rispetto alle stagioni diveniva sensibile dopo un numero piuttosto elevato di anni, ma si poteva correggere molto facilmente. Quanto lo sfasamento raggiungeva l'ordine di grandezza di un mese lunare, e cioè ogni 144 anni, bastava "saltare" un mese e si ritornava alla situazione di partenza. Nella seconda ipotesi, invece, allo slittamento di 1,6 giorni si deve aggiungere anche l'errore di 5 giorni, per cui in totale si aveva uno sfasamento di ben 6/7 giorni ogni otto anni, per cui l'operazione di rifasamento doveva essere effettuata con una frequenza quattro volte superiore.
Fu probabilmente per facilitare questa operazione (o fu forse per correggere l'errore di 5 giorni?) che intorno al 450 a.C. venne effettuato un leggero ritocco al calendario di Numa, introducendo ufficialmente l'ottennio, cioè il ciclo lunisolare di otto anni. Gli anni mantennero la durata di 12 mesi lunari ciascuno, per un totale di 96 mesi; i rimanenti tre mesi del ciclo, anziché in quattro rate di 22 e 23 giorni ciascuna, vennero distribuiti in tre rate, ciascuna di un mese lunare, intercalati nel 3°, 6° e 8° anno (come avviene, ad esempio, nel calendario ebraico). Questo consentiva di rifasare indefinitamente il calendario allo scadere di ogni secolo e mezzo, semplicemente "saltando" un mese intercalare.
La riforma, tuttavia, non cancellò l'uso precedente, che rimase in vigore a discrezione dei sacerdoti e dei magistrati preposti. Il controllo dei mesi intercalari, infatti, era lasciato al loro arbitrio e questo diede luogo nel tempo ad abusi di vario genere, perché si verificò spesso che qualcuno usasse il proprio potere sul calendario, aggiungendo o togliendo mesi intercalari, per fini personali. Ci furono magistrati che ne beneficiarono ed altri che ne subirono le conseguenze. Verre, ad esempio, per fare eleggere alla carica di sommo pontefice un suo protetto, Climachia, accorciò l'anno di un mese e mezzo, facendo così anticipare le elezioni a data in cui il candidato favorito era assente per viaggio. Giocando coi mesi intercalari si potevano sconvolgere le scadenze per i pagamenti e rovinare uomini d'affari o creare fortune.
Gli abusi erano stati tanti e tali che nel 46 a.C: il calendario era "anticipato" di ben tre mesi rispetto ai tempi di Numa, tanto che i mesi della primavera, marzo, aprile e maggio, nonostante il loro nome, cadevano ormai in pieno inverno.
Per quanto riguarda la suddivisione del mese, Numa non modificò quella precedente, per cui il mese continuò ad essere scandito dalle calendae, nonae e idi. Più tardi, però, Anco Marzio introdusse una suddivisione, probabilmente di origine etrusca, in periodi nundinali, della durata di otto giorni ciascuno, che si succedevano dal principio alla fine dell'anno. Ciascun giorno era contrassegnato da una lettera dell'alfabeto, dall'A alla H. La loro funzione era di fissare ogni nono giorno la nundina (da nonus dies, nono giorno), cioè la data delle fiere e dei mercati. Il periodo che intercorreva tra due giorni di mercato, pur essendo di soli 7 giorni, era chiamato nundinum, perché i romani lo consideravano comprensivo dei giorni estremi di mercato.
Il giorno nundinale, dapprima festivo, divenne più tardi lavorativo, il che permise l'apertura dei tribunali per i contadini che venivano in città per il mercato. Per questa ragione un progetto di legge doveva generalmente rimanere esposto in pubblico per tre mercati consecutivi (trinundinum). Il trinundinum fu utilizzato anche come lasso di tempo legale nella vita politica e amministrativa, ad esempio per la convocazione e la riunione di un'assemblea, o per stabilire la sorte di un debitore insolvibile dopo la sua presentazione a tre mercati successivi.
Il calendario pregiuliano contava 44 periodi nundinali di otto giorni ciascuno, per un totale di 352, più altri tre giorni. Nel calendario giuliano, invece, si contavano 45 periodi nundinali, per un totale di 360 giorni, più cinque.

IL CALENDARIO GIULIANO
Giulio Cesare decise di mettere ordine nel calendario, sottraendolo all'arbitrio dei pontefici e fissandolo in modo rigido una volta per tutte. Ottenne ciò trasformandolo in un calendario essenzialmente solare, del tutto svincolato dai cicli lunari.
Per il calcolo della durata si rivolse all'astronomo greco Sosigene, che fissò la durata dell'anno solare in 365,25 giorni (leggermente superiore a quella reale). La riforma di Cesare consistette nello stabilire che la lunghezza dell'anno era di 365 giorni, salvo l'aggiunta di un giorno ogni quattro anni.
Il giorno supplementare non veniva aggiunto alla fine del mese di febbraio, come ora, ma come doppione del sesto giorno prima delle calende di marzo, cioè fra il 23 ed il 24 febbraio. Fu così che nacque il giorno "bis-sextus", il quale ha dato il nome all'anno bisestile.
A parte ciò, Cesare non apportò alcuna modifica alla struttura del calendario. Si limitò semplicemente a ridistribuire fra i mesi gli undici giorni che avanzavano: aprilis, iunius, sextilis, october e december vennero ad avere 30 giorni; ianuarius, martius, maius, quintilis, september e november 31; febbraio ne ebbe 29. La struttura dei mesi non venne modificata e neppure il loro nome.
Il nuovo calendario fu inaugurato ufficialmente il 1° gennaio del 45 a.C. (708 dalla fondazione di Roma) che però fu fatto slittare di ben 90 giorni. Per decreto di Cesare, infatti, l'anno 46 a.C. durò 455 giorni (rimanendo consacrato alla storia come "l'anno della confusione"), dimodoché il 1° gennaio cadesse all'inizio dell'inverno, come ai tempi di Numa. L'equinozio di primavera venne fatto cadere il 23 di marzo.
Qualche anno dopo, tuttavia, su proposta di Antonio, il mese quintilis venne ribattezzato "iulius", in onore di Giulio Cesare.
Nell'8 a.C. ci fu un ulteriore piccolissimo ritocco, operato da Augusto per correggere un errore perpetrato dai pontefici nell'applicazione delle istruzioni di Sosigene. L'astronomo greco aveva prescritto che dopo ogni tre anni normali ci dovesse essere un anno bisestile. Forse per un errore di traduzione o di interpretazione, i pontefici romani intercalarono il giorno bisestile ogni tre anni, anziché ogni quattro. In capo a 36 anni c'erano stati 12 anni bisestili anziché 9. Augusto rifasò le cose decretando che per i successivi 12 anni non ci fossero anni bisestili e ristabilendo poi la esatta sequenza di un anno bisestile ogni quattro.
In segno di gratitudine, il Senato decretò, nel 746 di Roma (8 a.C.) che il nome di Augusto venisse dato al mese di sextilis. Ma poiché il mese di Augusto non poteva avere un numero di giorni inferiore a quello di Giulio Cesare, e per di più un numero di giorni pari, considerato infausto, al mese di augustus fu aggiunto un 31° giorno, sottraendolo a febbraio, che tornò a 28 giorni. Per evitare una successione di tre mesi con 31 giorni, inoltre, si levò un giorno a september e november e lo si aggiunse rispettivamente a october e december.
Con questa ultima riforma la struttura dell'anno, per quanto riguarda la suddivisione in mesi, raggiunse la sua configurazione definitiva, che conserva tuttora.
Calendae, nonae e idi, nonché la suddivisione in nundinae, continuarono a persistere immutate, insieme a tutte le feste civili e religiose romane, per tutto il periodo pagano. Con l'avvento del cristianesimo, cominciò a divenire sempre più di uso comune la settimana di 7 giorni (septem manae, cioè sette giorni). Di origine orientale, essa era in uso nella Mesopotamia fin dai tempi più remoti ed era entrata a far parte del calendario ebraico dopo l'esilio babilonese.
A Roma era giunta al seguito dei culti orientali e naturalmente anche degli ebrei, fra cui erano sorte le prime comunità cristiane. I nomi dei giorni della settimana portano il nome dell'astro che segna la prima ora. Infatti le ore del giorno erano poste sotto il segno di sette astri. Il lunedì iniziava con l'ora della luna, il martedì con l'ora di Marte, il mercoledì con quella di Mercurio, il Giovedì quella di Giove, il venerdì quella di Venere. La domenica, o giorno del Signore (dominicus) era in origine segnata dall'ora del sole, astro principale, mentre il sabato (dal sabbat ebraico) era il giorno di Saturno.
L'uso della settimana andò diffondendosi di pari passo con la diffusione del cristianesimo e trovò la sua consacrazione definitiva, almeno ai fini liturgici, nel 325 d. C. con il Concilio di Nicea, quando i padri della Chiesa riuniti misero ordine nel calendario e fissarono i criteri per la determinazione della Pasqua e delle altre feste mobili, che fino a quel momento venivano stabiliti con criteri disuniformi.
Nel frattempo, poiché l'anno giuliano è leggermente più lungo di quello astronomico, l'equinozio di primavera era slittato al 21 marzo. Il concilio di Nicea non operò alcuna correzione. Si limitò a "fotografare" la situazione dell'epoca e su quella base fissò le regole per il calcolo della Pasqua e delle altre feste mobili, e congelò le feste fisse.
Con il concilio di Nicea il calendario assunse la sua forma strutturale definitiva, che conserva tuttora. Fu però soltanto nel 392 d. C. che la settimana entrò ufficialmente anche nell'uso civile e furono abolite le nundina e ogni altra ricorrenza del calendario giuliano, grazie ad un editto dell'imperatore Teodosio che vietava qualsiasi manifestazione del culto pagano, pubblica e privata, e metteva fuori legge il paganesimo in tutto l'impero.

IL CALENDARIO GREGORIANO
Il calendario giuliano servì egregiamente il mondo romano per oltre un millennio. Nel frattempo, però l'anticipo dovuto alla leggera imprecisione dell'anno giuliano (11 minuti in più rispetto all'anno astronomico) s'era venuto accumulando. La differenza di durata è tale per cui si ha uno slittamento di un giorno intero ogni 128 anni circa. Nel sedicesimo secolo si era accumulata una differenza di 12 giorni rispetto all'epoca di Cesare e di 10 rispetto al concilio di Nicea, tanto che l'equinozio di primavera cadeva l'11 marzo. Uno sfasamento non tale da essere avvertito per quanto concerne le stagioni, ma sufficiente per creare problemi nella determinazione della Pasqua, sulla quale è regolato tutto il calendario ecclesiastico. Al concilio di Nicea era stato stabilito che essa venga celebrata la domenica successiva al primo plenilunio di primavera, che all'epoca aveva inizio il 21 marzo, data del equinozio. Le altre feste mobili vengono fissate di conseguenza: la domenica di settuagesima, sessuagesima e quinquagesima, le domeniche di quaresima, quella delle palme, la festa di Pentecoste, l'Ascensione ed il Corpus Domini.
Si capisce, quindi, di quanta importanza era, nel Medio Evo, determinare esattamente, ogni anno, in quale giorno dovesse cadere la Pasqua, dal momento che intorno ad essa veniva costruito l'intero calendario. Computisti ed astronomi, quindi, immaginarono diversi sistemi per poter effettuare agevolmente questo calcolo, come il ciclo solare e lunare, il numero d'oro, l'epatta ecc., cui si accennerà più avanti. Lo slittamento del calendario rispetto all'equinozio di primavera metteva in crisi l'intero sistema. Diversi tentativi per correggere il calendario si fecero quindi fin dal principio del Medio evo e continuarono più o meno alacremente, finché nel XIII secolo Giovanni da Sacrobosco, Roberto Grosseteste e specialmente Ruggero Bacone, studiarono la questione più da vicino, facendo vere e proprie proposte di riforma.
Nel secolo XV i papi stessi si fecero promotori di questi studi: Clemente VI dava incarico a valenti matematici di studiare la materia e più tardi ai Concili di Costanza (1417) e di Basilea (1434), furono presentati dei progetti di riforma di Pietro d'Ailly e di Nicolò da Cusa. Anche Giovanni Muller, detto Regiomontano, se ne occupò per incarico di Sisto IV.
Ma fu soprattutto nel XVI secolo che gli studi sulla riforma furono intrapresi con grandissima attività. Leone X, bramoso di venirne a capo, se ne interessò di proposito, scrivendo all'Imperatore, alle università, ai vescovi e ai più insigni matematici del periodo, perché si prendesse a cuore la questione. E infatti, durante il quinto concilio Lateranense (1513-1517), scritti opportuni furono pubblicati da diversi scienziati.
Spetta dunque a questo papa il merito di aver lanciato la riforma, che doveva essere finalmente attuata da papa Gregorio XIII. Questo papa, fin dai primi anni del suo pontificato, nominava una commissione di dotti italiani e stranieri perché prendessero in esame diversi progetti di riforma ultimamente presentati. Fra questi si distingueva per chiarezza e semplicità il piano di riforma concepito ed elaborato dal calabrese Luigi Lilio. La riforma consiste semplicemente nel "togliere", rispetto al calendario giuliano, 3 giorni ogni 400 anni, il che si effettua "saltando" tre anni bisestili. Il piano di distribuzione degli anni bisestili è stato studiato appunto da Lilio e si completa in un periodo di 400 anni, che in suo onore viene chiamato "Periodo Liliano".
Vale la pena riassumere brevemente le caratteristiche essenziali del periodo liliano, che governa attualmente il nostro tempo. L'anno può essere comune, di 365 giorni, o bisestile, di 366. Sono bisestili tutti gli anni le cui ultime due cifre siano divisibili per 4, ad eccezione degli anni di fine secolo il cui numero indicativo non sia divisibile anche per 400. Pertanto ogni 400 anni successivi vi sono tre anni di fine secolo che sono defettivi rispetto alla regola generale, e cioè comuni (tali furono il 1700, 1800 e 1900; e tali saranno il 2100, 2200, 2300, 2500 ecc.) ed uno che rimane bisestile (1600, 2000, 2400 ecc.). Si ha così una suddivisione in cicli di 400 anni, aventi caratteristiche identiche fra loro.
Oltre che correggere il lieve errore temporale, il piano prevedeva di ripristinare la situazione astronomica esistente al tempo del concilio di Nicea (questo, anzi, era lo scopo principale della sua riforma), quando l'equinozio di primavera cadeva il 21 marzo. Per rifasarsi su quella data, Gregorio XIII "saltò" 10 giorni, ordinando, con la bolla "inter gravissimas" (del 21 febbraio 1582), che il venerdì 5 ottobre 1582 diventasse 15 ottobre 1582.
Il calendario gregoriano fu immediatamente adottato in Italia, Francia e Spagna, ed in generale in tutti i paesi cattolici. I protestanti tedeschi lo adottarono nel 1700 e l'Inghilterra nel settembre del 1752. I russi e i greci continuarono a seguire il calendario giuliano fino al 1921 e 22 (ma la chiesa ortodossa, ai fini religiosi continua tuttora a seguire il calendario giuliano).

Un serio tentativo di razionalizzare il calendario lasciatoci in eredità dai romani fu effettuato nel corso della rivoluzione francese, che voleva anche simbolicamente operare un taglio netto con il passato e i suoi simboli. La forma temporale, rimase la stessa del calendario gregoriano, con l'anno di 365 giorni, gli anni bisestili, il ciclo liliano.
La struttura interna, invece, fu in qualche modo razionalizzata, anche se si cercò di allontanarsi il meno possibile dalla struttura tradizionale. Innanzitutto l'inizio dell'anno fu fatto coincidere con un avvenimento astronomico significativo; fu scelto l'equinozio d'autunno. L'anno repubblicano ebbe così inizio il 22 settembre 1792.
L'anno continuò ad essere suddiviso in 12 mesi, aventi, però, tutti la stessa lunghezza di 30 giorni. I restanti 5 (o 6) giorni venivano aggiunti alla fine dell'anno ed erano considerati festivi.
I nomi dei mesi vennero tratti dalle loro caratteristiche stagionali: vendemmiaio, brumaio, frimaio quelli autunnali (i primi dell'anno); nevoso, piovoso, ventoso i mesi invernali; germinale floreale, pratile i mesi di primavera e messidoro, termidoro, fruttidoro quelli estivi.
Ciascun mese era suddiviso in tre decadi, per un totale di 36 nell'anno, e i giorni della decade erano chiamati: primidì, duodì, tridì, quattridì, quintidì, sestidì, settidì, ottidì, nonidì e decadì. L'ultimo giorno della decade era festivo.
Anche il sistema di computo delle ore venne riformato. Il giorno, da un mezzanotte alla successiva, era diviso in dieci parti o ore, ciascuna ora in cento minuti decimali, e ciascun minuto in cento secondi decimali, per un totale di centomila secondi al giorno.
Tutto sommato un calendario di facile comprensione e memorizzazione, ma burocraticamente grigio e privo di poesia. Nessuno lo rimpianse quando fu abolito da Napoleone il 31 dicembre 1805.
Vale la pena accennare brevemente anche ad un altro tentativo di razionalizzazione del calendario giuliano, operato dall'astronomo russo Glasenapp, che portò alla introduzione del calendario russo riformato, rimasto in vigore per poco più di venti anni. La Russia si era sempre rifiutata di accettare il calendario gregoriano, per ragioni di prestigio, ed anche quando, per le solite ragioni del calcolo della Pasqua, si persuase ad effettuare una riforma, si rifiutò di adottarlo. Invece, il 21 febbraio (6 marzo secondo il calendario attuale) 1900, fu approvata dalla Società Astronomica di Pietroburgo una proposta di modifica presentata da Glasenapp, che prevedeva:

  • saranno bisestili tutti gli anni del calendario che sono divisibili per 4, eccettuati quelli divisibili per 128;
  • questo metodo di intercalazione si supporrà applicato fin dal primo anno dell'era volgare e ciò allo scopo di ricondurre e mantenere al 23 marzo l'equinozio di primavera, come era appunto nell'anno della nascita di Cristo.

Da notare che questo calendario è assai più preciso di quello gregoriano, in quanto si ha uno sfasamento di un giorno soltanto dopo 80 mila anni, contro i 3000 del primo.

A partire dal 1923 tutti i paesi della Terra hanno adottato, per gli usi civili, il calendario gregoriano, che perciò è detto anche "calendario civile".
Con la riforma gregoriana, quindi, possiamo considerare conclusa per sempre l'evoluzione del calendario, che ha raggiunto una sua configurazione soddisfacente per quanto concerne la durata ed il controllo degli slittamenti, ormai abbastanza contenuti (si ha infatti uno slittamento di un giorno ogni tremila anni). Quanto alla struttura formale, esso non può certo definirsi un modello di razionalità e coerenza; ma ormai è così connaturato con la vita della società, così diffuso e familiare, che difficilmente qualcuno proporrà mai di modificarlo, a meno di una rottura traumatica nella continuazione della civiltà mondiale.
Questo, dunque è il calendario che la civiltà occidentale ha prodotto e consegnato alle generazioni future di tutto il mondo; il suo biglietto da visita per i secoli a venire. Quasi perfetto da un punto di vista temporale. Un patchwork irrazionale, formato dai resti "fossilizzati" di tutti i calendari che l'hanno preceduto, per quanto riguarda la struttura, che fondamentalmente è rimasta la stessa stabilita da Numa Pompilio, con quella sua riforma pasticciata e priva di immaginazione. Piccolo sovrano di un piccolissimo popolo di contadini e pastori guerrieri, che dalla sua agreste dimora, lontana 28 secoli, continua a regolare il tempo della potentissima e orgogliosa società industriale moderna.

di Flavio Barbiero
flbarb@tin.it